La comitiva di
strane creature avanzava rapidamente nel freddo deserto roccioso. Erano in
quattordici: sette possenti cavalcature dominate da altrettanti cavalieri, che
da lontano sarebbero potuti apparire come un gigantesco serpente scaglioso che
strisciava con grazia e velocità in quella brulla terra dai toni rugginosi.
Le bestie,
titani dalla pelle pallida e coperta di aculei smussati, alte quasi due metri
al garrese, erano dotate di sei possenti zampe piatte perfettamente adatte a
muoversi con agilità in quei territori. Il loro volto tondeggiante era dominato
da tre occhi a mandorla completamente bianchi e da due bocche dotate di file di
denti larghi e durissimi, in grado di divorare roccia e detriti con la stessa
facilità con cui una mano può stringere un’arma.
I loro
cavalieri, che stavano comodamente accoccolati su delle coperte sistemate sulla
schiena delle bestie, in una posizione dove gli aculei erano stati
accuratamente recisi, non erano di aspetto meno esotico. Alti poco più di un
metro, avevano il corpo magro interamente ricoperto di scaglie verde scuro, due
gambe e quattro braccia dotate di micidiali artigli, una lunga coda e volti
serpentini dalle due pupille color blu notte. Con due braccia tenevano
saldamente le redini di cuoio per controllare la bestia, mentre nelle altre
reggevano scudi di cuoio indurito e lance dalla punta di selce.
La Landa Ferita,
così era chiamato quel luogo dai th-ya, i membri di quello strano popolo, era
insolitamente rumorosa. Il vento trasportava un ululato in lontananza, nato da
creature così aliene che persino quella tribù guerriera temeva, assieme a suoni
flautati e dissonanti, come se numerose persone stessero suonando insieme
strumenti musicali perfettamente accordati ma seguendo ognuno la propria
melodia.
I due soli
gemelli grigi stavano calando all’orizzonte, e presto avrebbe dominato
l’oscurità della notte.
“Dovremmo quasi
esserci – disse con voce sibilante il th-ya in testa alla compagnia, che al di
sopra delle scaglie portava cinghie di cuoio ornate d’ossa e scaglie di altre
bestie come ornamento – arriveremo alla Grande Crepa prima del calare della
notte. Prima di allora dovremo abbandonare le cavalcature.”
Gaengl era la
guida della compagnia, uno dei pochi th-ya che conoscesse le poche strade che
portavano alla Grande Crepa evitando la maggior parte dei pericoli della Landa
Ferita. Era stato pagato da Immer’nok, un potente signore schiavista della
casta dei padroni rossi, perché conducesse lui e alcuni servi fidati fino a
quel luogo, dove si diceva si potesse svolgere la miglior caccia per i propri
affari… se si era abbastanza coraggiosi da affrontare la Crepa stessa.
“Perché mai
dovremo abbandonarle?”, chiese Immer’nok, la cui cavalcatura si trovava proprio
dietro quella di Gaengl. Il th-ya era abbigliato con dei bracciali rossi sui
quattro arti superiori e un tondo cappello di pelle dello stesso colore, a
simboleggiare il suo status sociale.
“Gli shak-thy
hanno paura della Grande Crepa. Sentono che c’è qualcosa che non va, che è innaturale,
che non dovrebbe esistere. E se vengono costretti ad avvicinarvisi, tentano di
scappare disarcionando i loro padroni o impazziscono e tentano di divorarli. A
volte si divorano anche a vicenda, e in un’occasione ho visto uno shak-thy
particolarmente fedele e mansueto, che mai avrebbe fatto del male al proprio
cavaliere o a chicchessia, avere un tremito e cadere a terra morto pochi
momenti dopo. Gli erano esplosi i cuori dalla paura, capisci, mio signore? Per
questo andremo a piedi. Così troveremo la cavalcature al nostro ritorno.”
“Sempre che non
le divorino le serpi nere”, commentò acido Immer’nok.
“Non ci sono
serpi nere qui intorno, né qualsiasi altro animale. L’ho detto padrone, solo la
nostra razza è così coraggiosa da avvicinarsi così tanto.”
Coraggio o follia?, rifletté Immer’nok. Avesse
esposto il suo pensiero ad alta voce sarebbe immediatamente stato giudicato un
codardo. Nella società dei th-ya, la fierezza, l’onore e la bravura nell’arte
guerresca erano tutto. Chi non le aveva poteva al massimo ambire alla
schiavitù, o al destino di riproduttrice se fosse stata una femmina. Ma erano
pochi i th-ya che sarebbero stati disposti ad accoppiarsi volontariamente con
una femmina codarda.
“Che mi sai dire
sulla Grande Crepa? So solo che si dice che loro
vengono da lì”, chiese Immer’nok.
“Sì, è vero, mio
signore – rispose Gaengl – ma oltre a questo, non è che si sappia poi molto su
quel luogo. Fino a qualche ciclo fa, non si sapeva della sua esistenza, e come
ben sai nemmeno loro erano mai stati avvistati.
La terra si è aperta così, da una notte all’altra, e quei demoni sono comparsi.
Ma non solo loro, mio signore, non solo loro. Molte altre creature vengono da
là sotto, assieme a questa musica. La senti, vero? È l’ululato della follia,
che li spinge a invadere la sacra terra dei clan. Non sono molti, ma si dice
che un giorno lo saranno, perché è vero, la Crepa si allarga sempre di più e ad
ogni ciclo ne arrivano altri, sempre più temibili. Come l’assassino bianco.”
“L’assassino
bianco è una leggenda!”, borbottò un altro th-ya, uno dei soldati-schiavi al
seguito di Immer’nok, che fino a quel momento aveva ascoltato la conversazione
in silenzio.
“Non ti ho dato
il permesso di parlare, servo! – lo redarguì Immer’nok – e farai bene a
ricordarti queste tue parole, perché da questo momento in poi sarai tu di
guardia ai recinti!”
Le scaglie dello
schiavo impallidirono, i suoi occhi si ridussero a due fessure, mostrando
evidenti segni di codardia. Come a insultarlo e a ricordargli nuovamente la sua
posizione, Immer’nok gli sibilò contro.
“Se ho il
permesso di rispondere al vostro schiavo, mio signore – disse Gaengl – posso
confermare che l’assassino bianco non è affatto un mito. Egli è un vero e
proprio mostro, che vaga nella notte tra i recinti degli schiavi e le caverne
dei padroni rossi. Uccide tutti i th-ya che incontra, siano essi guerrieri o
servi, e libera dalle catene quelli che si dice siano i suoi fratelli. Ma egli
non somiglia per niente ad uno di loro…
egli ha un corpo bianco ed enorme, artigli in grado di dilaniare uno shak-thy,
e un volto lucente simile ad uno dei soli grigi… vidi un’ombra, una volta, che
corrispondeva a questa descrizione. E la scia di cadaveri che si lasciò le
spalle infesta ancora le mie notti, e riempie di rabbia le mie mani.”
Tra i
soldati-schiavi corse un sibilo di terrore. Immer’nok li fulminò con lo
sguardo. Sapeva perfettamente del mito riguardante l’assassino bianco, ma era
la prima volta che incontrava qualcuno che sosteneva di averlo effettivamente
visto, anche se solo di sfuggita. Il malumore che iniziò a serpeggiare tra i
suoi sgherri, però, gli fece capire che era il caso di concludere il discorso.
“Parli molto,
per essere solamente una guida. Per il resto del viaggio ci condurrai in
silenzio, perché è meglio risparmiare la voce per sentire i rumori sospetti che
ci circondano”, gli disse autoritario.
“Sì, mio
signore”, rispose Gaengl, e per il resto del viaggio tacque.
Dopo nemmeno
mezz’ora di viaggio, furono costretti a lasciare le cavalcature nei pressi di
un’oasi colma di acqua sporca, dato che stavano cominciando a mostrare segni di
inquietudine. Proseguirono a piedi, mentre le ombre della notte invadevano il
deserto. Per i th-ya non era un problema vagare in quelle terre anguste con
l’oscurità, dato che i loro occhi vedevano benissimo, ma man mano che il loro
peregrinare li portava sempre più vicini alla Grande Crepa, il territorio
stesso iniziò a mutare. Piante mai viste, dotate di occhi e bocche, fischiavano
e cantavano al loro passaggio. Spesso i loro passi diventavano più rapidi,
altre volte più lenti, come se il tempo stesso venisse distorto, e in alcuni
luoghi interi banchi di pietra sbriciolata fluttuavano nell’aria, tenuti
sospesi da una forza invisibile.
Immer’nok avanzò
con decisione nel paesaggio alieno, ma strinse con più forza la lancia e lo
scudo. I suoi servi avevano con loro, oltre alle armi, diverse reti per
catturare le proprie prede. Un paio di quegli esseri schifosi sarebbe stato
sufficiente per garantirgli introiti per le settimane successive, oltre che a
ripagare le spese del viaggio, ma se fosse riuscito a catturarne addirittura
quattro o cinque le cose si sarebbero messe decisamente meglio per il suo ruolo
di padrone rosso. Era infatti responsabile del divertimento dei membri del suo
clan, e possedeva decine di schiavi addestrati al combattimento da buttare
nelle fosse, dove avrebbero lottato fino alla morte. Ma da quando la Grande
Crepa era comparsa e quelle creature vi erano sbucate fuori, nulla attirava il
favore della folla quanto una coppia di queste intenta a massacrarsi a vicenda.
Qualche cacciatore o mercante particolarmente fortunato ne aveva già portati
presso il suo clan: individui deboli, e tendenzialmente poco adatti al
combattimento, ma Immer’nok aveva deciso di acquistarli lo stesso. Dopo aver
buttato denaro in molte mani, era venuto a conoscenza del luogo migliore per
cacciare quelle bestie, e aveva radunato i suoi uomini migliori per andarci di
persona. Ora, doveva solo prenderle.
“Chiedo il
permesso di parlare, mio signore”, disse Gaengl.
“Permesso
accordato.”
Gaengl indicò
avanti a sé, dove un’oscurità quasi palpabile sbarrava il cammino.
“Siamo a pochi
passi dalla Grande Crepa, è meglio non proseguire oltre. Qualunque cosa succeda
da questo momento in poi, mio signore, se doveste trovarvi più vicino a
quell’orrido buco nel terreno, vi prego, non guardateci dentro.”
“E perché mai?
C’è forse qualcosa di temibile? Hai forse paura, guida?”
“Non è questo,
mio signore – disse timoroso Gaengl – non so dirvi cosa ci sia di preciso dentro
la Crepa. Ma qualunque cosa sia, essa è caos incarnato. Nessuna mente è in
grado di sopportarla senza venirne ferita. La pazzia e la morte sono il destino
inevitabile per chiunque vi faccia cadere lo sguardo all’interno. Non è paura,
mio signore, è pura sopravvivenza. Se volete vedere l’alba di domani, seguite
il mio consiglio.”
Immer’nok annuì,
senza replicare. Rifletté, mentre fissava quel buio innaturale, poi chiese:
“Hai qualche consiglio per prenderli?”
“Attendiamo, mio
signore. Essi arrivano dalla Crepa, ma per qualche motivo, la ripudiano.
Tenteranno di uscirne, per scappare nelle nostre terre. Non dobbiamo fare altro
che posizionarci qui, ai suoi limiti, e aspettare che qualcuno di loro salti
fuori. Sono molto veloci, rispetto a noi, perché hanno gambe più lunghe, ma
basterà utilizzare le reti e colpirli alla testa per stordirli. Fate
attenzione, perché se messi alle strette diventano molto feroci.”
“Avete sentito,
schiavi? Disponetevi, e se ve ne scappa qualcuno pagherete con la frusta!”,
ordinò il padrone rosso. L’ordine venne immediatamente eseguito dai suoi
timorosi servi.
Attesero in
silenzio per ore, con gli occhi blu notte, due sfere buie incastonate tra le
verdi scaglie, puntati sull’oscurità ancor più temibile della Crepa.
Tutt’attorno a loro, i canti delle piante continuavano, accompagnati da suoni
gravi di strumenti a fiato, ballate funebri così simili a quelle che i th-ya
suonavano con i loro corni.
Poi, rapido come
un lampo, qualcosa fuoriuscì dall’oscurità. Come i suoi occhi bianchi notarono
i th-ya, la creatura emise un urlo terrorizzato e tentò di darsi alla fuga.
Aveva un corpo grande, quasi alto quasi il doppio rispetto a quello di Immer’nok,
pelle chiara e priva di scaglie, due arti inferiori e solamente due arti
superiori. Sulla sommità della testa, aveva ciuffi di peli sporchi, e gli
stessi peli gli contornavano la parte inferiore del volto. Indosso aveva
solamente stracci, segno di una qualche civiltà che però doveva essere stata
perduta da tempo. Immer’nok ordinò ai suoi soldati di catturarlo e questi
eseguirono l’ordine sorprendentemente bene: uno di essi lanciò la rete e
accalappiò la creatura, che cadde sul terreno duro gemendo. Dopo pochi istanti,
altre creature simili emersero dalle tenebre e, come il loro simile, corsero
come pazzi nel tentativo di distanziare i propri predatori. Uno dei
soldati-schiavi dovette colpire alla gamba con il manico della lancia uno dei
due, per farlo capitombolare per terra, mentre l’altro, una creatura con i peli
sulla testa molto più lunghi e due strani rigonfiamenti a coppa sul petto,
riuscì a distanziarli.
“Se non riuscite
a catturarli subito, non permettete che se ne vadano vivi!”, ordinò Immer’nok.
La creatura cadde a terra pochi istanti dopo, trafitta da una lancia scagliata
da uno dei th-ya.
“Due, e in buona
salute! – esclamò Gaengl – gli dèi vi assistono, mio signore!”
“Non è
sufficiente. Ne voglio degli altri.”
“Se posso
permettermi, mio signore, abbiamo già trascorso qui molto tempo. Siamo stati
fortunati che altre creature ben più temibili non siano uscite dal buio. Io non
abuserei della nostra buona sorte.”
“Se sei troppo
timoroso per rimanere, allora vattene! Troveremo la strada da soli!”
Gaengl fu
tentato di seguire il consiglio, ma rimase nella sua posizione. L’onta della
fuga sarebbe stata deleteria per i suoi affari.
Mentre i
rimanenti th-ya stordivano con una botta in testa le due creature catturate e
provvedevano e legar loro gli arti, Immer’nok fissava con attenzione la Grande
Crepa. Per un attimo gli parve di vedere uno scintillio nell’oscurità, ma poi
tutto tornò normale, se così si poteva definire quello strano ambiente.
Improvvisamente,
una creatura balzò fuori dalle tenebre e si avventò su di lui. Sembrava avere
la stessa forma delle altre bestie appena catturate, ma a differenza degli
altri, indossava una veste aderente nera che ne copriva interamente le
fattezze. Come la creatura che avevano ucciso, anch’essa aveva due
rigonfiamenti sul petto e una vita esile, peli neri e lisci che le ricadevano
sulla schiena, tranne sul lato destro del cranio, che era rasato e aveva
marchiati una serie di simboli rossi incomprensibili.
La creatura
lottò con Immer’nok brevemente, perché subito il padrone rosso riuscì ad
allontanarla con un colpo del suo scudo diretto al volto. La bestia si accasciò
su di un fianco, e solo in quel momento il th-ya si rese conto che il suo corpo
mostrava delle ferite ben più antiche ma ancora sanguinanti.
“Ti prego…
aiutami…”, disse la creatura, poi i suoi occhi pallidi si rivoltarono e svenne.
“Parla! – esclamò
Immer’nok con sorpresa – questo mostro ha parlato! Quale maleficio è mai
questo?”
Gaengl si
avvicinò e osservò con un misto di orrore e curiosità la creatura svenuta.
“Li ho sempre
sentiti fare versi incomprensibili. Forse tra di loro riescono a comunicare. Ma
è la prima volta che sento uno di questi umani
parlare la nostra lingua. Questa creatura vale più di una tribù di mille
guerrieri, siete stato benedetto dagli dèi, mio signore!”
Immer’nok non
potè fare altro che concedersi un sibilo di soddisfazione.
Il gruppo di
cacciatori fece ritorno alle Grotte Infinite, casa del clan di Immer’nok, e una
volta lì si separarono da Gaengl, che venne pagato profumatamente per i servigi
resi. Le prime due bestie catturate, due creature massicce e dallo sguardo
ostile, vennero subito messe sotto con il lavoro: a suon di colpi di frusta,
gli allenatori di schiavi avevano il duplice obiettivo di forgiare il corpo di
quegli animali e al tempo stesso renderli mansueti come uno shak-thy dagli
stomaci pieni. I due erano impauriti, come se non avessero la minima conoscenza
del luogo in cui si trovavano, ma quando i servi portarono loro del cibo ci si
avventarono contro come se non mangiassero da giorni.
Ma più di tutte
era il curioso animale vestito di nero ad attirare le attenzioni di Immer’nok.
Aveva su tutto il corpo e su buona parte delle braccia degli squarci profondi,
come se fosse stata ferita da un qualche temibile mostro dotato di artigli, e
il th-ya si trovò a temere per la sua vita (per una pura questione economica,
la sua perdita sarebbe stata insostituibile). Oltre alle strane vesti, ad
attirare l’attenzione di Immer’nok fu il marchio rosso sul cranio, una serie di
simboli che poteva ricordare un qualche tipo di scrittura, ma incomprensibile
ai suoi occhi. Forse era il linguaggio che parlavano quegli esseri.
Il padrone rosso
vegliò sul corpo della creatura per i giorni successivi, assistito dagli
sciamani, che le avevano ripulito le ferite e somministrato delle erbe sacre
per la guarigione.
Una notte, finalmente,
la bestia riaprì gli occhi. Immer’nok dovette trattenere la sua eccitazione
quando ciò avvenne, ma la prudenza non l’aveva abbandonato, così strinse in una
mano un affilato coltello dalla lama di selce. La creatura emise un gemito e
fece qualche colpo di tosse.
“Riesci a
capirmi?”, chiese Immer’nok.
Gli occhi chiari
si puntarono su di lui, e lo osservarono con attenzione. Sembrava che lo
stessero attentamente studiando.
“Sì… ti
capisco…”, disse. Il padrone rosso per poco non si mise a saltellare per la
stanza per la contentezza. Riuscì però a mantenere un’apparenza di contegno.
“E come sei in
grado di farlo? Voi umani non parlate la nostra lingua.”
“Io… io sì.
Capisco tutte le lingue, non solo la tua. Sono stata modificata per farlo”,
disse lei. Immer’nok non capì precisamente cosa la creatura intendesse, ma
quando tentò di alzarsi a sedere, le fece scattare il coltello alla gola.
“Ascoltami bene,
bestia! Che tu sia in grado di capirmi non cambia assolutamente nulla! Io ti ho
catturato, e ora sono il tuo padrone! E tu mi soddisferai, che tu lo voglia o
no!”
La donna alzò le
mani in segno di resa, ma fissò Immer’nok con un gelo tale negli occhi pallidi
che il padrone rosso comprese che non mostrava il minimo segno di paura. Una
condizione che, se non altro, meritava del rispetto.
“Hai un nome,
bestia?”, chiese Immer’nok.
“Mi chiamo
Nadira. E non sono una bestia, sono una femmina umana.”
“Femmina,
maschio, non ha importanza! Quando si saprà in giro che ho con me un umano in
grado di parlare, diventerò il padrone rosso più potente di tutti i clan! Per allora
dovrai rimetterti, e dovrai spiegarmi molte cose. Ho molte curiosità che tu,
con la tua lingua balbettante, potrai soddisfare.”
“Mi hai salvato
la vita, e te ne sono riconoscente. Ma sappi, padrone, che non ho intenzione di
sottostare al tuo volere. Tu sei un th-ya, vero? A giudicare dal tuo aspetto,
sono finita proprio nel luogo che avevo intenzione di raggiungere. Ma non mi
aspetto che tu comprenda.”
Era vero,
Immer’nok non comprendeva. La risposta di Nadira era stata talmente audace e
stravagante che il padrone rosso si trovò spiazzato, non sapendo più cosa
risponderle. Si sentiva affascinato da quella creatura, una sensazione che
trovava deliziosa e sgradevole allo stesso tempo.
“E allora fammi
comprendere! – sibilò Immer’nok – parlami! Cosa c’è nella Grande Crepa? Cosa
stai cercando, qui nelle nostre terre? Da dove venite, voi uomini?”
“Ascoltami bene,
creatura. Il vostro mondo, uno dei tanti, sta per finire. Non dipende da me, e
non dipende da voi. Dovete semplicemente accettare la realtà dei fatti.
Potrebbero volerci giorni, settimane, forse anni, ma succederà. Io sono venuta
qui per trovare una persona, e portarla via prima che questo accada e venga
perduta per sempre.”
Immer’nok diede
la schiena a Nadira e si recò verso l’uscita della stanza. Aveva sentito
abbastanza. La donna non disse altro, e una volta uscito, il th-ya la chiuse
all’interno. Era evidente che era completamente pazza, farneticava di cose che
per lui non avevano alcun significato. Eppure, nella sua voce, nel suo sguardo,
c’era qualcosa di veritiero, qualcosa che dal profondo gli suggeriva che ciò
che aveva sentito non erano solamente sciocchezze.
Decise che la
notte gli avrebbe portato consiglio.
Nei giorni
successivi, Immer’nok non si recò di nuovo da Nadira. Gli sciamani gli
riferirono che le condizioni della femmina umana miglioravano di giorno in
giorno, e che durante il periodo di convalescenza non aveva dato alcun
problema. Certo, la voce che il possente padrone rosso del clan delle Grotte
Infinite possedesse un’umana parlante si era espansa, così, nei giorni
successivi, Immer’nok trovò costantemente all’ingresso dei suoi alloggi una
folla di curiosi, che prontamente faceva cacciare via dai suoi soldati-schiavi.
Aveva ripensato
più volte alle parole della creatura ma, per qualche strano motivo che non
riusciva a comprendere, non aveva più avuto il coraggio di andare a parlarne
per continuare il discorso. Era ormai certo che la donna fosse convinta di ciò
che gli stava dicendo.
Per tirarsi su
di morale e per rallegrare anche il morale del suo clan, organizzò nei giorni
successivi dei giochi presso la Fossa, dove numerosi schiavi th-ya si
affrontarono a morte, e il culmine dello spettacolo venne dato dai due umani
catturati solo pochi giorni prima che, sebbene fossero ancora inesperti alle
arti della guerra, catturarono l’attenzione di tutti gli spettatori. Tra le
lacrime (una curiosa condizione che sembrava scatenarsi solo negli umani) uno
dei due ebbe la meglio sull’altro, sfondandogli il cranio con una mazza di
pietra.
Thlalisi, il
capo del clan delle Grotte Infinite, uno dei più superbi guerrieri del popolo
th-ya, sedeva durante quell’evento proprio di fianco a Immer’nok, e si lasciò
andare ad un grido gioioso quando assistette allo spettacolo di quello strano
sangue rosso che si mescolava alla polvere delle rocce.
“Mi è stato
riferito della strana bestia che hai trovato alla Grande Crepa. Sono vere le
voci che girano, Immer’nok? Conosce veramente la nostra lingua?”, chiese Thlalisi.
“Così è, mio
signore. Un fatto strano senza alcun dubbio, ma di cui non sono ancora stato in
grado di chiarire i motivi.”
“Sono ansioso di
poterla vedere in azione. Parlarle assieme, ancora prima di vederla combattere.
Un’occasione del genere non può andare sprecata, specie se quella creatura
dovesse essere inadatta al maneggiare un’arma.”
“Al momento non
è possibile, mio signore. Era ferita gravemente quando l’ho catturata, e
tutt’ora sta lottando tra la vita e la morte.”
Non era vero,
Immer’nok sapeva che Nadira non era più in pericolo di vita già da diversi
giorni. Ma, per qualche motivo, provava un senso di protezione verso l’umana.
Se solo avesse trovato il coraggio di parlarle nuovamente…
“È un peccato.
Ma sarò paziente, attenderò che la bestia si rimetta – disse Thlalisi – sempre
che l’assassino bianco non la prenda per prima. Lo sapevi che Chtauni, il
padrone rosso del clan delle Scaglie Stellate, ha subito un attacco proprio due
notti fa? Lui e tutti i suoi schiavi th-ya sono stati massacrati, gira
addirittura voce che la sua testa non sia stata rinvenuta, come se l’assassino
l’avesse portata via, o peggio, divorata… e, come in ogni altra occasione,
tutti gli schiavi umani sono stati liberati. Fossi in te, prenderei le dovute
precauzioni.”
“Ho già decine
di soldati a guardia dei recinti. Non corro alcun pericolo.”
Thlalisi si alzò
dal suo scranno ed emise un sibilo divertito.
“Stai attento,
Immer’nok. Anche gli altri padroni rossi ne erano convinti.”
Ed
effettivamente, Immer’nok non si sentiva al sicuro. Decise che quella notte
avrebbe di nuovo parlato con Nadira.
Giunto alla sua
dimora, ordinò ai servitori di portare Nadira nel cortile di roccia, un ampio
spazio sotterraneo ricavato tra le ville delle caverne dove sgorgava una fonte
di acqua pura. Non era luogo per schiavi quello, ma i servitori eseguirono
l’ordine senza fiatare, pur lanciando qualche strana occhiata a Immer’nok.
Il padrone rosso
si fece attendere per qualche istante, e quando fece ingresso nella grotta
malamente illuminata da dei bracieri, vide che Nadira era nuda e si stava
lavando presso la fonte.
Decise di
lasciar correre quella mancanza di rispetto e osservò con un misto di disgusto
e curiosità il corpo morbido e muscoloso della donna, ancora deturpato dalle
fresche cicatrici.
Nadira lasciò
correre lo sguardo su di lui, ma non si vergognò della sua nudità. Immer’nok
sapeva che quella era un’altra caratteristica degli umani, vergognarsi delle
proprie forme, una cosa che la loro razza giudicava semplicemente incivile. Il
suo rispetto per quella creatura crebbe ulteriormente.
“Mi hai mandato
a chiamare?”, chiese lei.
“Sì, è così.
Voglio che riprendiamo il discorso che abbiamo interrotto l’altra notte. Vedo
che ti sei rimessa.”
“Va molto
meglio. Per essere un popolo primitivo, devo dire che conoscete l’arte della
medicina molto bene.”
“Popolo…
primitivo? Come ti permetti, animale! – sbottò Immer’nok – parli di inciviltà,
quando i tuoi simili non sono altro che mostri vestiti di stracci!”
“Ora… sì, lo
sono. Ma un tempo non era così, e in alcuni altri mondi non è così tuttora. È
normale che voi th-ya ci giudichiate animali, perché avete avuto solamente una
piccola visione dell’insieme. Credi forse che questo sia l’unico mondo? Credi
che non ne esistano altri, là, dentro la Grande Crepa?”
“Questa terra,
che noi chiamiamo Kishogy, è l’unica ed è dove gli dèi hanno deciso che
dobbiamo vivere. Ma esiste un altro mondo oltre questo, chiamato Klijasad, dove
le anime dei più grandi guerrieri vanno dopo la morte per vivere in eterno e
dove le anime dei codardi diventano polvere e creature striscianti. Questo è
ciò che gli dèi ci insegnano.”
“Bene, allora
sono sicura che comprenderai quanto sto per dirti. Kishogy, il vostro mondo, è
realtà. E anche Klijasad lo è, sebbene io non abbia mai potuto visitarla. Ma
sono solamente due tra le infinite realtà che fluttuano nel multiverso.
Esistono mondi dove gli umani sono una razza potente e temuta, altri popolati
da demoni, altri ancora da spiriti. È caos, è magia, ma è pura realtà. Io, come
tutti gli altri uomini e le strane bestie uscite dalla Grande Crepa, vengo da
un altro mondo. Ma c’è qualcosa, in un mondo popolato dagli uomini, che ha
spezzato questo equilibrio. Nanaeel Caosgi, viene chiamato, e ora sta accadendo
qualcosa di innaturale: i mondi si stanno incontrando. Tutti i mondi,
lentamente, vengono attirati da quell’oggetto, da quel cubo, e si fondono
insieme. Un caos indescrivibile, riusciresti a immaginarlo? Riusciresti a
immaginare Kishogy, la tua terra, sovrapposta a Klijasad, sovrapposta alla mia
Terra, sovrapposta alla dimensione Nagleis, sovrapposta alla dimensione
Vitrudes, sovrapposta alla dimensione Crematoria? La Grande Crepa non è
naturale, è come una piaga, un tumore che si espande sul vostro mondo e
lentamente lo corroderà, fino a che non si sarà fuso con gli altri. Kishogy non
ci sarà più, ma diventerà parte di ciò che è Nanaeel Caosgi.”
Immer’nok
riflettè attentamente sulle parole di Nadira. Si era sempre reputato un th-ya
intelligente, ma ora faticava ad accettare l’enormità di quanto quella creatura
gli stava raccontando. Poteva essere una falsità, una menzogna per confonderlo…
eppure erano troppe le verità che nuotavano nella sua mente. Nadira parlava la
sua lingua, anzi, a suo dire parlava tutte
le lingue. La Grande Crepa era qualcosa di innaturale, che non doveva
esistere, qualcosa di alieno… come se altri mondi, con i loro mostri e le loro
leggi, avessero deciso di sovrapporsi in un unico punto del loro piccolo
universo.
“Se ciò che dici
è vero – iniziò Immer’nok, e per la prima volta le sue parole avevano una nota
timorosa – come fai a sapere tutte queste cose? Perché gli altri umani che
abbiamo ridotto in catene non sono altro che barbari incivili?”
“Quegli uomini
provengono dai mondi che per primi sono stati vittima di Nanaeel Caosgi.
Qualcosa dentro di loro si è rotto, quando i loro mondi sono crollati. La loro
mente si è spezzata, hanno vagato tra le folli eternità di universi a loro
alieni, con l’unico scopo di sopravvivere. Quelli che sono giunti qui, in
questa terra che ha ancora apparenze di stabilità, possono considerarsi
fortunati. Forse è la morte nelle arene ciò che li attende, ma almeno è una
morte in un luogo a loro più familiare rispetto all’entropia da cui provengono.
La morte non è che un passaggio. Dopo, ci sono sempre altri mondi. Ma superato
quel punto, il corpo fisico non sarà più per loro una preoccupazione. Ti chiami
Immer’nok, vero?”
“Sì. Come lo
sai?”, chiese il rettile fissandola.
“Ho sentito gli
sciamani riferirsi a quel nome chiamandolo padrone rosso. Non è stato difficile
capire che fossi tu. Mi hai anche chiesto come faccio a sapere tutte queste
cose. Ebbene, tu mi hai salvato la vita, e quindi te lo dirò.”
Immer’nok non
replicò. Era completamente assorbito dalla voce e dallo sguardo pallido di
quella donna, che gli stava raccontando verità mai rivelate.
“Faccio parte di
un’organizzazione, chiamata i Cacciatori, che ha sede in una dimensione
conosciuta come Omega-8. Quella dimensione è una prigione dove tutte le
creature che hanno commesso crimini contro il multiverso vengono rinchiusi, ma
allo stesso tempo è abitata da guardiani che hanno il compito di sorvegliare
ciò che sta accadendo, far sì che le dimensioni continuino ad avere il loro
equilibrio. Non siamo solamente umani, ma creature provenienti da tutti gli
universi, che per intelligenza o abilità sono state scelte, a cui è stata
rivelata la vera realtà dei fatti… e a cui è permesso viaggiare tra gli
universi per svolgere gli scopi dell’organizzazione. Quante meraviglie e quanti
orrori abbiamo vissuto! Non ne avresti idea, il multiverso è un luogo troppo
ampio e troppo… strano, per poterlo descrivere completamente!”
“I simboli che
porti sulla testa, quindi…”, iniziò Immer’nok.
“Sono il simbolo
degli agenti dell’organizzazione. Se mai vedrai altre creature portare marchi
simili, saprai di avere di fronte un Cacciatore.”
Era una mole di
informazioni troppo grande per poterla assimilare tutta insieme. Il padrone
rosso si avvicinò alla fonte e si schizzò d’acqua, facendola colare tra le
scaglie, assaporandone la sensazione gelida. Nel frattempo, Nadira si alzò e si
rivestì con i pochi panni che i servi di Immer’nok le avevano fornito.
“Puoi fare qualcosa per salvare il nostro
mondo? O siamo condannati?”, chiese, mentre fissava la massa d’acqua scura.
“No, non c’è
niente che si possa fare. Presto o tardi, la Crepa si allargherà e vi
inghiottirà tutti. Non solo questo pianeta, ma l’intero universo. Ma per
allora, voi th-ya sarete già tutti dispersi tra le realtà, sempre che sarete
ancora vivi.”
“Allora cosa sei
venuta a fare qui? Perché sei venuta a tormentarmi con le tue parole
apocalittiche, se non è per darci una salvezza?”, le urlò contro. Immer’nok era
furioso, non riusciva ad accettare l’ineluttabilità del destino e le ragioni di
quella donna. La amava, perché aveva aperto la sua mente, ma al tempo stesso la
odiava.
“Come ho detto,
sono qui per cercare qualcuno. Voi lo chiamate l’assassino bianco.”
“L’assassino
bianco! – sbottò Immer’nok – cos’è quel mostro? Una delle creature a cui la tua
organizzazione da la caccia?”
“No. È egli
stesso un Cacciatore.”
Immer’nok emise
un sibilo stizzito nei confronti della donna. Dopo quest’ultima affermazione,
il suo rispetto si stava trasformando in odio.
“È uno di voi
quello che ha sterminato i nostri simili! Perché mai avrebbe dovuto farlo?
Siamo forse criminali, noi? Qual è lo scopo di questa follia?”
“La sua è
follia, infatti, ed è mio compito riportarlo a casa. Ora è divenuto una
creatura diversa, ma egli, un tempo, era un umano, proprio come me… giunto in
questo mondo per analizzare la situazione della Grande Crepa, ha visto i suoi
simili in catene e… qualcosa nella sua mente non ha retto. Non dovrebbe essere
nostro compito, quello di salvare gli umani, nemmeno se giunti qui per una
rottura dell’equilibrio. Lui lo sta facendo, e la sua furia non conosce
confini.”
Immer’nok
rifletté su quest’ultima affermazione. Se si fosse trovato lui in una
situazione simile non avrebbe rischiato nulla per salvare dei suoi simili in
catene. Li avrebbe semplicemente giudicati deboli e privati del suo rispetto,
ma gli umani non avevano i suoi stessi sentimenti. I pensieri turbinarono nella
sua mente: l’arrivo dell’apocalisse, l’assassino bianco che prima o poi avrebbe
attaccato anche le sue caverne, Nadira.
Improvvisamente,
seppe che cosa doveva fare.
“Ti aiuterò a
trovare l’assassino bianco e ti darò la libertà, Nadira. Ma ad un’unica
condizione.”
“Quale sarebbe?”
“Quando te ne
andrai da questo mondo, mi porterai via con te. Verrò con te su Omega-8, oppure
in qualsiasi altro mondo tu voglia andare, mi basta che non sia un mondo
morente. Se la fine di Kishogy è vicina, io non voglio morire assieme a lui.”
“No, non mi è
permesso estrarre forme di vita native dal proprio universo senza un esplicito
permesso del Gerarca. Ciò che mi chiedi è semplicemente impossibile.”
“E allora,
Nadira, rimarrai qui, in prigione, per il resto della tua… della nostra vita.
Non ti permetterò di completare la tua missione, se non sottostarai alle mie
condizioni.”
“Non importa, tu
sei un padrone rosso. L’assassino bianco verrà a uccidere anche te, prima o
poi, e quando mi libererà potrò parlare con lui. È solo questione di tempo.”
Immer’nok decise
di giocarsi l’ultima carta.
“Già, ma il
tempo, umana, è proprio quello che ti manca, non è vero? L’hai detto tu stessa:
questo mondo potrebbe finire tra anni come tra pochi giorni. Come sei sicura
che l’assassino bianco arrivi da te in tempo? Non lo puoi sapere.”
Immer’nok contò
sul fatto che Nadira non sapesse che l’assassino bianco aveva attaccato il clan
delle Scaglie Stellate, le cui caverne distavano solamente pochi giorni di
viaggio dalle Grotte Infinite. Lui sarebbe sicuramente stato il prossimo
obiettivo.
Capì di aver
colto nel segno quando la donna fissò il vuoto con espressione corrucciata.
“Accetto”, disse
Nadira con un filo di voce.
Immer’nok sibilò
soddisfatto.
Immer’nok
rimuginò su quanto Nadira gli aveva raccontato, cercando disperatamente di
trovare delle falle nelle sue spiegazioni, in modo da poterle dichiarare false.
Per quanto si sforzò, non ci riuscì. Presto l’assassino bianco sarebbe giunto
alla sua ricerca, non doveva fare altro che aspettare e, al momento giusto,
farsi trovare a fianco di Nadira, in modo che lei potesse placarlo.
C’era comunque
la possibilità che la donna decidesse di tradirlo, ma in tal caso, mondo
morente o no, avrebbe combattuto contro di lei e contro la creatura che stava
cercando fino alla fine: una morte disonorevole era l’ultima cosa che
desiderava.
Immer’nok
osservò che un singolo dettaglio avrebbe potuto fargli definitivamente
accettare che Nadira gli aveva detto la verità: il marchio rosso. Se era vero
che l’assassino bianco era un Cacciatore, anch’egli avrebbe portato il marchio,
sulla testa o in qualche altro punto del corpo.
Il padrone rosso
faticò a riposare nei giorni successivi: tutto gli sembrava irreale. Gli altri
th-ya, fossero essi schiavi, riproduttrici o guerrieri del clan avevano assunto
tutti un’aria anonima, priva di interesse, come se fossero tutti quanti
simulacri e totem, parvenze di vita in un mondo di immaginazione.
Diede
silenziosamente addio alle sue caverne, alle ricchezze che aveva accumulato,
agli schiavi che tanto avevano fatto per innalzare la sua reputazione. Ovunque
stesse andando, non gli sarebbero più serviti. Diede ordine di triplicare la
sorveglianza, non tanto per avere effettive possibilità di fermare l’assassino
bianco, quanto di averne maggiori d’essere avvertito del suo arrivo.
Qualcosa nel suo
mondo stava cambiando. Piccoli cambiamenti, impercettibili per tutti i th-ya
che non erano a conoscenza della verità, ma a cui lui iniziava a stare
particolarmente attento. La polvere rocciosa che si accumulava sul fondo delle
caverne stava sospesa nell’aria mezzo secondo di troppo se veniva agitata, i soli grigi lanciavano strani
riflessi colorati, il sapore della carne del bestiame era troppo amara o troppo
dolce.
Non poteva fare
nulla, solo attendere.
E la sua attesa
venne premiata tredici giorni dopo lo sconvolgente dialogo con Nadira quando,
intento a riposare nella sua grotta privata, venne svegliato da un brusco
rumore. Gli sembrò di sentire in lontananza l’eco dei sibili di dolore dei suoi
soldati-schiavi, il cozzare delle armi di selce contro qualcosa che era
semplicemente troppo duro per essere
ferito. Afferrò la lancia e lo scudo, che ormai teneva sempre accanto al suo
giaciglio, e corse verso i recinti degli schiavi. Doveva raggiungere Nadira prima
che fosse troppo tardi.
Durante il
tragitto non vide nessuno dei suoi servi, segno che qualcosa di orribile stava
effettivamente accadendo. Trovò le tracce del sangue violetto dei suoi
sottoposti sparsi per i corridoi, i loro corpi dilaniati e le interiora sparse
come se fossero stati squartati da una belva feroce e gigantesca.
Mancavano poche
decine di metri alla sua meta, quando un urlo minaccioso lo fece voltare
terrorizzato. Ciò che vide era sconvolgente: aveva di fronte una creatura alta
quasi quattro volte lui, la cui sola estremità superiore ricordava quella di un
umano. Aveva braccia e un torace muscolosi, di un bianco metallico, e il volto
era coperto da un elmo dello stesso colore che non faceva risaltare alcun
tratto. Le similitudini con un uomo, sfortunatamente, si fermavano qui. La
parte inferiore del suo corpo era quella di una bestia uscita direttamente
dagli incubi, dotata di sei zampe lunghe e sottili, ali membranose e un corpo
oblungo, tanto simile a quello di alcuni insetti, inferiori animali divoratrici
di carogne, che erano considerati una prelibatezza tra i th-ya, se fritti nel
burro di shak-thy.
Con l’ultimo
sguardo, Immer’nok riuscì a individuare la striscia di glifi rossi tatuata
sull’avambraccio sinistro della creatura. Poi, iniziò a correre.
L’assassino
bianco avanzò verso di lui ad una velocità superiore, e fu solamente grazie
alla notevole distanza che li separava che il padrone rosso riuscì a
raggiungere la porta della cella di Nadira incolume. Sentì il fiato freddo
della creatura che gli soffiava sul collo e il disgustoso crocchio delle sue
zampe che si muovevano indifferentemente su soffitti e pavimenti.
Spalancò la
cella della donna urlando il suo nome, quasi lanciandosi ai suoi piedi. Non
aveva mai avuto tanta paura in vita sua. Come poteva Nadira sostenere che
quella creatura fosse ancora umana?
Quando
l’assassino bianco vide la prigioniera, che era seduta sul pagliericcio della
cella, la sua furia si placò. Le sue zampe di fermarono, e le mani (che,
Immer’nok vide solo ora, erano dotate di micidiali artigli) si abbassarono in
segno di resa. Nadira alzò lo sguardo, con un sorriso ironico in volto.
“Ciao, Frener. È
un piacere rivederti”, gli disse.
Frener incurvò
la schiena ed emise un urlo, che Immer’nok non seppe valutare se era di dolore
o di sorpresa. Ma la sua incredulità fu ancora più grande quando vide che il
colosso mostruoso, il temuto assassino bianco, si stava trasformando. La parte
inferiore del suo corpo si stava rimpicciolendo, racchiudendosi su sé stessa,
fino a che non si trasformò in due normalissime gambe umane (sebbene
conservassero quell’apparenza metallica bianca).
“Non aspettavo
tue visite – disse Frener con voce profonda e atona – ma rimanderemo i
convenevoli a dopo. Prima, lasciami eliminare questo schiavista.”
Immer’nok puntò
la lancia in direzione del Cacciatore. La sua forma umana gli incuteva molto
meno timore, e se avesse dovuto lottare, avrebbe venduto care le scaglie.
“Fermo, non c’è
bisogno di fargli del male. Potrebbe servirci.”
“Che dici,
Nadira? Come può esserci utile, questo selvaggio?”
“Ho parlato con
lui, sa tutto quanto. È intelligente, per uno della sua razza. Potrebbe essere
un buon Cacciatore.”
“Cosa? - chiese Immer’nok, con aria esterrefatta –
non erano questi i nostri accordi!”
“Immer’nok, sono
una Cacciatrice di Omega-8, avrei potuto scappare dalle tue prigioni giorni fa,
se solo l’avessi voluto. Tu non hai idea di quali minacce siamo portati ad
affrontare. Ma ho preferito aspettare, osservare la situazione, e il motivo lo
sai. Noi siamo creature provenienti da tutti gli universi, che per intelligenza
o abilità sono state scelte. Anche questa è la nostra missione, trovare altri
che possano far parte delle nostre fila. E io credo proprio di aver trovato
quel qualcuno. Oppure puoi rimanere qui, sul tuo mondo morente, fino a che la
Grande Crepa non avrà mutato tutto quanto.”
“Non te ne
pentirai – disse Frener – questo te lo posso garantire.”
Immer’nok
rifletté sulla proposta, ma sapeva già cosa avrebbe risposto. La vita era
sempre preferibile alla morte, l’onore sempre meglio del disonore. E quella
caccia, quella grande caccia che quei due strani individui gli stavano
proponendo, gli avrebbe senza dubbio concesso il il Klijasad, dopo la morte. O
mentre era ancora vivo.
“Accetto”,
rispose con voce ferma.
Frener annuì, e
sebbene quel gigante non avesse volto, a Immer’nok parve di percepire
dell’approvazione nelle sue movenze.
“Frener, veniamo
a noi. Il Gerarca Okox vuole parlarti, urgentemente. Hai travisato gli scopi
della tua missione qui, è ora che tu faccia rapporto.”
“Io… scusa,
credo di essermi fatto prendere un po’ la mano. Tutti questi uomini, che loro
tengono come schiavi… mi ricordano ciò che ero una volta. E la cosa mi fa
soffrire.”
“Non possiamo
permetterci sofferenza. Non noi, non nel multiverso. Noi siamo oltre queste
condizioni, e il tuo corpo lo dimostra. Tu hai oltrepassato da un pezzo la
condizione umana.”
Frener fissò il
terreno per qualche istante, poi annuì.
“Torniamo a
casa”, disse l’assassino bianco.
“È programmato
un prelevamento nei pressi della Grande Crepa tra tredici ore e ventotto minuti
standard. Se ci sbrighiamo possiamo farcela in tempo”, concluse Nadira.
Frener annuì, e
si allontanarono insieme.
Immer’nok
osservò un’ultima volta le Grotte Infinite, che erano state le sua casa per
ottantasei anni, e comprese che non gli sarebbero mancate.
Era l’inizio di
qualcosa di più grande.
[Nota: per una visione più completa della vicenda, consiglio la lettura dei miei racconti "L'Alchimista dei Mondi" e "Giustizia Superiore", disponibili anch'essi sul blog.]