giovedì 28 luglio 2011

Kheperer



Lo scarabeo zampetta sulla mia/nostra schiena e con la sua lunga lingua dorata mi/ci assaggia per capire se sono/siamo fatti di miele o sterco. Per imitarlo mi/ci assaggiamo. A me sembra solamente sale. Ma mi/ci era sembrato fiele, e in futuro mi/ci sembrerà lebbra.
Non gradendo il mio/nostro sapore, piega le sue ali, fatti di cristallo, seta e ossidiana, fuse insieme in un perfetto miscuglio organico e inorganico. Vuole spiccare il volo attraverso il tempo, ma la mia mano coperta di sabbia rossa è più veloce e lo afferro, stringendolo tra le sei dita. La sua corazza di titanio e vuoto mi pizzica la pelle, così decido di ingoiarlo. Sento le sue zampine in grado di fendere il tempo che mi graffiano la trachea dall’interno, così lo faccio scivolare nei polmoni.
Gli altri me sono stati lenti e lo scarabeo gli è sfuggito tra le dita, me lo ricordo chiaramente, e ricordo che mi sfuggirà in futuro. Ma ormai sono abituato a simili bizzarrie. Io ho il kheperer, ed ora so che cosa è in grado di fare. Nessuno dei me passati o dei me futuri lo ha saputo o lo saprà mai. Sorrido, soppesando quest’incongruenza.
Il sapore speziato del paradosso si amplifica quando un brivido dietro la nuca mi avverte che l’Adunata sta per cominciare. D’un tratto, l’immenso deserto di sabbia e ossa mi pare meno bruciante, la luce riflessa dal sole rosso e morente meno dolorosa per le mie carni straziate. Tutto si attenua e mi ritrovo in un nero vuoto attraversato solo da un indescrivibile caos di voci.
Si sentono pianti, risate di gioia, risate crudeli, ringhi e altre oscenità sussurrate dalle tenebre. E, come ricordo/ricordiamo tutti, iniziano a materializzarsi figure. Le prime, le più antiche, sono dotate di due braccia, due gambe, una testa quasi sferica e coperti di pelle scura. Sia uomini che donne, portano vestiti pregiati, gioielli d’oro, ametiste e lapislazzuli. Nei loro occhi, così giovani e saggi, si nota ancora il barlume della lucidità mentale. L’intera dinastia dei regnanti, composta da novemilaquattrocentocinquantasei reincarnazioni precedenti a me stesso, crea con la pura forza di volontà una pari numero di troni d’oro e legni pregiati dal vuoto e ci si accomoda, osservando il resto delle creature con espressione crudele.
Osservo quello che ero prima di trascendere in questa forma: un uomo dalla pelle color ebano, con un abito intessuto interamente in filo d’oro e coperto di geroglifici simboleggianti protezione e morte. Ricordo perfettamente i poteri di quell’abito: ogni filo di cui era intessuto rappresentava un essere vivente del mondo che governavo. Chiunque osasse tentare di ferirmi, recidendo così i fili delle Moire, diveniva anche responsabile della fine di milioni di vite. E ricordo che è stato proprio quell’abito a rendermi/renderci ciò che sono/siamo ora e sono/saremo poi.
Ecco, iniziano a comparire le mie/nostre future reincarnazioni: creature gobbe, malformate, coperte di sabbia e sangue. Ultimi sopravvissuti di un mondo la cui fine è stata decretata già da milioni di anni. E dopo di essi, ritorna a tormentarmi/tormentarci l’orribile visione di quei mostri: demoni cornuti, creature composte da ossa e vuoto, macchine infernali con solo qualche brandello di carne attaccato ad un corpo metallico e rugginoso. Ringhiano, si dimenano, si distruggono a vicenda in preda alla follia causata da milioni di vite senza l’oblio della morte a depurarne i ricordi. E sono di un numero illimitato.
Vedo, proprio vicino a me, una creatura vermiforme, lunga dodici metri e dotata di quaranta artigli affilati al posto delle zampe, divorare la sua/nostra precedente incarnazione, un verme del tutto simile ma più piccolo. Essi si combattono e si distruggono a vicenda e le carcasse vengono divorate da un’incarnazione successiva, ancora e ancora, in un caos senza fine.
Il kheperer si dimena nei miei polmoni e sento il rumore ticchettante dei suoi palpi mascellari che si muovono senza sosta. Nessuno dei me passati o futuri sa della sua presenza e lui si sta nutrendo di questo paradosso, cibo delizioso e pregiato per una creatura nata al di fuori della linea del tempo.
Sghignazzo, unendomi agli altri mostri del luogo. Poi lui/io arriva/arrivo.
È/sono alto oltre due metri, con un torace massiccio, un portamento maestoso, quasi completamente nudo: solo un perizoma di filo di giada copre il suo/mio organo riproduttivo. La sua/mia pelle è del colore della notte, i capelli sono completamente rasati, gli occhi di un viola luminoso e accecante.
Ricordo che quando i miei/nostri antichi nemici avvistavano quella luce tremenda, che in una notte senza stelle era visibile da chilometri di distanza, i loro cuori iniziavano a tremare per la paura di qualcosa di ben più terribile della morte.
Si mette al centro. Non che in un luogo del genere, al di fuori del tempo e dello spazio, possa esistere un vero e proprio punto centrale. Ma è sempre lì che ho pensato di essermi messo quando ho/abbiamo tenuto un discorso che ricordo/ricordiamo molto bene, per le novemilaquattrocentocinquantasei volte che l’ho/abbiamo già sentito in precedenza. Ricordo di aver alzato le braccia e aver squadrato dapprima la dinastia dei regnanti, urlando per la gioia e l’euforia, poi le creature mostruose. Vedo il disappunto sul mio/suo volto: avevo pensato che quelle creature fossero delle entità ancestrali portate lì per errore durante il ripiegamento del tempo, ma solo con quest’ultima forma ho capito la verità delle cose.
Il kheperer scava e si muove nel mio intestino. Quello che succede lo sta divertendo un mondo.
“Io sono Sekhemib il Distruttore, Signore dell’Impero Khater e voi tutti siete me. Vi chiamo in questo non-luogo al di fuori del tempo perché il mio regno deve durare in eterno”, urla il primo con voce possente.
“Noi siamo Sekhemib il Distruttore, Signore dell’Impero Khater e tu sei noi. Rispondiamo alla tua chiamata in questo non-luogo al di fuori del tempo perché il nostro regno deve durare in eterno”, rispondo/rispondiamo tutti quanti in coro.
Nell’udire la risposta, il primo Sekhemib esplode in una risata selvaggia e incontrollabile. Se erano tutti lì, voleva già dire che ce l’aveva/avevo fatta. Povero pazzo.
Sono solo un povero pazzo.
“La vastità del mio impero non può essere misurata dall’occhio mortale, i suoi abitanti sono così numerosi che non possono essere censiti nemmeno dagli dei, ammesso che essi esistano. Io sono Sekhemib, che ha distrutto tutti i suoi nemici tranne uno.”
“Lo sappiamo, lo sappiamo!”, urlo/urliamo in coro.
“Questo nemico è la morte e l’oblio che essa porta. Sondando i misteri dell’aldilà ho compreso i misteri del corpo e dell’ànemos; il primo è caduco e viene inevitabilmente sconfitto dal tempo e dall’entropia, mentre la seconda, la parte più pura di me, vive in un eterno ciclo di reincarnazioni. Ma il trauma della morte è qualcosa che la l’ànemos non può accettare del tutto; ella ne viene consumata, fino a che ne rimane solamente una scintilla, per poi ricostruirsi e giungere in un nuovo corpo.”
“Lo sappiamo, lo sappiamo!”, urlo/urliamo in coro.
“Ed ecco perché io ho bisogno di me stesso, in tutti i futuri che il mio ànemos attraverserà. Mi serve il mio stesso potere arcano, moltiplicato per infinite volte, per rendermi ancora più puro e far si che la morte non rappresenti un ostacolo, ma solo un ciclo di passaggio, e che il mio regno duri in eterno. La memoria e il potere non ne verranno cancellati, ma risorgeranno più potenti che mai in un nuovo corpo, giovane e forte.”
“Lo sappiamo, lo sappiamo!”, urlo/urliamo per l’ultima volta, come è sempre stato fatto nelle novemilaquattrocentocinquantasei volte che ho vissuto quest’evento al di fuori del tempo.
“Il paradosso non esiste, e se voi siete qui, e sapete di cosa sto parlando, vuol dire che il mio futuro mi riserva il successo. Ma io devo lo stesso pormi la domanda: posso aiutarmi? Voi tutti futuri me stessi, potete aiutarmi?”
I Sekhemib sani di mente iniziano un dibattito accanito. Tutti conoscono alla perfezione il copione e ogni singola parola pronunciata da ognuno precedente a loro, ma sono convinti che il paradosso non possa venire a crearsi. Era quello che il primo Sekhemib pensava, ed è l’errore che ora comprendo alla perfezione.
Il paradosso può essere creato solo da un altro paradosso. E l’insetto che mi sta risalendo la colonna vertebrale procurandomi un dolore sordo con i suoi aculei rinforzati nell’acciaio ne è la prova.
Rido, pensando a quello che potrei fare pronunciando una singola sillaba. Non ricordo nei miei precedenti me che la creatura che ora sono abbia mai parlato durante il dibattito. Potrei farlo. Grazie al kheperer, io stesso sono un paradosso. Ma per il momento mi mordo la lingua bifida e il veleno amaro mi cola giù per la gola.
Una donna dalla pelle scarlatta tatuata da macchie di leopardo e il volto coperto da una maschera d’ebano si fa avanti. Porta solo alcuni bracciali e cavigliere d’oro, ma per il resto è completamente nuda. Mi riconosco, ero io tremilasettecentonove vite fa. Sorrido/sorridiamo, pensando a quanto ero/eravamo bella.
“Io sono Sekhemib la Collezionista di Anime, cinquemilasettecentoquarantasettesima reincarnazione di Sekhemib il Distruttore, imperatrice del grandioso Khater, e prendo parola per esprimere i nostri pensieri.”
“Mi concedo il diritto di parola”, risponde il primo con un ghigno trionfante. Le sue prime dieci reincarnazioni ridono sguaiate alla battuta. Quanto ero sciocco e meschino.
“Il Khater che io conosco non si estende più solo sulla superficie della terra. Si estende anche sotto di essa, nelle nere profondità del mare e al di sopra delle nuvole. Presto giungeremo fino alle stelle più lontane. Senza il mio potere, la mia saggezza e la mia ferocia, ciò non sarebbe stato possibile. Io sono favorevole allo svolgimento del rituale, e se lo sono io, lo sono anche tutti quelli precedenti a me. Il potere che avrai nella mia epoca sarà milioni di volte più elevato di quello che hai ora. I piaceri e le delizie che ho vissuto sono al di là di ogni immaginazione. Sommiamo la nostra forza, ed eseguiamo il rituale. Questo è il volere di Sekhemib”, dice la Collezionista di Anime/dico.
Gli occhi del primo me stesso brillarono durante l’ascolto di quelle semplici parole. Sogni di grandezza, gloria, potere e distruzione fecero scaturire in me/lui una tale eccitazione da rendere necessaria una risata liberatoria, in memoria di un’eterna auto-glorificazione.
Uno dei Sekhemib successivi alla Collezionista di Anime si fece avanti. Ero storpio, la barba era lunga e poco curata e tra le mani tenevo una tela di pelle bianca chiazzata di sangue. La mostro a tutti, senza dire una parola, e ritorna a sedersi sul suo trono.
Mi facevo chiamare Sekhemib l’Artista. In quell’incarnazione ero nato storpio e, essendo sempre nato in corpi sani e forti, avevo il terrore di mostrarmi in pubblico. Così mi ero rinchiuso nel mio palazzo e facevo portare ai miei servitori ciechi delle vittime sacrificali da cui ricavavo il sangue necessario per dipingere i miei quadri. Alla mia morte, tutte le mura del palazzo erano diventate rosse. Una sana dose di pazzia che venne curata solo alla mia successiva nascita, quando fui/sono un uomo alto tre metri che si faceva chiamare Sekhemib il Titano che amava schiacciare i suoi nemici sotto la suola degli stivali.
Non ricordo il motivo preciso per cui mostrai/mostrammo quell’opera composta da fluidi rappresi. Sentivo che lo dovevo fare e basta. Venni ignorato, non riuscendo a capire le mie/nostre stesse intenzioni.
All’improvviso, do un colpo di tosse e un grumo di sangue nerastro cade nel vuoto. Alcune mie precedenti incarnazioni si voltano verso di me, accorgendosene. Eppure io non ricordo di aver mai visto una simile scena. Lo scarabeo continua ad agitarsi nelle mie viscere, divorandole. All’improvviso mi sento confuso.
È il paradosso, continuo a ripetermi, è il paradosso che si manifesta.
Sghignazzo, non riuscendo a contenermi.
Molti me stesso prendono parola, glorificando l’impero in ogni epoca e in ogni reincarnazione. Giuro/giuriamo di aver sterminato il popolo dhukos dagli occhi bianchi, mentre un suo/mio successore/predecessore giura di averci stretto un’alleanza. Sostengo/sosteniamo di aver conquistato il favore degli dei, poi giuro/giuriamo di averli distrutti. Blatero/blateriamo parole senza senso, sostenendo di essere già morti, ma poi sono/siamo convinti che si tratti tutto di un sogno. Tante vite, tante diverse follie, per un ànemos che non è più in grado di contenere quasi un milione di anni di ricordi.
Poi, uno dei mostri/di noi si fa avanti. È/sono spaventoso e assomiglio/assomiglia ad un gigantesco sauride coperto di melma e spunzoni ossei. Dalla sua bocca, entrano ed escono in continuazione delle falene.
Chissà come si farà chiamare questo mio/nostro futuro me stesso? Sekhemib il Nido Infestato?
Rido sguaiatamente, sperando di non poterlo mai scoprire. Una speranza che riverso interamente nel kheperer.
Emette/emetto solo un ruggito, so che sta/sto per attaccare. Dalla bocca esplode un esercito di falene, che vola stridendo contro uno gruppo di Sekhemib antichi. Le farfalle notturne li divorano con piccole zanne e di loro/noi non rimane altro che un gruppo di scheletri spolpati.
Tutti i precedenti e i successivi dinasti gridano bestemmie contro la creatura e, in un imponente lampo magico, questa viene distrutta.
Uno stregone millenario e dotato di potere infinito che lotta contro sé stesso. Questa scena mi risulta sempre affascinante.
“Sono appena morto dodici volte, in un singolo istante! – tuona il primo – eseguiamo il rituale! Che le bestie degli inferni non giochino più con colui che è un dio in terra!”
Tutti si tirano in piedi e alzano le mani al cielo, sempre che di cielo si possa parlare, convogliando il potere nel primo. Ricordo/ricordiamo con estrema precisione questo momento: presto tutto esploderà in una luce sfavillante e noi tutti torneremo nelle nostre rispettive epoche, dove proseguiremo la vita di Sekhemib. È l’unica opportunità che ho, e devo prendermela. Cammino nel vuoto, mi porto davanti al primo, e prendo parola.
“Io posso parlare”, dico.
Il rituale si blocca. Questo non era previsto. In nessun ricordo, in nessuna delle mie/nostre memorie, in nessuna delle mie/nostre vite, questo doveva avvenire. Il kheperer inizia a risalire su per la gola.
Tutti mi guardano, con occhi resi roventi dal terrore. Guardano questa creatura sgraziata, gobba, dalla pelle incrostata di sabbia rossa e costretta a nutrirsi di rifiuti per tutta la sua vita.
Guardano quello che diventeranno.
“Come osi bloccare la mia ascesa al cielo? Chi sei tu?”, urla il primo, senza che io me ne ricordi.
“Io sono Sekhemib il Solitario, ultimo discendente dell’impero Khater. Sono il primo di una lunga scia di follia e distruzione.”
Funziona, funziona! Questo è un paradosso, che ne attirerà altri. Altri kheperer. Molti altri. li sento sciamare con le loro zampette metalliche e i corpi vuoti oltre il tessuto nero del non-luogo. Mi lascio andare ad un’altra risata, poi proseguo il mio discorso. Devo guadagnare tempo in un luogo senza tempo.
“Prima che fossi Solitario mi facevo chiamare il Ricattatore e con i miei poteri divini avevo creato una tunica tessuta con gli stessi fili delle Moire.”
Il Ricattatore mi guardò, socchiudendo gli occhi, che vennero immediatamente colmati di una luce violetta. Aveva/avevano un folle timore nel cuore, lo si capiva dal modo in cui stringeva/stringevano i denti affilati.
“Il mio impero e il mio potere erano al suo apice. Avevo conquistato le stelle, l’eternità e tutto ciò che esiste al mondo, sia esso materiale o immateriale. Ma la mia arroganza fu la mia rovina, poiché subito dopo essere tornato dall’Adunata, morii in un incendio appiccato da alcuni meschini plebei alla mia città-fortezza. Il mio corpo venne completamente consumato, e così i fili delle Moire. Tutti gli uomini e le donne del mio impero morirono in quell’istante, decretando la fine del Khater e del mio ciclo di reincarnazioni per milioni di anni.”
Tutti i miei io iniziarono a parlare tra di loro convulsamente. Sono terrorizzati dalle mie parole e, soprattutto, da cosa sarebbero diventati.
“Ora io sono ciò che vedete, una creatura discendente dagli uomini nata in un mondo consumato dal mio stesso potere. E coloro che vedete dietro di me, queste creature mostruose, sono ciò che sarà Sekhemib in futuro. Nient’altro che l’ombra di sé stesso, un animale dotato del potere più grande dell’universo e senza nessun altro essere su cui dominare. Imperatore Sekhemib il Distruttore, non ti/mi sembra questa la fine peggiore che possa essere concessa alla tua/mia grandezza?”
Il Distruttore mi guardò e annuì, iniziando a parlare con la sua voce tonante.
“Il mondo esiste perché io lo domino. Ma se il mondo non esiste più, allora nemmeno io ho più senso di essere. Sono il primo di noi ma non sono uno sciocco, Solitario. Tu hai creato un paradosso, lo comprendo dalle facce e dalle parole dei futuri me stessi. Tu non condividi più l’ànemos con me. Qual è la tua decisione?”, dice il primo.
“La mia decisione è di smettere di esistere”.
Sputo dalla bocca il kheperer, che schizza volando verso il primo, lasciando dietro di sé un dolciastro odore di zucchero e sangue. Le grida sono numerose, ma lo scarabeo è troppo veloce e nessuno dei me riesce ad afferrarlo. Giunge, rapido come una freccia, dritto in mezzo alla fronte del Distruttore, sfondandogli il cranio. Non appena le gocce di sangue e osso vengono risucchiate dal vuoto, l’oscurità stessa si sfalda facendo penetrare un’onda dorata di altri kheperer che, attirati dal paradosso come le api al miele, divorano, mangiano e risucchiano tutto ciò che sono stato e che sarò in futuro. Le mie/nostre urla di agonia sono terrificanti, ed dopo un momento di tempo fermo, lo sciame è scomparso, trascinando con sé tutti quanti i me.
Tutti eccetto me, il Solitario, rimasto da solo in mezzo alle tenebre.
Lo scarabeo che ho vomitato è scomparso con lo sciame e mi ha lasciato qui a patire una lenta agonia prima della morte. Vomito sangue e budella, sperando che tutto ciò finisca in fretta e che Sekhemib non sia più.
Poi lo vedo, in lontananza. Sembra un camaleonte, ma i suoi occhi sono di un violetto luminoso e terrificante. Fa scivolare su e giù la lingua spinosa e vedo che tra le zanne gialle stringe un altro kheperer. L’ho/abbiamo catturato in futuro, senza rendermene conto. Quello che sarò ne ha catturato uno, ed è divenuto lui stesso un paradosso.
Sekhemib esiste ancora, ed esisterà in eterno. Scompare/scompaio, ritornando alla sua/mia epoca. Capisco di avere fallito.
Non si gioca con il tempo, e questa ne è la prova. Continuerò a vivere in forme sempre più folli e grottesche, fino a che nell’universo non esisterà più alcuna particella vitale in cui potermi/poterci reincarnare.
Ma io me ne sono staccato. Ora sono solamente il Solitario. E sto morendo, questa volta veramente.
Cala il sipario sul mio manicomio. Apro le mani, e mi abbandono al vuoto.

[Questo racconto era stato mandato ad un concorso letterario in cui purtroppo non ho avuto buoni risultati, quindi lo lascio a voi, gentili lettori, sperando che apprezziate comunque i miei sforzi.]

giovedì 7 luglio 2011

Steno e Piranka

E' da un bel po' che non posto più niente. Il problema è che sto scrivendo poco, e il poco che scrivo lo mando in giro per concorsi, così non posso pubblicare nulla sul blog pubblico.
Ora però mi è venuta una piccola idea per un racconto del new weird che sto imparando ad amare. Cosa è il new weird?
Il new weird è un filone della letteratura fantastica, soprattutto fantasy, sviluppatosi a partire dagli anni novanta. Si caratterizza per la deliberata contaminazione di fantasy, fantascienza e horror, nella tradizione di H. P. Lovecraft e della letteratura pulp degli anni quaranta (cit Wikipedia).

L'ultimo racconto postato (Idilios) ne è un buon (anche se un po' carente, a mio parere) esempio.

Ad ogni modo, questo post serviva per ispirarmi. Le immagini che seguono chiaramente non sono mie (considerato che so a malapena disegnare degli omini stilizzati), ma potrebbero servirmi per visualizzare il racconto che ho in mente. Trovo che l'utilizzare musica e immagini come mezzo per figurarsi delle situazioni sia un buon mezzo per buttarsi a capofitto nella scrittura, non credete?


Piranka


Steno