martedì 30 novembre 2010

Passare il Segno


Mi ci era voluto diverso tempo per decidermi, ma alla fine ero giunta ad una conclusione: sarei andata a trovarlo quella notte stessa. Che gli altri dicessero pure quello che volevano, che sparlassero pure di me.
“Cristina, lo sai che non si fanno queste cose, non si va a trovare un ragazzo in piena notte. Non è educato, ecco.” Questo me l’aveva detto mia nonna Maria Rita. Ma si sa che gli anziani sono legati a tradizioni di un tempo antico, troppo passato. Quando lei era giovane, quello che poi è diventato il nonno doveva farsi più di dieci chilometri a piedi per andarla a trovare. E lei? Non ha mai osato fare una cosa del genere. Cavalleria di una volta, ma i tempi sono cambiati, sono nata in un mondo diverso, e avevo intenzione di godermi la notte come mi pare e piace! Dopotutto Marcello è un ragazzo d’oro, cosa avrebbe mai potuto farmi? E soprattutto, anche avesse reagito male, come avrebbe potuto farmi qualcosa? A me, il suo dolce angelo?
Per cui quella gelida notte di novembre mi trovavo davanti a casa di Marcello. Tirava un forte vento e la neve stava per decidere di lanciarsi giù dalle nuvole bianche e vaporose. Erano quasi le due, ma dalla finestra di camera sua, al secondo piano di una piccola villetta a schiera, brillava ancora la luce di una lampada. Povero Marcello, come al solito doveva essersi addormentato sul letto mentre studiava per il prossimo esame universitario. Psicologia era una dura materia.
Mi avvicinai alla porta con passo silenzioso. E se non avesse gradito la mia visita? E se si fosse spaventato? Beh, era troppo tardi per tornare indietro. Mi infilai in casa e sgattaiolai al piano superiore. I suoi genitori stavano già dormendo della grossa nella camera da letto. Tipi simpatici, ma chissà cosa avrebbero detto se mi avessero trovata qui a quest’ora!
Arrivai in camera sua e lo vidi: ci avevo visto giusto, Marcello si trovava riverso sulla scrivania, con il volto appoggiato sopra un pesante libro aperto, e stava dormendo della grossa. Guardai il suo bel volto, incorniciato da capelli castani. Stava dormendo così beatamente che ero indecisa se svegliarlo. Passai forse diversi minuti ad ammirarlo, quando fu lui ad aprire lentamente gli occhi.
Per un attimo assunse un’espressione allibita. Io gli sorrisi in maniera materna. Si mise a sedere sulla sedia, ancora incredulo per la mia presenza.
“Cristina? – disse, sottovoce – che ci fai qui? Sto sognando?”
Sorrisi divertita.
“Sì, stai sognando. È tutto un sogno”, gli dissi.
“Anche se è un sogno è bello vederti. Come stai?”, rispose. Il tono di voce era ancora incredulo, ma ora appariva molto più rilassato.
“Bene. Più bene di così non penso che si possa.”
Mi avvicinai e lui, pur rimanendo seduto, ruotò la sedia da computer rivolgendola verso di me. Mi sedetti a cavalcioni sulle sue ginocchia, guardandolo negli occhi.
“Ho poco tempo – dissi, toccandogli il volto con le mani – qualcuno potrebbe accorgersi della mia assenza.”
“Hai le mani fredde”, rispose lui.
“Fuori fa freddo – dissi – riscaldami.”
Dopo lungo tempo, provai sensazioni fisiche. Il nostro primo bacio fu timido, lui si ritrasse per qualche secondo, poi mi baciò con passione. Le sue mani si appoggiarono sui miei fianchi, percorsero la mia schiena. Tutto sembrava essere attutito, ovattato. Ma finalmente lui era di nuovo con me. Continuammo a baciarci, poi lui si alzò e mi portò tenendomi in braccio verso il suo letto. Io lo guardavo fisso negli occhi.
“Un sogno, non è vero?”, mi chiese di nuovo.
Non risposi. Lo presi per il colletto della maglia e lo trascinai giù, verso di me. I miei sensi si annullarono quasi del tutto, mentre la mia mente correva e si elevava ad uno stadio superiore. Sentivo le sue mani che percorrevano il mio corpo, mentre io facevo lo stesso con le mie. Lui era caldo, quasi bollente. Le mie mani continuavano ad essere gelide. In capo a pochi minuti i nostri vestiti non c’erano più e a proteggerci dal freddo c’erano solamente le coperte. Tutto avvenne in maniera veloce, ma ai miei occhi esageratamente lenta. Quando tutto avvenne mi annullai: non ricordavo più quello che ero. Ricordavo solo di essere viva per la prima volta dopo tanto tempo.
Ci accasciammo stremati l’uno sull’altro. Lui aveva gli occhi chiusi, ma mi stringeva forte.
“Sei ancora fredda”, disse sorridendo.
“Mi dispiace, non posso farci niente…”, risposi io, sorridendo e lacrimando allo stesso tempo.
Alzai lo sguardo verso di lui e poi il mio occhio cadde sul comodino di fianco al letto. Fotografie incorniciate. Foto di Marcello insieme ad un’altra donna. Forse poco più grande di lui, alta, dai capelli biondi. Foto dove si baciavano. Foto da fidanzati.
“E quella chi è?”, gridai.
“Quella? Chi?”, rispose lui sorpreso.
“Quella!”, dissi, mettendomi a sedere mentre indicavo le foto.
“Quella… quella è Ludovica, la mia ragazza…”, disse Marcello, serio.
“La tua ragazza? La tua ragazza? Pensavo di essere io la tua ragazza!”, urlai.
“Cristina, tu eri la mia ragazza… ma tu sei morta”, rispose lui.
“Pensi che questa sia una giustificazione? Solo perché un tir mi ha schiacciato pensi che io non possa più essere la tua ragazza? Mi tradisci così! Sei solo un bastardo!”
“Cristina, aspetta, ma questo non è un sogn…”
Non gli diedi il tempo di finire la frase che fluttuando e passando attraverso le pareti mi fiondai fuori da casa sua. La neve ora stava cadendo della grossa.
Aveva passato il segno. L’avevo fatto anche io morendo, ma non era una giustificazione valida. Quel bastardo. Avrei dovuto dare retta alla nonna, che sicuramente ora era molto preoccupata non vedendomi tornare.
“Bastardo, non voglio vederti mai più”, urlai alla casa, mentre lacrimavo. Poi fluttuai verso il cielo piangente, per tornare a casa della nonna.

[Esercizio: scrivi una scena d'amore in prima persona ma con protagonista una persona di sesso opposto al tuo.]

lunedì 1 novembre 2010

La Strategia dei Fiori di Ciliegio


Il Capitano Sekigawa si trovava seduto a gambe incrociate sul ciglio della collina erbosa e fissava con sguardo severo l’ampia Vallata dei Ciliegi che si stagliava sotto di lui, mentre una pallida luna brillava nel cielo notturno. Una vera e propria meraviglia della natura agli occhi degli uomini, ora che i ciliegi erano in piena fioritura e centinaia e centinaia di piccoli petali rosa si muovevano sospinti dal vento. Sembrava quasi che l’intera vallata fosse viva, come un unico organismo vivente che lentamente respirava, un neonato appena venuto al mondo.
“Capitano…”
Sekigawa spostò lo sguardo dalla magnificente bellezza della valle e, sistemandosi le ottiche, portò lo sguardo verso l’uomo che aveva parlato. Il suo secondo in comando, il Tenente Izumi.
“Non dovresti riposare, tenente?”, disse riportando lo sguardo verso il paesaggio.
“Questo spettacolo mi mozza il fiato, capitano. Il resto degli uomini sta dormendo come se fossero in letargo, ma io non ce la faccio.” Sekigawa notò che la voce di Izumi era tremolante, insicura.
“Qual è il problema, tenente? Sento del nervosismo nella tua voce.”
“Domani dovremo scendere laggiù”, disse prima di bloccarsi.
“Sì, è così. Con le prime luci dell’alba caleremo sulla vallata. I banditi che stanno flagellando la satrapia di Fong Bei si nascondono laggiù. Sono una dozzina, a quanto ci hanno riferito. Niente che non possiamo affrontare.”
“Lo so capitano. Ci hanno pagato per farlo.”
“Allora qual è il problema?”, rispose di scatto Sekigawa, voltandosi nuovamente verso Izumi.
“Il problema è che ho paura capitano. I vostri cavalli e i vostri uomini marceranno su quel paesaggio incontaminato. Le piante di ciliegio ne verranno contaminate, distrutte. Se un Dio veglia su quella valle, ne sarà certamente furioso.”
Sekigawa si alzò in piedi e si avvicinò a Izumi, posandogli le mani sulle spalle, come per rassicurare un vecchio amico.
“Ed è per questo che non siamo scesi durante la notte. I vili agiscono lontano dalla luce. Noi caleremo come una forza pacificatrice, spronati dalla luce del sole che sorge. I banditi si arrenderanno alla nostra magnificenza e nemmeno un singolo petalo di ciliegio sarà calpestato. Ricordatelo sempre Izumi: la Compagnia della Tigre Orientale porta con sé delle armi per far sì che nessuno debba mai più usarle. E anche se dovesse succedere qualcosa laggiù, un imprevisto che faccia macchiare di sangue quel sacro terreno, allora ti prometto che se sarà necessario dedicherò il resto della mia vita per riparare quel torto.”
Izumi annuì verso il suo capitano, ora visibilmente rassicurato.
“E se il Dio dei Ciliegi si adirasse?”, chiese.
“La mia offerta basterà a placare qualsiasi furia”, rispose sicuro Sekigawa.
“Se fossimo sull’Isola Benedetta – rispose ridendo Izumi – una frase del genere vi sarebbe costata l’accusa di eresia!”
“Se fossimo sull’Isola Benedetta – disse serio il capitano – un’accusa di eresia sarebbe l’ultimo dei miei problemi.”

[Esercizio della settimana: scrivi un dialogo!]
[Sì, ho usato l'ambientazione di Exalted.]