“Due pinte di
birra. La triplo malto nanica, e anche in fretta.”
“Cletus, ne hai
già bevute cinque”, disse sconsolato l’oste.
“E con questo?
Voglio le mie due pinte di birra.”
“Ma che te ne
fai di due pinte, sei al tavolo da solo, non puoi prenderne una e quando l’hai
finita ordinare la seconda?”
“E va bene,
portami tre pinte di birra!”, ruggì Cletus Crane, sbattendo il boccale vuoto
sul tavolo.
“Vedi di non
causarmi problemi, Cletus”, disse l’oste scuotendo la testa, poi girò sui
tacchi e si recò in direzione delle botti.
La serata era
iniziata nel migliore dei modi. Cletus si era svegliato al tramonto, con un
incredibile cerchio alla testa causato dai bagordi che si erano protratti fino
al mattino precedente, e si era recato alla Pulzella Quasi Vestita per
riprendersi dal dopo sbornia con l’unico metodo che conosceva: continuare a
bere!
Era la quinta
sera di fila che si recava in quel posto. Cletus, che di mestiere faceva
l’avventuriero, ma all’occorrenza anche il mercenario, il brigante, la guardia
del corpo e innumerevoli altri mestieri di cui millantava una decennale
esperienza, era un omaccione grande, con la testa rasata e una considerevole
pancia frutto di una lunga relazione amorosa con l’alcool. Solo i più attenti
avrebbero potuto notare il sangue di orco che gli scorreva nelle vene: il naso
porcino, i canini più lunghi nel normale e la mascella sporgente erano gli
unici indizi. Sicuramente non era frutto di una violenta relazione tra un’umana
e un orco, molto più probabile che il mostro cannibale fosse stato suo nonno, o
forse il suo bisnonno. Ma finché qualcuno non glielo faceva notare, la cosa non
gli importava molto.
Cletus era
disoccupato da quasi tre settimane. I guadagni della sua ultima impresa erano
stati meno di quanto si aspettasse, ma d’altronde poteva capire l’astio di quel
nobilotto a cui aveva fatto da guardia del corpo quando aveva scoperto che sua
figlia diciassettenne, a cui aveva fatto mettere una cintura di castità e che
non poteva allontanarsi dal palazzo neanche per un pic-nic con le amiche, era
gravida. Quando Lord Thaumbel aveva convocato un divinatore per individuare il
responsabile, Cletus aveva capito che la situazione stava diventando troppo grossa
persino per lui (esattamente come quando Claire Thaumbel aveva urlato “ma è
troppo grosso!”), così era sparito assieme all’argenteria e a un paio di arazzi
di seta.
La taglia sulla
sua testa nella provincia di Kora si aggirava sui cinquecento pezzi d’oro.
Ripensando alla
vicenda si fece una sonora risata, che attirò l’attenzione degli avventori del
locale. Cletus ne riconobbe qualcuno. C’erano il miliziano a cui aveva fatto un
occhio nero due sere prima, il nano a cui aveva vomitato addosso non ricordava
bene quando (forse ieri sera?) e la giovane serva con due bocce considerevoli
che gli aveva detto che era un porco, che puzzava di merda e che poteva andare
ad affogarsi nel porto. Uno dei migliori complimenti che avesse mai ricevuto.
Finalmente
l’oste gli mise di fronte i due boccali pieni di birra. L’avventuriero ne
afferrò uno, trangugiò il contenuto in una sorsata, piantò un sonoro rutto e si
dedicò immediatamente all’altro. Decise di degustare la settima birra con più
calma, perché cominciava ad essere brillo, e quando Cletus Crane era brillo era
sempre bene che avesse un boccale sotto mano. Solitamente, per tirarlo in testa
a qualcuno che voleva fare lo sbruffone o che voleva fargliela pagare per
qualcosa.
L’avventuriero
assaporò le bollicine della birra, e pensò che la pacchia sarebbe durata ancora
per poco. I soldi stavano per finire, presto avrebbe dovuto rimettersi in
cammino a cercare fortuna, il che significava niente alcool e puttane fino a
che non l’avesse trovata.
Per la prima
volta nella sua vita, decise di giocare d’anticipo. Si alzò dallo sgabello e
con un balzo felino salì in piedi sul tavolo.
“Io sono Cletus
Crane – annunciò ad alta voce, catturando l’attenzione di tutti i presenti – e
cerco lavoro. Sono il migliore avventuriero che possiate trovare da qui a Soira
Madhera. Cerco qualcuno che finanzi le mie prodigiose imprese. Chi è con me?”
“E che cosa sai
fare, a parte bere come un cammello?”, disse il miliziano con l’occhio nero,
scatenando le risate di tutti i presenti.
“Riempire di
legnate gli stronzi”, rispose Crane. Senza alzare la voce.
L’oste si mise
una mano sugli occhi e scivolò sotto il bancone. Aveva il sentore che presto la
Pulzella Quasi Vestita sarebbe stata sfasciata di nuovo.
Il miliziano,
che era alto e magro, avanzò in direzione di Cletus, che di tutta risposta
saltò giù dal tavolo.
“Hai il coraggio
di ripeterlo?”, disse Occhio Nero.
“Riempire-di-legnate-gli-stronzi
– scandì Cletus – stronzi di vacca aggiungerei, sono quelli che puzzano di
più.”
“Questa volta
non esci vivo da qui”, minacciò il miliziano.
“E chi mi
ammazza? Tu non sai con chi hai a che fare.”
Occhio Nero fece
un cenno con la mano, e due individui si fecero avanti tra la folla che aveva
fatto cerchio attorno ai due. Entrambi portavano le divise della milizia. Uno
era un piccoletto con la faccia da topo, mentre il secondo era alto, molto
magro e aveva orecchie a punta che indicavano la presenza di sangue elfico.
Occhio Nero estrasse un coltello dalla cintola.
“Scommetto due
monete d’oro sui miliziani”, disse qualcuno tra gli spettatori.
Cletus non esitò
nemmeno un istante. Si voltò verso il mezzelfo e gli schiantò il boccale di
birra in piena faccia. I frammenti di coccio si infilzarono nelle sue guancie,
e con un grido crollò per terra.
“No, io ne
scommetto tre sull’ubriacone!”, gridò qualcun altro.
Occhio Nero
balzò in avanti cercando di affondare con il coltello, mentre Faccia da Topo
diede due pugni nei reni a Cletus. Il mezzorco incassò il colpo sputacchiando
della birra, afferrò il braccio teso di Occhio Nero e lo spezzò con un colpo
secco. Il pugnale gli cadde di mano e andò a conficcarsi per terra.
Occhio Nero
crollò piangendo e guardandosi il braccio spezzato. Faccia da Topo osservò
Cletus con espressione sconsolata.
“I casi sono
due. O mi paghi da bere finché non crollo, o ti riduco come il tuo amico.
Pensaci bene”, disse Crane.
Tre minuti dopo,
Cletus era seduto al bancone con quattro boccali pieni di birra davanti a sé. I
due miliziani feriti erano stati portati via dal loro amico, e alla Pulzella
Quasi Vestita era tornata la calma.
“Quello lì è una
bestia”, disse qualcuno degli avventori.
“E pensa che è
tutta la sera che beve come se non ci fosse un domani. Avessi dei soldi, lo
assolderei come guardia”, disse un altro.
“E che te ne fai
di una guardia?”, disse ridacchiando il primo.
Cletus si alzò
in piedi, tenendo un boccale per mano, e li alzò al cielo.
“Io sono Cletus
Crane, e se vengo pagato faccio qualsiasi cosa vogliate. Mi servono soldi, oro
in cambio di servizi. Spaccare culi è il lavoro che mi riesce meglio.”
“Secondo me non
li reggi altri quattro boccali”, disse un vecchio. Nella sala scoppiò una
risata.
“Che state
dicendo? Io ho iniziato a bere alcool quando ero ancora nelle ovaie di mia
madre. La vecchia trangugiava due galloni per volta, e io sono venuto su
forte.”
“Anche mia sorella
ci dava dentro con il distillato di prugne quando era incinta, e infatti mio
nipote è nato scemo”, disse un contadino.
“Io sono Cletus
Crane – ribadì, come se gli avventori non l’avessero ancora capito – mangio il
fuoco di drago a colazione e ho la fava più grande che si sia mai vista a nord
delle terre dei giganti. Se dico che posso bere tutte queste birre senza
vomitare, vuol dire che è vero. Io non dico mai cazzate.”
“Scommetto un
pezzo d’argento che crolli prima”, disse il contadino.
Altri avventori
si unirono al coro. Se Cletus ce l’avesse fatta, avrebbe guadagnato
l’incredibile somma di undici pezzi d’argento, sufficienti a garantirgli altri
due o tre giorni di bagordi.
Il metodo
migliore per bere senza risentirne, era bere il più velocemente possibile.
Gliel’aveva insegnato un nano quando aveva fatto il cercatore d’oro nel
Naghal-Dhun, e sebbene dopo aver trangugiato un intero barilotto di birra di
funghi avesse sbrattato il contenuto del suo stomaco come un attore consumato
che interpreta una mosca gigante della Gora di Adabellion intenta a vomitare
acidi sulla preda, aveva resistito il tempo necessario a vincere alcune
scommesse.
Cletus si portò
alla bocca i due boccali che stringeva tra le mani, trangugiandone il
contenuto. La manovra fu talmente goffa che gran parte della birra si riversò
sul suo volto, inondandone i vestiti, ma gli avventori ignorarono l’evento ed
esultarono per la buona riuscita dell’impresa.
Afferrò dal
bancone i due rimanenti boccali, e tracannò anche quelli, uno per volta. Il suo
stomaco stava cominciando a dare segni di cedimento. Quando, soffiando come un
cavallo a cui manca il respiro, finì di bere le ultime gocce, dalla folla
radunata esplose un boato.
Barcollando si
diresse verso gli avventori per raccogliere il compenso. Alla fine del giro
aveva tra le mani otto monete d’argento. Alcuni degli scommettitori si erano
dileguati, ma Crane era talmente ubriaco che non se ne rese nemmeno conto.
“Posso fare il
culo due volte a tutti quanti, nessuno batte Cletus Crane al suo stesso gioco”,
disse biascicando e puntando il dito sulla folla.
Nel tornare a
sedersi inciampò sul suo stesso sgabello e finì con la fronte contro lo spigolo
del bancone. Sentì il sapore del sangue in bocca, si dette dell’idiota per
essersi morsicato la lingua e poi svenne.
Quando riprese i
sensi, qualche minuto più tardi, si rese conto di essere a faccia in giù in una
pozza del suo stesso vomito. Il sangue che gli usciva dalla fronte si era
mischiato ai liquidi marroni che inondavano il pavimento, e la folla era
radunata attorno a lui con aria preoccupata.
Nonostante
avesse rimesso buona parte della birra bevuta quella sera, si sentiva ancora
straordinariamente brillo, e soprattutto non sentiva alcun male alla testa.
Si accorse che
un uomo gli stava frugando nelle tasche e tentò di mandarlo via con una
sventola, ma colpì solamente l’aria.
“Vattene, ladro!
Se ti prendo ti faccio bere il mio vomito…”, biascicò.
“Ma che ladro e
ladro! – disse il contadino – hai vomitato tutto quanto, mentre eri svenuto. E
ora mi riprendo i miei soldi.”
“Quelli mi
servono per bere, accidenti a te! Accidenti a tutti voi!”, disse tirandosi in
piedi. Con la fronte piena di sangue e i vestiti sporchi di vomito assomigliava
a una qualche specie di mostro della palude.
“Figlio di
puttana, mi hai spaccato il bancone con la tua testaccia maledetta!”, gridò
l’oste.
Cletus si voltò
nella sua direzione. Effettivamente, nel punto in cui aveva sbattuto la testa,
si era formata una grossa crepa che aveva staccato dal bancone un bel pezzo di
legno. Doveva aver preso una botta considerevole, ma non sentiva alcun dolore.
Si sentì benedetto dagli dèi. Tra i fumi dell’alcool, pensò che la magia dei
nani, quella che rendeva quei piccoli bastardi così forti, doveva essersi
estesa anche alla birra che stava bevendo, per averlo fatto diventare così
resistente. Ridacchiò divertito e sputò per terra.
“Cletus Crane ha
la testa più dura di… di…”
Vomitò di nuovo,
riversandosi il contenuto dello stomaco sulle scarpe.
“La testa più
dura del suo culo”, disse un avventore. Tutti in taverna iniziarono a ridere.
“Ah sì? Ve lo
dimostro! – gridò Crane, poi si dette un pugno sulla fronte ferita – posso
spaccare qualsiasi cosa con la testa! Qualsiasi!”
Nonostante il
colpo fosse stato violento, non aveva sentito alcun male.
Dall’altro lato
della stanza volò un boccale di coccio, che andò a schiantarsi sulla testa del
mezzorco, coprendolo di birra. Lui di nuovo non sentì il minimo dolore, e
sorrise sardonico in direzione di chi gliel’aveva tirato.
“Un argento! Mi
devi un argento! Qualcun altro vuole farsi avanti?”
I boccali
iniziarono a piovere come nel famoso uragano che devastò Saul nel 1.156. Cletus
allargò le braccia e ricevette la scarica di cocci come un vero eroe. Arrivato
al tredicesimo boccale, perse il conto di quanto gli dovevano gli avventori, ma
l’alcool nel corpo gli suggerì che non doveva preoccuparsene, perché avrebbero
pagato comunque.
La tempesta di
colpi si fermò solo quando tutti i boccali della Pulzella Quasi Vestita furono
ridotti in frantumi ai piedi di Crane. L’oste stava piangendo tenendosi appoggiato
a una parete, mentre gli avventori stavano parlottando ammirati tra di loro.
“Avete visto? Io
sono immortale! Io sono un eroe! Io sono…”
“Scommetto che
c’è qualcosa più duro di te!”, disse qualcuno.
L’avventuriero
cercò con lo sguardo chi aveva parlato. Era un ragazzo dai capelli color
paglia, che identificò come lo stalliere che lavorava in fondo alla strada.
Cletus gli aveva lasciato in custodia la sua mula, qualche giorno prima.
“Di sicuro la
mia fava è più dura della mia testa!”
“Non ne dubito,
ma scommetto cinque pezzi d’oro che io ho qualcosa che tu non puoi rompere.”
“Ucciderò
chiunque! Spaccherò tutto! Quei cinque pezzi d’oro sono già in mano mia!”
Lo stalliere gli
fece cenno di seguirlo. Tre avventori dovettero aiutarlo a reggersi in piedi,
ma lui proseguì con il petto gonfio come un tacchino e andò dietro al ragazzo,
che lo condusse fuori dalla taverna, fino alla stalla dove lavorava. L’odore di
feci e paglia ammuffita fecero venire a Cletus un altro conato di vomito, che
riuscì a reprimere.
I tre uomini che
l’avevano accompagnato lo mollarono, e lui rotolò sul pavimento. Ci mise
qualche minuto a rialzarsi, giusto per vedere che lo stalliere stava conducendo
verso di lui una capra da galoppo. I nani del nord utilizzavano quelle
cavalcature, delle enormi capre alte al garrese quanto un cavallo, per muoversi
agilmente sulle montagne. Anche se erbivori, erano animali piuttosto aggressivi
e permalosi, difficili da domare.
“E quella da
dove salta fuori?”
“Il nano che me
l’ha lasciata in custodia non è mai tornato. Forse è finito accoltellato in
qualche vicolo. Scommetto che la sua testa è più dura della tua.”
Cletus osservò
la capra, e la capra sbuffò verso di lui. Il mezzorco lo prese come un gesto di
sfida.
“Hai detto
cinque pezzi d’oro”, disse allo stalliere puntandogli il dito contro. Il
ragazzo tirò fuori dalla tasca i dischi di metallo luccicante.
“Come promesso,
cinque pezzi d’oro. Sempre che tu non muoia.”
Crane si guardò
intorno, e vide che tutti gli avventori della taverna si erano precipitati alla
stalla. Nessuno di loro voleva perdersi uno spettacolo del genere.
“State per
assistere al più grande spettacolo che si sia mai visto nelle strade di
Assamar!”, gridò Crane. L’unica risposta furono le risate degli avventori e il
nitrito di un cavallo. Il caprone raspò il terreno con gli zoccoli: con tutta
quella gente intorno, stava cominciando a irritarsi.
L’avventuriero
prese due profondi respiri e si posizionò a novanta gradi, con la testa rivolta
verso quella della capra, che in tutta risposta sbuffò e allineò il cranio con
la schiena preparandosi a colpire.
Lo stalliere
riuscì a stento a frenare il suo impeto, tenendola per le redini.
“Quando vuoi la
mollo”, gli disse.
“Io sono
indistruttibile! Io sono lo sventra capre!”, urlò Crane a squarciagola, poi
caricò.
L’impatto fu
tremendo.
A svegliarlo furono
una luce molto forte e il cinguettio degli uccellini. Si sentiva vagamente
intorpidito, ma completamente riposato, come se si fosse svegliato da una lunga
notte di sonno.
La luce del sole
lo abbagliò, e la prima cosa che vide furono le chiome degli alberi che si
muovevano sopra di lui. Gli ci volle qualche momento prima di capire che era
sdraiato in un carro. Si tirò a sedere, e vide che un uomo incappucciato stava
conducendo il mezzo, trainato da un cavallo pezzato e dalla sua mula, che
sembrava essere in buone condizioni. Tutt’attorno la strada era circondata
dagli alberi, e si trovavano in aperta campagna.
“Dove accidenti
sono?”
“Prima di tutto
ben svegliato – gli disse l’uomo – complimenti, hai avuto quello che volevi.”
“Ora mi dici chi
diavolo sei, altrimenti ti spacco il culo e ti faccio mangiare la tua stessa
merda”, disse Crane. Senza alzare la voce.
L’uomo si voltò
nella sua direzione. Aveva il volto lungo, la barba sfatta e una cicatrice
sulla guancia.
“Ti ho salvato
la vita, sappi solo questo. Stavi cercando un lavoro, vero? L’hai trovato.”
Cletus si tastò
la fronte. Non aveva più la ferita causata dalla caduta contro il bancone.
“Cos’è successo
alla capra?”
“Ah sì, la
capra. Penso che a quest’ora alla Pulzella Quasi Vestita si stiano ingozzando
di arrosto. Ho visto tutta la scena, testa contro testa, una cosa incredibile.
Abbiamo sentito uno schiocco, e abbiamo pensato tutti che il tuo cranio si
fosse aperto in due. Effettivamente così è successo, e c’è mancato veramente
poco che il tuo cervello venisse sparso per tutta la stalla, ma poi ci siamo
accorti che anche la capra era crollata per terra. Le hai spezzato di netto il
collo.”
“Come, la mia
testa si è aperta? La birra magica mi ha fatto diventare la testa
indistruttibile, non può essere successo. E poi adesso sto bene, quindi come…”
“Ma che birra
magica, pezzo d’asino! Eri ancora cosciente dopo la botta, hai borbottato
qualcosa sullo spaccare la testa di un toro a colpi di fava e poi sei svenuto.
Ho trascinato il tuo corpo fino al tempio di Farkaon, due isolati più in là, e
ho tirato giù dal letto quel poveraccio del sacerdote per fargli fare un
miracolo. Sei ancora vivo grazie a me e a lui, geniaccio.”
Cletus si guardò
le mani, poi strinse il pugno e se lo diede sulla fronte. Il dolore fu
tremendo, e si propagò per tutte le ossa del suo corpo. Lanciò un grido
strozzato.
“Ma che fai,
imbecille?”, gridò il conducente.
“La mia testa è tornata
come prima! Ma che mi hai fatto?”
“Io proprio
niente, ma l’ho chiesto al sacerdote – disse lo sfregiato ridacchiando – quando
sei scivolato contro il bancone ti sei leso un’area del cervello, quella
adibita alla ricezione del dolore. In sostanza, hai preso una botta talmente
forte che non sentivi più nulla. L’alcool ha fatto il resto.”
Cletus rifletté
sugli avvenimenti della sera precedente. Ora tutto aveva un senso.
“Perché l’hai
fatto?”, chiese al conducente.
“Perché chiunque
sia così pazzo da prendere a testate una capra è l’uomo giusto che fa per me.
Hai detto di essere un avventuriero, e si da il caso che io sappia dove si
trova una tomba nanica piena di gioielli, che sta solamente attendendo che
qualcuno vada a depredarla.”
“Hai trovato
l’uomo giusto. Cinquanta e cinquanta.”
“Settanta e
trenta. E dalla tua parte scalerò anche i soldi che ho dovuto dare al sacerdote
per farti rimettere insieme la testa.”
“Ci sto. Conta
su Cletus Crane”, disse, gonfiandosi come un tacchino.
“Niente alcool
fino a che non avremo finito il lavoro.”
“Fanculo! –
esclamò risentito – questo è il peggior dopo sbornia della mia vita!”