sabato 26 marzo 2011

Idilios


“Mangia quante saette vuoi, Lamirin mio. Assorbi dentro di te questo rumore infernale e fallo diventare vita.”
Il gabbiano dalle piume di sottile acciaio inciso volteggiò quattro volte attorno al cielo plumbeo, attendendo il movimento particellare che preannuncia il crearsi di un fulmine. A poco a poco la pioggia cristallina iniziò a cadere, innaffiando un mondo quasi completamente privo di terra. Lamirin strillò verso il cielo quando il suo corpo venne all’improvviso attraversato da una scarica di energia bianca.
Una fonte di nutrimento per qualcosa che aveva bisogno di pura energia e non cibo vero, carnoso e sanguinolento.
Lamirin planò silenziosamente e tornò ad appoggiarsi sulla roccia resa scivolosa dall’acqua, fissando il ragazzo che gli aveva assegnato un nome così tanto tempo fa. Nessuno aveva mai tagliato i suoi capelli corvini, perché non c’era mai stato motivo per farlo. Non aveva mai indossato vestiti, perché non c’era nessuno che potesse vedere le sue vergogne. Non c’era nessuno che l’avesse mai guardato negli occhi, eccetto i gabbiani d’acciaio che volteggiavano al di sopra dell’isola di roccia volante immersa nel mare di nubi scure.
Lì il ragazzo aveva una casa, l’unica che aveva mai avuto, e trascorreva le giornate osservando l’orizzonte sempre percorso da tifoni, saette e uragani. Non c’era nulla al di sopra della sua oasi di pace, né al di sotto: solamente nubi, caos e solitudine.
A differenza dei suoi unici compagni dotati di piume, egli non aveva bisogno di nutrimento: la sua vita era stata sempre così solitaria che aveva imparato a trascendere tutti i suoi bisogni.
Esisteva solamente perché sapeva di esistere.
“Presto le cose cambieranno”, disse a bassa voce, rivolgendosi più a sé stesso che ai gabbiani.
Impensabile il cambiamento in un’esistenza che era sempre stata stabile e immutabile, per quanto circondata dalla furia.
Il ragazzo si diresse verso la collina rocciosa che sormontava l’isola, trascinando con sé un pesante blocco di roccia scolpito a forma di mattone, aiutandosi con una corda. Fece fatica, soprattutto a causa del suo fisico esile. Ma quell’ultimo sforzo sarebbe stato presto ripagato.
Aveva già percorso centinaia, migliaia di volte quel percorso trascinando con sé quei pesanti fardelli. I mattoni comparivano, già lavorati e di forma perfetta, segno che il fato stesso lo stava incitando a cambiare il proprio destino.
Una volta giunto sulla collina, issò il mattone sulla cima di un edificio che aveva formato con gli altri, una sorta di grossa piramide a gradoni. Sorrise silenziosamente quando riuscì a portare l’ultimo blocco fino in cima, formando la punta più alta della ziggurat.
Notò solo in quel momento che quell’ultimo blocco era forato al centro, come se fosse stato predisposto come un incavo per un ultimo oggetto.
“Il mio lavoro non è ancora finito”, disse a Lamirin, che nel frattempo gli si era poggiato su una spalla.
Tornò alla spiaggia priva di mare e lì trovò una grande asta d’acciaio, lunga quasi cinque metri, il cui diametro era perfettamente calibrato per inserirsi nel foro sulla cima della piramide.
Portò anch’essa alla collina e una volta lì, prima di inserirla nella costruzione, guardò il cielo grigio pieno di gratitudine.
Non appena inserì l’asta, questa attirò le saette come un gigantesco parafulmini, riempiendo l’isola galleggiante di pura energia. Il ragazzo venne scagliato via dalla violenza dell’impatto, cadendo sulle rocce, ma non facendosi male. Il dolore non significava nulla per qualcuno che aveva sempre vissuto da solo.
Si alzò in piedi, contemplando il gigantesco stormo di gabbiani d’acciaio che si avvicinava alla sua casa, attirati dalla luce e dal nutrimento dei fulmini che la costruzione continuava ad attirare sull’isola, una scarica dopo l’altra.
“Io sono Idilios e ho dato prova della mia esistenza. Ora la solitudine non mi spaventa più”, sussurrò alle creature, mentre lacrime più salate di un mare che non esiste gli scendevano lungo le guance.