giovedì 31 luglio 2014

Il Peggior Doposbornia Della Mia Vita



“Due pinte di birra. La triplo malto nanica, e anche in fretta.”
“Cletus, ne hai già bevute cinque”, disse sconsolato l’oste.
“E con questo? Voglio le mie due pinte di birra.”
“Ma che te ne fai di due pinte, sei al tavolo da solo, non puoi prenderne una e quando l’hai finita ordinare la seconda?”
“E va bene, portami tre pinte di birra!”, ruggì Cletus Crane, sbattendo il boccale vuoto sul tavolo.
“Vedi di non causarmi problemi, Cletus”, disse l’oste scuotendo la testa, poi girò sui tacchi e si recò in direzione delle botti.
La serata era iniziata nel migliore dei modi. Cletus si era svegliato al tramonto, con un incredibile cerchio alla testa causato dai bagordi che si erano protratti fino al mattino precedente, e si era recato alla Pulzella Quasi Vestita per riprendersi dal dopo sbornia con l’unico metodo che conosceva: continuare a bere!
Era la quinta sera di fila che si recava in quel posto. Cletus, che di mestiere faceva l’avventuriero, ma all’occorrenza anche il mercenario, il brigante, la guardia del corpo e innumerevoli altri mestieri di cui millantava una decennale esperienza, era un omaccione grande, con la testa rasata e una considerevole pancia frutto di una lunga relazione amorosa con l’alcool. Solo i più attenti avrebbero potuto notare il sangue di orco che gli scorreva nelle vene: il naso porcino, i canini più lunghi nel normale e la mascella sporgente erano gli unici indizi. Sicuramente non era frutto di una violenta relazione tra un’umana e un orco, molto più probabile che il mostro cannibale fosse stato suo nonno, o forse il suo bisnonno. Ma finché qualcuno non glielo faceva notare, la cosa non gli importava molto.
Cletus era disoccupato da quasi tre settimane. I guadagni della sua ultima impresa erano stati meno di quanto si aspettasse, ma d’altronde poteva capire l’astio di quel nobilotto a cui aveva fatto da guardia del corpo quando aveva scoperto che sua figlia diciassettenne, a cui aveva fatto mettere una cintura di castità e che non poteva allontanarsi dal palazzo neanche per un pic-nic con le amiche, era gravida. Quando Lord Thaumbel aveva convocato un divinatore per individuare il responsabile, Cletus aveva capito che la situazione stava diventando troppo grossa persino per lui (esattamente come quando Claire Thaumbel aveva urlato “ma è troppo grosso!”), così era sparito assieme all’argenteria e a un paio di arazzi di seta.
La taglia sulla sua testa nella provincia di Kora si aggirava sui cinquecento pezzi d’oro.
Ripensando alla vicenda si fece una sonora risata, che attirò l’attenzione degli avventori del locale. Cletus ne riconobbe qualcuno. C’erano il miliziano a cui aveva fatto un occhio nero due sere prima, il nano a cui aveva vomitato addosso non ricordava bene quando (forse ieri sera?) e la giovane serva con due bocce considerevoli che gli aveva detto che era un porco, che puzzava di merda e che poteva andare ad affogarsi nel porto. Uno dei migliori complimenti che avesse mai ricevuto.
Finalmente l’oste gli mise di fronte i due boccali pieni di birra. L’avventuriero ne afferrò uno, trangugiò il contenuto in una sorsata, piantò un sonoro rutto e si dedicò immediatamente all’altro. Decise di degustare la settima birra con più calma, perché cominciava ad essere brillo, e quando Cletus Crane era brillo era sempre bene che avesse un boccale sotto mano. Solitamente, per tirarlo in testa a qualcuno che voleva fare lo sbruffone o che voleva fargliela pagare per qualcosa.
L’avventuriero assaporò le bollicine della birra, e pensò che la pacchia sarebbe durata ancora per poco. I soldi stavano per finire, presto avrebbe dovuto rimettersi in cammino a cercare fortuna, il che significava niente alcool e puttane fino a che non l’avesse trovata.
Per la prima volta nella sua vita, decise di giocare d’anticipo. Si alzò dallo sgabello e con un balzo felino salì in piedi sul tavolo.
“Io sono Cletus Crane – annunciò ad alta voce, catturando l’attenzione di tutti i presenti – e cerco lavoro. Sono il migliore avventuriero che possiate trovare da qui a Soira Madhera. Cerco qualcuno che finanzi le mie prodigiose imprese. Chi è con me?”
“E che cosa sai fare, a parte bere come un cammello?”, disse il miliziano con l’occhio nero, scatenando le risate di tutti i presenti.
“Riempire di legnate gli stronzi”, rispose Crane. Senza alzare la voce.
L’oste si mise una mano sugli occhi e scivolò sotto il bancone. Aveva il sentore che presto la Pulzella Quasi Vestita sarebbe stata sfasciata di nuovo.
Il miliziano, che era alto e magro, avanzò in direzione di Cletus, che di tutta risposta saltò giù dal tavolo.
“Hai il coraggio di ripeterlo?”, disse Occhio Nero.
“Riempire-di-legnate-gli-stronzi – scandì Cletus – stronzi di vacca aggiungerei, sono quelli che puzzano di più.”
“Questa volta non esci vivo da qui”, minacciò il miliziano.
“E chi mi ammazza? Tu non sai con chi hai a che fare.”
Occhio Nero fece un cenno con la mano, e due individui si fecero avanti tra la folla che aveva fatto cerchio attorno ai due. Entrambi portavano le divise della milizia. Uno era un piccoletto con la faccia da topo, mentre il secondo era alto, molto magro e aveva orecchie a punta che indicavano la presenza di sangue elfico. Occhio Nero estrasse un coltello dalla cintola.
“Scommetto due monete d’oro sui miliziani”, disse qualcuno tra gli spettatori.
Cletus non esitò nemmeno un istante. Si voltò verso il mezzelfo e gli schiantò il boccale di birra in piena faccia. I frammenti di coccio si infilzarono nelle sue guancie, e con un grido crollò per terra.
“No, io ne scommetto tre sull’ubriacone!”, gridò qualcun altro.
Occhio Nero balzò in avanti cercando di affondare con il coltello, mentre Faccia da Topo diede due pugni nei reni a Cletus. Il mezzorco incassò il colpo sputacchiando della birra, afferrò il braccio teso di Occhio Nero e lo spezzò con un colpo secco. Il pugnale gli cadde di mano e andò a conficcarsi per terra.
Occhio Nero crollò piangendo e guardandosi il braccio spezzato. Faccia da Topo osservò Cletus con espressione sconsolata.
“I casi sono due. O mi paghi da bere finché non crollo, o ti riduco come il tuo amico. Pensaci bene”, disse Crane.
Tre minuti dopo, Cletus era seduto al bancone con quattro boccali pieni di birra davanti a sé. I due miliziani feriti erano stati portati via dal loro amico, e alla Pulzella Quasi Vestita era tornata la calma.
“Quello lì è una bestia”, disse qualcuno degli avventori.
“E pensa che è tutta la sera che beve come se non ci fosse un domani. Avessi dei soldi, lo assolderei come guardia”, disse un altro.
“E che te ne fai di una guardia?”, disse ridacchiando il primo.
Cletus si alzò in piedi, tenendo un boccale per mano, e li alzò al cielo.
“Io sono Cletus Crane, e se vengo pagato faccio qualsiasi cosa vogliate. Mi servono soldi, oro in cambio di servizi. Spaccare culi è il lavoro che mi riesce meglio.”
“Secondo me non li reggi altri quattro boccali”, disse un vecchio. Nella sala scoppiò una risata.
“Che state dicendo? Io ho iniziato a bere alcool quando ero ancora nelle ovaie di mia madre. La vecchia trangugiava due galloni per volta, e io sono venuto su forte.”
“Anche mia sorella ci dava dentro con il distillato di prugne quando era incinta, e infatti mio nipote è nato scemo”, disse un contadino.
“Io sono Cletus Crane – ribadì, come se gli avventori non l’avessero ancora capito – mangio il fuoco di drago a colazione e ho la fava più grande che si sia mai vista a nord delle terre dei giganti. Se dico che posso bere tutte queste birre senza vomitare, vuol dire che è vero. Io non dico mai cazzate.”
“Scommetto un pezzo d’argento che crolli prima”, disse il contadino.
Altri avventori si unirono al coro. Se Cletus ce l’avesse fatta, avrebbe guadagnato l’incredibile somma di undici pezzi d’argento, sufficienti a garantirgli altri due o tre giorni di bagordi.
Il metodo migliore per bere senza risentirne, era bere il più velocemente possibile. Gliel’aveva insegnato un nano quando aveva fatto il cercatore d’oro nel Naghal-Dhun, e sebbene dopo aver trangugiato un intero barilotto di birra di funghi avesse sbrattato il contenuto del suo stomaco come un attore consumato che interpreta una mosca gigante della Gora di Adabellion intenta a vomitare acidi sulla preda, aveva resistito il tempo necessario a vincere alcune scommesse.
Cletus si portò alla bocca i due boccali che stringeva tra le mani, trangugiandone il contenuto. La manovra fu talmente goffa che gran parte della birra si riversò sul suo volto, inondandone i vestiti, ma gli avventori ignorarono l’evento ed esultarono per la buona riuscita dell’impresa.
Afferrò dal bancone i due rimanenti boccali, e tracannò anche quelli, uno per volta. Il suo stomaco stava cominciando a dare segni di cedimento. Quando, soffiando come un cavallo a cui manca il respiro, finì di bere le ultime gocce, dalla folla radunata esplose un boato.
Barcollando si diresse verso gli avventori per raccogliere il compenso. Alla fine del giro aveva tra le mani otto monete d’argento. Alcuni degli scommettitori si erano dileguati, ma Crane era talmente ubriaco che non se ne rese nemmeno conto.
“Posso fare il culo due volte a tutti quanti, nessuno batte Cletus Crane al suo stesso gioco”, disse biascicando e puntando il dito sulla folla.
Nel tornare a sedersi inciampò sul suo stesso sgabello e finì con la fronte contro lo spigolo del bancone. Sentì il sapore del sangue in bocca, si dette dell’idiota per essersi morsicato la lingua e poi svenne.

Quando riprese i sensi, qualche minuto più tardi, si rese conto di essere a faccia in giù in una pozza del suo stesso vomito. Il sangue che gli usciva dalla fronte si era mischiato ai liquidi marroni che inondavano il pavimento, e la folla era radunata attorno a lui con aria preoccupata.
Nonostante avesse rimesso buona parte della birra bevuta quella sera, si sentiva ancora straordinariamente brillo, e soprattutto non sentiva alcun male alla testa.
Si accorse che un uomo gli stava frugando nelle tasche e tentò di mandarlo via con una sventola, ma colpì solamente l’aria.
“Vattene, ladro! Se ti prendo ti faccio bere il mio vomito…”, biascicò.
“Ma che ladro e ladro! – disse il contadino – hai vomitato tutto quanto, mentre eri svenuto. E ora mi riprendo i miei soldi.”
“Quelli mi servono per bere, accidenti a te! Accidenti a tutti voi!”, disse tirandosi in piedi. Con la fronte piena di sangue e i vestiti sporchi di vomito assomigliava a una qualche specie di mostro della palude.
“Figlio di puttana, mi hai spaccato il bancone con la tua testaccia maledetta!”, gridò l’oste.
Cletus si voltò nella sua direzione. Effettivamente, nel punto in cui aveva sbattuto la testa, si era formata una grossa crepa che aveva staccato dal bancone un bel pezzo di legno. Doveva aver preso una botta considerevole, ma non sentiva alcun dolore. Si sentì benedetto dagli dèi. Tra i fumi dell’alcool, pensò che la magia dei nani, quella che rendeva quei piccoli bastardi così forti, doveva essersi estesa anche alla birra che stava bevendo, per averlo fatto diventare così resistente. Ridacchiò divertito e sputò per terra.
“Cletus Crane ha la testa più dura di… di…”
Vomitò di nuovo, riversandosi il contenuto dello stomaco sulle scarpe.
“La testa più dura del suo culo”, disse un avventore. Tutti in taverna iniziarono a ridere.
“Ah sì? Ve lo dimostro! – gridò Crane, poi si dette un pugno sulla fronte ferita – posso spaccare qualsiasi cosa con la testa! Qualsiasi!”
Nonostante il colpo fosse stato violento, non aveva sentito alcun male.
Dall’altro lato della stanza volò un boccale di coccio, che andò a schiantarsi sulla testa del mezzorco, coprendolo di birra. Lui di nuovo non sentì il minimo dolore, e sorrise sardonico in direzione di chi gliel’aveva tirato.
“Un argento! Mi devi un argento! Qualcun altro vuole farsi avanti?”
I boccali iniziarono a piovere come nel famoso uragano che devastò Saul nel 1.156. Cletus allargò le braccia e ricevette la scarica di cocci come un vero eroe. Arrivato al tredicesimo boccale, perse il conto di quanto gli dovevano gli avventori, ma l’alcool nel corpo gli suggerì che non doveva preoccuparsene, perché avrebbero pagato comunque.
La tempesta di colpi si fermò solo quando tutti i boccali della Pulzella Quasi Vestita furono ridotti in frantumi ai piedi di Crane. L’oste stava piangendo tenendosi appoggiato a una parete, mentre gli avventori stavano parlottando ammirati tra di loro.
“Avete visto? Io sono immortale! Io sono un eroe! Io sono…”
“Scommetto che c’è qualcosa più duro di te!”, disse qualcuno.
L’avventuriero cercò con lo sguardo chi aveva parlato. Era un ragazzo dai capelli color paglia, che identificò come lo stalliere che lavorava in fondo alla strada. Cletus gli aveva lasciato in custodia la sua mula, qualche giorno prima.
“Di sicuro la mia fava è più dura della mia testa!”
“Non ne dubito, ma scommetto cinque pezzi d’oro che io ho qualcosa che tu non puoi rompere.”
“Ucciderò chiunque! Spaccherò tutto! Quei cinque pezzi d’oro sono già in mano mia!”
Lo stalliere gli fece cenno di seguirlo. Tre avventori dovettero aiutarlo a reggersi in piedi, ma lui proseguì con il petto gonfio come un tacchino e andò dietro al ragazzo, che lo condusse fuori dalla taverna, fino alla stalla dove lavorava. L’odore di feci e paglia ammuffita fecero venire a Cletus un altro conato di vomito, che riuscì a reprimere.
I tre uomini che l’avevano accompagnato lo mollarono, e lui rotolò sul pavimento. Ci mise qualche minuto a rialzarsi, giusto per vedere che lo stalliere stava conducendo verso di lui una capra da galoppo. I nani del nord utilizzavano quelle cavalcature, delle enormi capre alte al garrese quanto un cavallo, per muoversi agilmente sulle montagne. Anche se erbivori, erano animali piuttosto aggressivi e permalosi, difficili da domare.
“E quella da dove salta fuori?”
“Il nano che me l’ha lasciata in custodia non è mai tornato. Forse è finito accoltellato in qualche vicolo. Scommetto che la sua testa è più dura della tua.”
Cletus osservò la capra, e la capra sbuffò verso di lui. Il mezzorco lo prese come un gesto di sfida.
“Hai detto cinque pezzi d’oro”, disse allo stalliere puntandogli il dito contro. Il ragazzo tirò fuori dalla tasca i dischi di metallo luccicante.
“Come promesso, cinque pezzi d’oro. Sempre che tu non muoia.”
Crane si guardò intorno, e vide che tutti gli avventori della taverna si erano precipitati alla stalla. Nessuno di loro voleva perdersi uno spettacolo del genere.
“State per assistere al più grande spettacolo che si sia mai visto nelle strade di Assamar!”, gridò Crane. L’unica risposta furono le risate degli avventori e il nitrito di un cavallo. Il caprone raspò il terreno con gli zoccoli: con tutta quella gente intorno, stava cominciando a irritarsi.
L’avventuriero prese due profondi respiri e si posizionò a novanta gradi, con la testa rivolta verso quella della capra, che in tutta risposta sbuffò e allineò il cranio con la schiena preparandosi a colpire.
Lo stalliere riuscì a stento a frenare il suo impeto, tenendola per le redini.
“Quando vuoi la mollo”, gli disse.
“Io sono indistruttibile! Io sono lo sventra capre!”, urlò Crane a squarciagola, poi caricò.
L’impatto fu tremendo.

A svegliarlo furono una luce molto forte e il cinguettio degli uccellini. Si sentiva vagamente intorpidito, ma completamente riposato, come se si fosse svegliato da una lunga notte di sonno.
La luce del sole lo abbagliò, e la prima cosa che vide furono le chiome degli alberi che si muovevano sopra di lui. Gli ci volle qualche momento prima di capire che era sdraiato in un carro. Si tirò a sedere, e vide che un uomo incappucciato stava conducendo il mezzo, trainato da un cavallo pezzato e dalla sua mula, che sembrava essere in buone condizioni. Tutt’attorno la strada era circondata dagli alberi, e si trovavano in aperta campagna.
“Dove accidenti sono?”
“Prima di tutto ben svegliato – gli disse l’uomo – complimenti, hai avuto quello che volevi.”
“Ora mi dici chi diavolo sei, altrimenti ti spacco il culo e ti faccio mangiare la tua stessa merda”, disse Crane. Senza alzare la voce.
L’uomo si voltò nella sua direzione. Aveva il volto lungo, la barba sfatta e una cicatrice sulla guancia.
“Ti ho salvato la vita, sappi solo questo. Stavi cercando un lavoro, vero? L’hai trovato.”
Cletus si tastò la fronte. Non aveva più la ferita causata dalla caduta contro il bancone.
“Cos’è successo alla capra?”
“Ah sì, la capra. Penso che a quest’ora alla Pulzella Quasi Vestita si stiano ingozzando di arrosto. Ho visto tutta la scena, testa contro testa, una cosa incredibile. Abbiamo sentito uno schiocco, e abbiamo pensato tutti che il tuo cranio si fosse aperto in due. Effettivamente così è successo, e c’è mancato veramente poco che il tuo cervello venisse sparso per tutta la stalla, ma poi ci siamo accorti che anche la capra era crollata per terra. Le hai spezzato di netto il collo.”
“Come, la mia testa si è aperta? La birra magica mi ha fatto diventare la testa indistruttibile, non può essere successo. E poi adesso sto bene, quindi come…”
“Ma che birra magica, pezzo d’asino! Eri ancora cosciente dopo la botta, hai borbottato qualcosa sullo spaccare la testa di un toro a colpi di fava e poi sei svenuto. Ho trascinato il tuo corpo fino al tempio di Farkaon, due isolati più in là, e ho tirato giù dal letto quel poveraccio del sacerdote per fargli fare un miracolo. Sei ancora vivo grazie a me e a lui, geniaccio.”
Cletus si guardò le mani, poi strinse il pugno e se lo diede sulla fronte. Il dolore fu tremendo, e si propagò per tutte le ossa del suo corpo. Lanciò un grido strozzato.
“Ma che fai, imbecille?”, gridò il conducente.
“La mia testa è tornata come prima! Ma che mi hai fatto?”
“Io proprio niente, ma l’ho chiesto al sacerdote – disse lo sfregiato ridacchiando – quando sei scivolato contro il bancone ti sei leso un’area del cervello, quella adibita alla ricezione del dolore. In sostanza, hai preso una botta talmente forte che non sentivi più nulla. L’alcool ha fatto il resto.”
Cletus rifletté sugli avvenimenti della sera precedente. Ora tutto aveva un senso.
“Perché l’hai fatto?”, chiese al conducente.
“Perché chiunque sia così pazzo da prendere a testate una capra è l’uomo giusto che fa per me. Hai detto di essere un avventuriero, e si da il caso che io sappia dove si trova una tomba nanica piena di gioielli, che sta solamente attendendo che qualcuno vada a depredarla.”
“Hai trovato l’uomo giusto. Cinquanta e cinquanta.”
“Settanta e trenta. E dalla tua parte scalerò anche i soldi che ho dovuto dare al sacerdote per farti rimettere insieme la testa.”
“Ci sto. Conta su Cletus Crane”, disse, gonfiandosi come un tacchino.
“Niente alcool fino a che non avremo finito il lavoro.”
“Fanculo! – esclamò risentito – questo è il peggior dopo sbornia della mia vita!”