sabato 22 giugno 2013

Fine di un Mondo Lontano



La comitiva di strane creature avanzava rapidamente nel freddo deserto roccioso. Erano in quattordici: sette possenti cavalcature dominate da altrettanti cavalieri, che da lontano sarebbero potuti apparire come un gigantesco serpente scaglioso che strisciava con grazia e velocità in quella brulla terra dai toni rugginosi.
Le bestie, titani dalla pelle pallida e coperta di aculei smussati, alte quasi due metri al garrese, erano dotate di sei possenti zampe piatte perfettamente adatte a muoversi con agilità in quei territori. Il loro volto tondeggiante era dominato da tre occhi a mandorla completamente bianchi e da due bocche dotate di file di denti larghi e durissimi, in grado di divorare roccia e detriti con la stessa facilità con cui una mano può stringere un’arma.
I loro cavalieri, che stavano comodamente accoccolati su delle coperte sistemate sulla schiena delle bestie, in una posizione dove gli aculei erano stati accuratamente recisi, non erano di aspetto meno esotico. Alti poco più di un metro, avevano il corpo magro interamente ricoperto di scaglie verde scuro, due gambe e quattro braccia dotate di micidiali artigli, una lunga coda e volti serpentini dalle due pupille color blu notte. Con due braccia tenevano saldamente le redini di cuoio per controllare la bestia, mentre nelle altre reggevano scudi di cuoio indurito e lance dalla punta di selce.
La Landa Ferita, così era chiamato quel luogo dai th-ya, i membri di quello strano popolo, era insolitamente rumorosa. Il vento trasportava un ululato in lontananza, nato da creature così aliene che persino quella tribù guerriera temeva, assieme a suoni flautati e dissonanti, come se numerose persone stessero suonando insieme strumenti musicali perfettamente accordati ma seguendo ognuno la propria melodia.
I due soli gemelli grigi stavano calando all’orizzonte, e presto avrebbe dominato l’oscurità della notte.
“Dovremmo quasi esserci – disse con voce sibilante il th-ya in testa alla compagnia, che al di sopra delle scaglie portava cinghie di cuoio ornate d’ossa e scaglie di altre bestie come ornamento – arriveremo alla Grande Crepa prima del calare della notte. Prima di allora dovremo abbandonare le cavalcature.”
Gaengl era la guida della compagnia, uno dei pochi th-ya che conoscesse le poche strade che portavano alla Grande Crepa evitando la maggior parte dei pericoli della Landa Ferita. Era stato pagato da Immer’nok, un potente signore schiavista della casta dei padroni rossi, perché conducesse lui e alcuni servi fidati fino a quel luogo, dove si diceva si potesse svolgere la miglior caccia per i propri affari… se si era abbastanza coraggiosi da affrontare la Crepa stessa.
“Perché mai dovremo abbandonarle?”, chiese Immer’nok, la cui cavalcatura si trovava proprio dietro quella di Gaengl. Il th-ya era abbigliato con dei bracciali rossi sui quattro arti superiori e un tondo cappello di pelle dello stesso colore, a simboleggiare il suo status sociale.
“Gli shak-thy hanno paura della Grande Crepa. Sentono che c’è qualcosa che non va, che è innaturale, che non dovrebbe esistere. E se vengono costretti ad avvicinarvisi, tentano di scappare disarcionando i loro padroni o impazziscono e tentano di divorarli. A volte si divorano anche a vicenda, e in un’occasione ho visto uno shak-thy particolarmente fedele e mansueto, che mai avrebbe fatto del male al proprio cavaliere o a chicchessia, avere un tremito e cadere a terra morto pochi momenti dopo. Gli erano esplosi i cuori dalla paura, capisci, mio signore? Per questo andremo a piedi. Così troveremo la cavalcature al nostro ritorno.”
“Sempre che non le divorino le serpi nere”, commentò acido Immer’nok.
“Non ci sono serpi nere qui intorno, né qualsiasi altro animale. L’ho detto padrone, solo la nostra razza è così coraggiosa da avvicinarsi così tanto.”
Coraggio o follia?, rifletté Immer’nok. Avesse esposto il suo pensiero ad alta voce sarebbe immediatamente stato giudicato un codardo. Nella società dei th-ya, la fierezza, l’onore e la bravura nell’arte guerresca erano tutto. Chi non le aveva poteva al massimo ambire alla schiavitù, o al destino di riproduttrice se fosse stata una femmina. Ma erano pochi i th-ya che sarebbero stati disposti ad accoppiarsi volontariamente con una femmina codarda.
“Che mi sai dire sulla Grande Crepa? So solo che si dice che loro vengono da lì”, chiese Immer’nok.
“Sì, è vero, mio signore – rispose Gaengl – ma oltre a questo, non è che si sappia poi molto su quel luogo. Fino a qualche ciclo fa, non si sapeva della sua esistenza, e come ben sai nemmeno loro erano mai stati avvistati. La terra si è aperta così, da una notte all’altra, e quei demoni sono comparsi. Ma non solo loro, mio signore, non solo loro. Molte altre creature vengono da là sotto, assieme a questa musica. La senti, vero? È l’ululato della follia, che li spinge a invadere la sacra terra dei clan. Non sono molti, ma si dice che un giorno lo saranno, perché è vero, la Crepa si allarga sempre di più e ad ogni ciclo ne arrivano altri, sempre più temibili. Come l’assassino bianco.”
“L’assassino bianco è una leggenda!”, borbottò un altro th-ya, uno dei soldati-schiavi al seguito di Immer’nok, che fino a quel momento aveva ascoltato la conversazione in silenzio.
“Non ti ho dato il permesso di parlare, servo! – lo redarguì Immer’nok – e farai bene a ricordarti queste tue parole, perché da questo momento in poi sarai tu di guardia ai recinti!”
Le scaglie dello schiavo impallidirono, i suoi occhi si ridussero a due fessure, mostrando evidenti segni di codardia. Come a insultarlo e a ricordargli nuovamente la sua posizione, Immer’nok gli sibilò contro.
“Se ho il permesso di rispondere al vostro schiavo, mio signore – disse Gaengl – posso confermare che l’assassino bianco non è affatto un mito. Egli è un vero e proprio mostro, che vaga nella notte tra i recinti degli schiavi e le caverne dei padroni rossi. Uccide tutti i th-ya che incontra, siano essi guerrieri o servi, e libera dalle catene quelli che si dice siano i suoi fratelli. Ma egli non somiglia per niente ad uno di loro… egli ha un corpo bianco ed enorme, artigli in grado di dilaniare uno shak-thy, e un volto lucente simile ad uno dei soli grigi… vidi un’ombra, una volta, che corrispondeva a questa descrizione. E la scia di cadaveri che si lasciò le spalle infesta ancora le mie notti, e riempie di rabbia le mie mani.”
Tra i soldati-schiavi corse un sibilo di terrore. Immer’nok li fulminò con lo sguardo. Sapeva perfettamente del mito riguardante l’assassino bianco, ma era la prima volta che incontrava qualcuno che sosteneva di averlo effettivamente visto, anche se solo di sfuggita. Il malumore che iniziò a serpeggiare tra i suoi sgherri, però, gli fece capire che era il caso di concludere il discorso.
“Parli molto, per essere solamente una guida. Per il resto del viaggio ci condurrai in silenzio, perché è meglio risparmiare la voce per sentire i rumori sospetti che ci circondano”, gli disse autoritario.
“Sì, mio signore”, rispose Gaengl, e per il resto del viaggio tacque.
Dopo nemmeno mezz’ora di viaggio, furono costretti a lasciare le cavalcature nei pressi di un’oasi colma di acqua sporca, dato che stavano cominciando a mostrare segni di inquietudine. Proseguirono a piedi, mentre le ombre della notte invadevano il deserto. Per i th-ya non era un problema vagare in quelle terre anguste con l’oscurità, dato che i loro occhi vedevano benissimo, ma man mano che il loro peregrinare li portava sempre più vicini alla Grande Crepa, il territorio stesso iniziò a mutare. Piante mai viste, dotate di occhi e bocche, fischiavano e cantavano al loro passaggio. Spesso i loro passi diventavano più rapidi, altre volte più lenti, come se il tempo stesso venisse distorto, e in alcuni luoghi interi banchi di pietra sbriciolata fluttuavano nell’aria, tenuti sospesi da una forza invisibile.
Immer’nok avanzò con decisione nel paesaggio alieno, ma strinse con più forza la lancia e lo scudo. I suoi servi avevano con loro, oltre alle armi, diverse reti per catturare le proprie prede. Un paio di quegli esseri schifosi sarebbe stato sufficiente per garantirgli introiti per le settimane successive, oltre che a ripagare le spese del viaggio, ma se fosse riuscito a catturarne addirittura quattro o cinque le cose si sarebbero messe decisamente meglio per il suo ruolo di padrone rosso. Era infatti responsabile del divertimento dei membri del suo clan, e possedeva decine di schiavi addestrati al combattimento da buttare nelle fosse, dove avrebbero lottato fino alla morte. Ma da quando la Grande Crepa era comparsa e quelle creature vi erano sbucate fuori, nulla attirava il favore della folla quanto una coppia di queste intenta a massacrarsi a vicenda. Qualche cacciatore o mercante particolarmente fortunato ne aveva già portati presso il suo clan: individui deboli, e tendenzialmente poco adatti al combattimento, ma Immer’nok aveva deciso di acquistarli lo stesso. Dopo aver buttato denaro in molte mani, era venuto a conoscenza del luogo migliore per cacciare quelle bestie, e aveva radunato i suoi uomini migliori per andarci di persona. Ora, doveva solo prenderle.
“Chiedo il permesso di parlare, mio signore”, disse Gaengl.
“Permesso accordato.”
Gaengl indicò avanti a sé, dove un’oscurità quasi palpabile sbarrava il cammino.
“Siamo a pochi passi dalla Grande Crepa, è meglio non proseguire oltre. Qualunque cosa succeda da questo momento in poi, mio signore, se doveste trovarvi più vicino a quell’orrido buco nel terreno, vi prego, non guardateci dentro.”
“E perché mai? C’è forse qualcosa di temibile? Hai forse paura, guida?”
“Non è questo, mio signore – disse timoroso Gaengl – non so dirvi cosa ci sia di preciso dentro la Crepa. Ma qualunque cosa sia, essa è caos incarnato. Nessuna mente è in grado di sopportarla senza venirne ferita. La pazzia e la morte sono il destino inevitabile per chiunque vi faccia cadere lo sguardo all’interno. Non è paura, mio signore, è pura sopravvivenza. Se volete vedere l’alba di domani, seguite il mio consiglio.”
Immer’nok annuì, senza replicare. Rifletté, mentre fissava quel buio innaturale, poi chiese: “Hai qualche consiglio per prenderli?”
“Attendiamo, mio signore. Essi arrivano dalla Crepa, ma per qualche motivo, la ripudiano. Tenteranno di uscirne, per scappare nelle nostre terre. Non dobbiamo fare altro che posizionarci qui, ai suoi limiti, e aspettare che qualcuno di loro salti fuori. Sono molto veloci, rispetto a noi, perché hanno gambe più lunghe, ma basterà utilizzare le reti e colpirli alla testa per stordirli. Fate attenzione, perché se messi alle strette diventano molto feroci.”
“Avete sentito, schiavi? Disponetevi, e se ve ne scappa qualcuno pagherete con la frusta!”, ordinò il padrone rosso. L’ordine venne immediatamente eseguito dai suoi timorosi servi.
Attesero in silenzio per ore, con gli occhi blu notte, due sfere buie incastonate tra le verdi scaglie, puntati sull’oscurità ancor più temibile della Crepa. Tutt’attorno a loro, i canti delle piante continuavano, accompagnati da suoni gravi di strumenti a fiato, ballate funebri così simili a quelle che i th-ya suonavano con i loro corni.
Poi, rapido come un lampo, qualcosa fuoriuscì dall’oscurità. Come i suoi occhi bianchi notarono i th-ya, la creatura emise un urlo terrorizzato e tentò di darsi alla fuga. Aveva un corpo grande, quasi alto quasi il doppio rispetto a quello di Immer’nok, pelle chiara e priva di scaglie, due arti inferiori e solamente due arti superiori. Sulla sommità della testa, aveva ciuffi di peli sporchi, e gli stessi peli gli contornavano la parte inferiore del volto. Indosso aveva solamente stracci, segno di una qualche civiltà che però doveva essere stata perduta da tempo. Immer’nok ordinò ai suoi soldati di catturarlo e questi eseguirono l’ordine sorprendentemente bene: uno di essi lanciò la rete e accalappiò la creatura, che cadde sul terreno duro gemendo. Dopo pochi istanti, altre creature simili emersero dalle tenebre e, come il loro simile, corsero come pazzi nel tentativo di distanziare i propri predatori. Uno dei soldati-schiavi dovette colpire alla gamba con il manico della lancia uno dei due, per farlo capitombolare per terra, mentre l’altro, una creatura con i peli sulla testa molto più lunghi e due strani rigonfiamenti a coppa sul petto, riuscì a distanziarli.
“Se non riuscite a catturarli subito, non permettete che se ne vadano vivi!”, ordinò Immer’nok. La creatura cadde a terra pochi istanti dopo, trafitta da una lancia scagliata da uno dei th-ya.
“Due, e in buona salute! – esclamò Gaengl – gli dèi vi assistono, mio signore!”
“Non è sufficiente. Ne voglio degli altri.”
“Se posso permettermi, mio signore, abbiamo già trascorso qui molto tempo. Siamo stati fortunati che altre creature ben più temibili non siano uscite dal buio. Io non abuserei della nostra buona sorte.”
“Se sei troppo timoroso per rimanere, allora vattene! Troveremo la strada da soli!”
Gaengl fu tentato di seguire il consiglio, ma rimase nella sua posizione. L’onta della fuga sarebbe stata deleteria per i suoi affari.
Mentre i rimanenti th-ya stordivano con una botta in testa le due creature catturate e provvedevano e legar loro gli arti, Immer’nok fissava con attenzione la Grande Crepa. Per un attimo gli parve di vedere uno scintillio nell’oscurità, ma poi tutto tornò normale, se così si poteva definire quello strano ambiente.
Improvvisamente, una creatura balzò fuori dalle tenebre e si avventò su di lui. Sembrava avere la stessa forma delle altre bestie appena catturate, ma a differenza degli altri, indossava una veste aderente nera che ne copriva interamente le fattezze. Come la creatura che avevano ucciso, anch’essa aveva due rigonfiamenti sul petto e una vita esile, peli neri e lisci che le ricadevano sulla schiena, tranne sul lato destro del cranio, che era rasato e aveva marchiati una serie di simboli rossi incomprensibili.
La creatura lottò con Immer’nok brevemente, perché subito il padrone rosso riuscì ad allontanarla con un colpo del suo scudo diretto al volto. La bestia si accasciò su di un fianco, e solo in quel momento il th-ya si rese conto che il suo corpo mostrava delle ferite ben più antiche ma ancora sanguinanti.
“Ti prego… aiutami…”, disse la creatura, poi i suoi occhi pallidi si rivoltarono e svenne.
“Parla! – esclamò Immer’nok con sorpresa – questo mostro ha parlato! Quale maleficio è mai questo?”
Gaengl si avvicinò e osservò con un misto di orrore e curiosità la creatura svenuta.
“Li ho sempre sentiti fare versi incomprensibili. Forse tra di loro riescono a comunicare. Ma è la prima volta che sento uno di questi umani parlare la nostra lingua. Questa creatura vale più di una tribù di mille guerrieri, siete stato benedetto dagli dèi, mio signore!”
Immer’nok non potè fare altro che concedersi un sibilo di soddisfazione.

Il gruppo di cacciatori fece ritorno alle Grotte Infinite, casa del clan di Immer’nok, e una volta lì si separarono da Gaengl, che venne pagato profumatamente per i servigi resi. Le prime due bestie catturate, due creature massicce e dallo sguardo ostile, vennero subito messe sotto con il lavoro: a suon di colpi di frusta, gli allenatori di schiavi avevano il duplice obiettivo di forgiare il corpo di quegli animali e al tempo stesso renderli mansueti come uno shak-thy dagli stomaci pieni. I due erano impauriti, come se non avessero la minima conoscenza del luogo in cui si trovavano, ma quando i servi portarono loro del cibo ci si avventarono contro come se non mangiassero da giorni.
Ma più di tutte era il curioso animale vestito di nero ad attirare le attenzioni di Immer’nok. Aveva su tutto il corpo e su buona parte delle braccia degli squarci profondi, come se fosse stata ferita da un qualche temibile mostro dotato di artigli, e il th-ya si trovò a temere per la sua vita (per una pura questione economica, la sua perdita sarebbe stata insostituibile). Oltre alle strane vesti, ad attirare l’attenzione di Immer’nok fu il marchio rosso sul cranio, una serie di simboli che poteva ricordare un qualche tipo di scrittura, ma incomprensibile ai suoi occhi. Forse era il linguaggio che parlavano quegli esseri.
Il padrone rosso vegliò sul corpo della creatura per i giorni successivi, assistito dagli sciamani, che le avevano ripulito le ferite e somministrato delle erbe sacre per la guarigione.
Una notte, finalmente, la bestia riaprì gli occhi. Immer’nok dovette trattenere la sua eccitazione quando ciò avvenne, ma la prudenza non l’aveva abbandonato, così strinse in una mano un affilato coltello dalla lama di selce. La creatura emise un gemito e fece qualche colpo di tosse.
“Riesci a capirmi?”, chiese Immer’nok.
Gli occhi chiari si puntarono su di lui, e lo osservarono con attenzione. Sembrava che lo stessero attentamente studiando.
“Sì… ti capisco…”, disse. Il padrone rosso per poco non si mise a saltellare per la stanza per la contentezza. Riuscì però a mantenere un’apparenza di contegno.
“E come sei in grado di farlo? Voi umani non parlate la nostra lingua.”
“Io… io sì. Capisco tutte le lingue, non solo la tua. Sono stata modificata per farlo”, disse lei. Immer’nok non capì precisamente cosa la creatura intendesse, ma quando tentò di alzarsi a sedere, le fece scattare il coltello alla gola.
“Ascoltami bene, bestia! Che tu sia in grado di capirmi non cambia assolutamente nulla! Io ti ho catturato, e ora sono il tuo padrone! E tu mi soddisferai, che tu lo voglia o no!”
La donna alzò le mani in segno di resa, ma fissò Immer’nok con un gelo tale negli occhi pallidi che il padrone rosso comprese che non mostrava il minimo segno di paura. Una condizione che, se non altro, meritava del rispetto.
“Hai un nome, bestia?”, chiese Immer’nok.
“Mi chiamo Nadira. E non sono una bestia, sono una femmina umana.”
“Femmina, maschio, non ha importanza! Quando si saprà in giro che ho con me un umano in grado di parlare, diventerò il padrone rosso più potente di tutti i clan! Per allora dovrai rimetterti, e dovrai spiegarmi molte cose. Ho molte curiosità che tu, con la tua lingua balbettante, potrai soddisfare.”
“Mi hai salvato la vita, e te ne sono riconoscente. Ma sappi, padrone, che non ho intenzione di sottostare al tuo volere. Tu sei un th-ya, vero? A giudicare dal tuo aspetto, sono finita proprio nel luogo che avevo intenzione di raggiungere. Ma non mi aspetto che tu comprenda.”
Era vero, Immer’nok non comprendeva. La risposta di Nadira era stata talmente audace e stravagante che il padrone rosso si trovò spiazzato, non sapendo più cosa risponderle. Si sentiva affascinato da quella creatura, una sensazione che trovava deliziosa e sgradevole allo stesso tempo.
“E allora fammi comprendere! – sibilò Immer’nok – parlami! Cosa c’è nella Grande Crepa? Cosa stai cercando, qui nelle nostre terre? Da dove venite, voi uomini?”
“Ascoltami bene, creatura. Il vostro mondo, uno dei tanti, sta per finire. Non dipende da me, e non dipende da voi. Dovete semplicemente accettare la realtà dei fatti. Potrebbero volerci giorni, settimane, forse anni, ma succederà. Io sono venuta qui per trovare una persona, e portarla via prima che questo accada e venga perduta per sempre.”
Immer’nok diede la schiena a Nadira e si recò verso l’uscita della stanza. Aveva sentito abbastanza. La donna non disse altro, e una volta uscito, il th-ya la chiuse all’interno. Era evidente che era completamente pazza, farneticava di cose che per lui non avevano alcun significato. Eppure, nella sua voce, nel suo sguardo, c’era qualcosa di veritiero, qualcosa che dal profondo gli suggeriva che ciò che aveva sentito non erano solamente sciocchezze.
Decise che la notte gli avrebbe portato consiglio.

Nei giorni successivi, Immer’nok non si recò di nuovo da Nadira. Gli sciamani gli riferirono che le condizioni della femmina umana miglioravano di giorno in giorno, e che durante il periodo di convalescenza non aveva dato alcun problema. Certo, la voce che il possente padrone rosso del clan delle Grotte Infinite possedesse un’umana parlante si era espansa, così, nei giorni successivi, Immer’nok trovò costantemente all’ingresso dei suoi alloggi una folla di curiosi, che prontamente faceva cacciare via dai suoi soldati-schiavi.
Aveva ripensato più volte alle parole della creatura ma, per qualche strano motivo che non riusciva a comprendere, non aveva più avuto il coraggio di andare a parlarne per continuare il discorso. Era ormai certo che la donna fosse convinta di ciò che gli stava dicendo.
Per tirarsi su di morale e per rallegrare anche il morale del suo clan, organizzò nei giorni successivi dei giochi presso la Fossa, dove numerosi schiavi th-ya si affrontarono a morte, e il culmine dello spettacolo venne dato dai due umani catturati solo pochi giorni prima che, sebbene fossero ancora inesperti alle arti della guerra, catturarono l’attenzione di tutti gli spettatori. Tra le lacrime (una curiosa condizione che sembrava scatenarsi solo negli umani) uno dei due ebbe la meglio sull’altro, sfondandogli il cranio con una mazza di pietra.
Thlalisi, il capo del clan delle Grotte Infinite, uno dei più superbi guerrieri del popolo th-ya, sedeva durante quell’evento proprio di fianco a Immer’nok, e si lasciò andare ad un grido gioioso quando assistette allo spettacolo di quello strano sangue rosso che si mescolava alla polvere delle rocce.
“Mi è stato riferito della strana bestia che hai trovato alla Grande Crepa. Sono vere le voci che girano, Immer’nok? Conosce veramente la nostra lingua?”, chiese Thlalisi.
“Così è, mio signore. Un fatto strano senza alcun dubbio, ma di cui non sono ancora stato in grado di chiarire i motivi.”
“Sono ansioso di poterla vedere in azione. Parlarle assieme, ancora prima di vederla combattere. Un’occasione del genere non può andare sprecata, specie se quella creatura dovesse essere inadatta al maneggiare un’arma.”
“Al momento non è possibile, mio signore. Era ferita gravemente quando l’ho catturata, e tutt’ora sta lottando tra la vita e la morte.”
Non era vero, Immer’nok sapeva che Nadira non era più in pericolo di vita già da diversi giorni. Ma, per qualche motivo, provava un senso di protezione verso l’umana. Se solo avesse trovato il coraggio di parlarle nuovamente…
“È un peccato. Ma sarò paziente, attenderò che la bestia si rimetta – disse Thlalisi – sempre che l’assassino bianco non la prenda per prima. Lo sapevi che Chtauni, il padrone rosso del clan delle Scaglie Stellate, ha subito un attacco proprio due notti fa? Lui e tutti i suoi schiavi th-ya sono stati massacrati, gira addirittura voce che la sua testa non sia stata rinvenuta, come se l’assassino l’avesse portata via, o peggio, divorata… e, come in ogni altra occasione, tutti gli schiavi umani sono stati liberati. Fossi in te, prenderei le dovute precauzioni.”
“Ho già decine di soldati a guardia dei recinti. Non corro alcun pericolo.”
Thlalisi si alzò dal suo scranno ed emise un sibilo divertito.
“Stai attento, Immer’nok. Anche gli altri padroni rossi ne erano convinti.”
Ed effettivamente, Immer’nok non si sentiva al sicuro. Decise che quella notte avrebbe di nuovo parlato con Nadira.

Giunto alla sua dimora, ordinò ai servitori di portare Nadira nel cortile di roccia, un ampio spazio sotterraneo ricavato tra le ville delle caverne dove sgorgava una fonte di acqua pura. Non era luogo per schiavi quello, ma i servitori eseguirono l’ordine senza fiatare, pur lanciando qualche strana occhiata a Immer’nok.
Il padrone rosso si fece attendere per qualche istante, e quando fece ingresso nella grotta malamente illuminata da dei bracieri, vide che Nadira era nuda e si stava lavando presso la fonte.
Decise di lasciar correre quella mancanza di rispetto e osservò con un misto di disgusto e curiosità il corpo morbido e muscoloso della donna, ancora deturpato dalle fresche cicatrici.
Nadira lasciò correre lo sguardo su di lui, ma non si vergognò della sua nudità. Immer’nok sapeva che quella era un’altra caratteristica degli umani, vergognarsi delle proprie forme, una cosa che la loro razza giudicava semplicemente incivile. Il suo rispetto per quella creatura crebbe ulteriormente.
“Mi hai mandato a chiamare?”, chiese lei.
“Sì, è così. Voglio che riprendiamo il discorso che abbiamo interrotto l’altra notte. Vedo che ti sei rimessa.”
“Va molto meglio. Per essere un popolo primitivo, devo dire che conoscete l’arte della medicina molto bene.”
“Popolo… primitivo? Come ti permetti, animale! – sbottò Immer’nok – parli di inciviltà, quando i tuoi simili non sono altro che mostri vestiti di stracci!”
“Ora… sì, lo sono. Ma un tempo non era così, e in alcuni altri mondi non è così tuttora. È normale che voi th-ya ci giudichiate animali, perché avete avuto solamente una piccola visione dell’insieme. Credi forse che questo sia l’unico mondo? Credi che non ne esistano altri, là, dentro la Grande Crepa?”
“Questa terra, che noi chiamiamo Kishogy, è l’unica ed è dove gli dèi hanno deciso che dobbiamo vivere. Ma esiste un altro mondo oltre questo, chiamato Klijasad, dove le anime dei più grandi guerrieri vanno dopo la morte per vivere in eterno e dove le anime dei codardi diventano polvere e creature striscianti. Questo è ciò che gli dèi ci insegnano.”
“Bene, allora sono sicura che comprenderai quanto sto per dirti. Kishogy, il vostro mondo, è realtà. E anche Klijasad lo è, sebbene io non abbia mai potuto visitarla. Ma sono solamente due tra le infinite realtà che fluttuano nel multiverso. Esistono mondi dove gli umani sono una razza potente e temuta, altri popolati da demoni, altri ancora da spiriti. È caos, è magia, ma è pura realtà. Io, come tutti gli altri uomini e le strane bestie uscite dalla Grande Crepa, vengo da un altro mondo. Ma c’è qualcosa, in un mondo popolato dagli uomini, che ha spezzato questo equilibrio. Nanaeel Caosgi, viene chiamato, e ora sta accadendo qualcosa di innaturale: i mondi si stanno incontrando. Tutti i mondi, lentamente, vengono attirati da quell’oggetto, da quel cubo, e si fondono insieme. Un caos indescrivibile, riusciresti a immaginarlo? Riusciresti a immaginare Kishogy, la tua terra, sovrapposta a Klijasad, sovrapposta alla mia Terra, sovrapposta alla dimensione Nagleis, sovrapposta alla dimensione Vitrudes, sovrapposta alla dimensione Crematoria? La Grande Crepa non è naturale, è come una piaga, un tumore che si espande sul vostro mondo e lentamente lo corroderà, fino a che non si sarà fuso con gli altri. Kishogy non ci sarà più, ma diventerà parte di ciò che è Nanaeel Caosgi.”
Immer’nok riflettè attentamente sulle parole di Nadira. Si era sempre reputato un th-ya intelligente, ma ora faticava ad accettare l’enormità di quanto quella creatura gli stava raccontando. Poteva essere una falsità, una menzogna per confonderlo… eppure erano troppe le verità che nuotavano nella sua mente. Nadira parlava la sua lingua, anzi, a suo dire parlava tutte le lingue. La Grande Crepa era qualcosa di innaturale, che non doveva esistere, qualcosa di alieno… come se altri mondi, con i loro mostri e le loro leggi, avessero deciso di sovrapporsi in un unico punto del loro piccolo universo.
“Se ciò che dici è vero – iniziò Immer’nok, e per la prima volta le sue parole avevano una nota timorosa – come fai a sapere tutte queste cose? Perché gli altri umani che abbiamo ridotto in catene non sono altro che barbari incivili?”
“Quegli uomini provengono dai mondi che per primi sono stati vittima di Nanaeel Caosgi. Qualcosa dentro di loro si è rotto, quando i loro mondi sono crollati. La loro mente si è spezzata, hanno vagato tra le folli eternità di universi a loro alieni, con l’unico scopo di sopravvivere. Quelli che sono giunti qui, in questa terra che ha ancora apparenze di stabilità, possono considerarsi fortunati. Forse è la morte nelle arene ciò che li attende, ma almeno è una morte in un luogo a loro più familiare rispetto all’entropia da cui provengono. La morte non è che un passaggio. Dopo, ci sono sempre altri mondi. Ma superato quel punto, il corpo fisico non sarà più per loro una preoccupazione. Ti chiami Immer’nok, vero?”
“Sì. Come lo sai?”, chiese il rettile fissandola.
“Ho sentito gli sciamani riferirsi a quel nome chiamandolo padrone rosso. Non è stato difficile capire che fossi tu. Mi hai anche chiesto come faccio a sapere tutte queste cose. Ebbene, tu mi hai salvato la vita, e quindi te lo dirò.”
Immer’nok non replicò. Era completamente assorbito dalla voce e dallo sguardo pallido di quella donna, che gli stava raccontando verità mai rivelate.
“Faccio parte di un’organizzazione, chiamata i Cacciatori, che ha sede in una dimensione conosciuta come Omega-8. Quella dimensione è una prigione dove tutte le creature che hanno commesso crimini contro il multiverso vengono rinchiusi, ma allo stesso tempo è abitata da guardiani che hanno il compito di sorvegliare ciò che sta accadendo, far sì che le dimensioni continuino ad avere il loro equilibrio. Non siamo solamente umani, ma creature provenienti da tutti gli universi, che per intelligenza o abilità sono state scelte, a cui è stata rivelata la vera realtà dei fatti… e a cui è permesso viaggiare tra gli universi per svolgere gli scopi dell’organizzazione. Quante meraviglie e quanti orrori abbiamo vissuto! Non ne avresti idea, il multiverso è un luogo troppo ampio e troppo… strano, per poterlo descrivere completamente!”
“I simboli che porti sulla testa, quindi…”, iniziò Immer’nok.
“Sono il simbolo degli agenti dell’organizzazione. Se mai vedrai altre creature portare marchi simili, saprai di avere di fronte un Cacciatore.”
Era una mole di informazioni troppo grande per poterla assimilare tutta insieme. Il padrone rosso si avvicinò alla fonte e si schizzò d’acqua, facendola colare tra le scaglie, assaporandone la sensazione gelida. Nel frattempo, Nadira si alzò e si rivestì con i pochi panni che i servi di Immer’nok le avevano fornito.
 “Puoi fare qualcosa per salvare il nostro mondo? O siamo condannati?”, chiese, mentre fissava la massa d’acqua scura.
“No, non c’è niente che si possa fare. Presto o tardi, la Crepa si allargherà e vi inghiottirà tutti. Non solo questo pianeta, ma l’intero universo. Ma per allora, voi th-ya sarete già tutti dispersi tra le realtà, sempre che sarete ancora vivi.”
“Allora cosa sei venuta a fare qui? Perché sei venuta a tormentarmi con le tue parole apocalittiche, se non è per darci una salvezza?”, le urlò contro. Immer’nok era furioso, non riusciva ad accettare l’ineluttabilità del destino e le ragioni di quella donna. La amava, perché aveva aperto la sua mente, ma al tempo stesso la odiava.
“Come ho detto, sono qui per cercare qualcuno. Voi lo chiamate l’assassino bianco.”
“L’assassino bianco! – sbottò Immer’nok – cos’è quel mostro? Una delle creature a cui la tua organizzazione da la caccia?”
“No. È egli stesso un Cacciatore.”
Immer’nok emise un sibilo stizzito nei confronti della donna. Dopo quest’ultima affermazione, il suo rispetto si stava trasformando in odio.
“È uno di voi quello che ha sterminato i nostri simili! Perché mai avrebbe dovuto farlo? Siamo forse criminali, noi? Qual è lo scopo di questa follia?”
“La sua è follia, infatti, ed è mio compito riportarlo a casa. Ora è divenuto una creatura diversa, ma egli, un tempo, era un umano, proprio come me… giunto in questo mondo per analizzare la situazione della Grande Crepa, ha visto i suoi simili in catene e… qualcosa nella sua mente non ha retto. Non dovrebbe essere nostro compito, quello di salvare gli umani, nemmeno se giunti qui per una rottura dell’equilibrio. Lui lo sta facendo, e la sua furia non conosce confini.”
Immer’nok rifletté su quest’ultima affermazione. Se si fosse trovato lui in una situazione simile non avrebbe rischiato nulla per salvare dei suoi simili in catene. Li avrebbe semplicemente giudicati deboli e privati del suo rispetto, ma gli umani non avevano i suoi stessi sentimenti. I pensieri turbinarono nella sua mente: l’arrivo dell’apocalisse, l’assassino bianco che prima o poi avrebbe attaccato anche le sue caverne, Nadira.
Improvvisamente, seppe che cosa doveva fare.
“Ti aiuterò a trovare l’assassino bianco e ti darò la libertà, Nadira. Ma ad un’unica condizione.”
“Quale sarebbe?”
“Quando te ne andrai da questo mondo, mi porterai via con te. Verrò con te su Omega-8, oppure in qualsiasi altro mondo tu voglia andare, mi basta che non sia un mondo morente. Se la fine di Kishogy è vicina, io non voglio morire assieme a lui.”
“No, non mi è permesso estrarre forme di vita native dal proprio universo senza un esplicito permesso del Gerarca. Ciò che mi chiedi è semplicemente impossibile.”
“E allora, Nadira, rimarrai qui, in prigione, per il resto della tua… della nostra vita. Non ti permetterò di completare la tua missione, se non sottostarai alle mie condizioni.”
“Non importa, tu sei un padrone rosso. L’assassino bianco verrà a uccidere anche te, prima o poi, e quando mi libererà potrò parlare con lui. È solo questione di tempo.”
Immer’nok decise di giocarsi l’ultima carta.
“Già, ma il tempo, umana, è proprio quello che ti manca, non è vero? L’hai detto tu stessa: questo mondo potrebbe finire tra anni come tra pochi giorni. Come sei sicura che l’assassino bianco arrivi da te in tempo? Non lo puoi sapere.”
Immer’nok contò sul fatto che Nadira non sapesse che l’assassino bianco aveva attaccato il clan delle Scaglie Stellate, le cui caverne distavano solamente pochi giorni di viaggio dalle Grotte Infinite. Lui sarebbe sicuramente stato il prossimo obiettivo.
Capì di aver colto nel segno quando la donna fissò il vuoto con espressione corrucciata.
“Accetto”, disse Nadira con un filo di voce.
Immer’nok sibilò soddisfatto.

Immer’nok rimuginò su quanto Nadira gli aveva raccontato, cercando disperatamente di trovare delle falle nelle sue spiegazioni, in modo da poterle dichiarare false. Per quanto si sforzò, non ci riuscì. Presto l’assassino bianco sarebbe giunto alla sua ricerca, non doveva fare altro che aspettare e, al momento giusto, farsi trovare a fianco di Nadira, in modo che lei potesse placarlo.
C’era comunque la possibilità che la donna decidesse di tradirlo, ma in tal caso, mondo morente o no, avrebbe combattuto contro di lei e contro la creatura che stava cercando fino alla fine: una morte disonorevole era l’ultima cosa che desiderava.
Immer’nok osservò che un singolo dettaglio avrebbe potuto fargli definitivamente accettare che Nadira gli aveva detto la verità: il marchio rosso. Se era vero che l’assassino bianco era un Cacciatore, anch’egli avrebbe portato il marchio, sulla testa o in qualche altro punto del corpo.
Il padrone rosso faticò a riposare nei giorni successivi: tutto gli sembrava irreale. Gli altri th-ya, fossero essi schiavi, riproduttrici o guerrieri del clan avevano assunto tutti un’aria anonima, priva di interesse, come se fossero tutti quanti simulacri e totem, parvenze di vita in un mondo di immaginazione.
Diede silenziosamente addio alle sue caverne, alle ricchezze che aveva accumulato, agli schiavi che tanto avevano fatto per innalzare la sua reputazione. Ovunque stesse andando, non gli sarebbero più serviti. Diede ordine di triplicare la sorveglianza, non tanto per avere effettive possibilità di fermare l’assassino bianco, quanto di averne maggiori d’essere avvertito del suo arrivo.
Qualcosa nel suo mondo stava cambiando. Piccoli cambiamenti, impercettibili per tutti i th-ya che non erano a conoscenza della verità, ma a cui lui iniziava a stare particolarmente attento. La polvere rocciosa che si accumulava sul fondo delle caverne stava sospesa nell’aria mezzo secondo di troppo se veniva agitata, i soli grigi lanciavano strani riflessi colorati, il sapore della carne del bestiame era troppo amara o troppo dolce.
Non poteva fare nulla, solo attendere.
E la sua attesa venne premiata tredici giorni dopo lo sconvolgente dialogo con Nadira quando, intento a riposare nella sua grotta privata, venne svegliato da un brusco rumore. Gli sembrò di sentire in lontananza l’eco dei sibili di dolore dei suoi soldati-schiavi, il cozzare delle armi di selce contro qualcosa che era semplicemente troppo duro per essere ferito. Afferrò la lancia e lo scudo, che ormai teneva sempre accanto al suo giaciglio, e corse verso i recinti degli schiavi. Doveva raggiungere Nadira prima che fosse troppo tardi.
Durante il tragitto non vide nessuno dei suoi servi, segno che qualcosa di orribile stava effettivamente accadendo. Trovò le tracce del sangue violetto dei suoi sottoposti sparsi per i corridoi, i loro corpi dilaniati e le interiora sparse come se fossero stati squartati da una belva feroce e gigantesca.
Mancavano poche decine di metri alla sua meta, quando un urlo minaccioso lo fece voltare terrorizzato. Ciò che vide era sconvolgente: aveva di fronte una creatura alta quasi quattro volte lui, la cui sola estremità superiore ricordava quella di un umano. Aveva braccia e un torace muscolosi, di un bianco metallico, e il volto era coperto da un elmo dello stesso colore che non faceva risaltare alcun tratto. Le similitudini con un uomo, sfortunatamente, si fermavano qui. La parte inferiore del suo corpo era quella di una bestia uscita direttamente dagli incubi, dotata di sei zampe lunghe e sottili, ali membranose e un corpo oblungo, tanto simile a quello di alcuni insetti, inferiori animali divoratrici di carogne, che erano considerati una prelibatezza tra i th-ya, se fritti nel burro di shak-thy.
Con l’ultimo sguardo, Immer’nok riuscì a individuare la striscia di glifi rossi tatuata sull’avambraccio sinistro della creatura. Poi, iniziò a correre.
L’assassino bianco avanzò verso di lui ad una velocità superiore, e fu solamente grazie alla notevole distanza che li separava che il padrone rosso riuscì a raggiungere la porta della cella di Nadira incolume. Sentì il fiato freddo della creatura che gli soffiava sul collo e il disgustoso crocchio delle sue zampe che si muovevano indifferentemente su soffitti e pavimenti.
Spalancò la cella della donna urlando il suo nome, quasi lanciandosi ai suoi piedi. Non aveva mai avuto tanta paura in vita sua. Come poteva Nadira sostenere che quella creatura fosse ancora umana?
Quando l’assassino bianco vide la prigioniera, che era seduta sul pagliericcio della cella, la sua furia si placò. Le sue zampe di fermarono, e le mani (che, Immer’nok vide solo ora, erano dotate di micidiali artigli) si abbassarono in segno di resa. Nadira alzò lo sguardo, con un sorriso ironico in volto.
“Ciao, Frener. È un piacere rivederti”, gli disse.
Frener incurvò la schiena ed emise un urlo, che Immer’nok non seppe valutare se era di dolore o di sorpresa. Ma la sua incredulità fu ancora più grande quando vide che il colosso mostruoso, il temuto assassino bianco, si stava trasformando. La parte inferiore del suo corpo si stava rimpicciolendo, racchiudendosi su sé stessa, fino a che non si trasformò in due normalissime gambe umane (sebbene conservassero quell’apparenza metallica bianca).
“Non aspettavo tue visite – disse Frener con voce profonda e atona – ma rimanderemo i convenevoli a dopo. Prima, lasciami eliminare questo schiavista.”
Immer’nok puntò la lancia in direzione del Cacciatore. La sua forma umana gli incuteva molto meno timore, e se avesse dovuto lottare, avrebbe venduto care le scaglie.
“Fermo, non c’è bisogno di fargli del male. Potrebbe servirci.”
“Che dici, Nadira? Come può esserci utile, questo selvaggio?”
“Ho parlato con lui, sa tutto quanto. È intelligente, per uno della sua razza. Potrebbe essere un buon Cacciatore.”
“Cosa?  - chiese Immer’nok, con aria esterrefatta – non erano questi i nostri accordi!”
“Immer’nok, sono una Cacciatrice di Omega-8, avrei potuto scappare dalle tue prigioni giorni fa, se solo l’avessi voluto. Tu non hai idea di quali minacce siamo portati ad affrontare. Ma ho preferito aspettare, osservare la situazione, e il motivo lo sai. Noi siamo creature provenienti da tutti gli universi, che per intelligenza o abilità sono state scelte. Anche questa è la nostra missione, trovare altri che possano far parte delle nostre fila. E io credo proprio di aver trovato quel qualcuno. Oppure puoi rimanere qui, sul tuo mondo morente, fino a che la Grande Crepa non avrà mutato tutto quanto.”
“Non te ne pentirai – disse Frener – questo te lo posso garantire.”
Immer’nok rifletté sulla proposta, ma sapeva già cosa avrebbe risposto. La vita era sempre preferibile alla morte, l’onore sempre meglio del disonore. E quella caccia, quella grande caccia che quei due strani individui gli stavano proponendo, gli avrebbe senza dubbio concesso il il Klijasad, dopo la morte. O mentre era ancora vivo.
“Accetto”, rispose con voce ferma.
Frener annuì, e sebbene quel gigante non avesse volto, a Immer’nok parve di percepire dell’approvazione nelle sue movenze.
“Frener, veniamo a noi. Il Gerarca Okox vuole parlarti, urgentemente. Hai travisato gli scopi della tua missione qui, è ora che tu faccia rapporto.”
“Io… scusa, credo di essermi fatto prendere un po’ la mano. Tutti questi uomini, che loro tengono come schiavi… mi ricordano ciò che ero una volta. E la cosa mi fa soffrire.”
“Non possiamo permetterci sofferenza. Non noi, non nel multiverso. Noi siamo oltre queste condizioni, e il tuo corpo lo dimostra. Tu hai oltrepassato da un pezzo la condizione umana.”
Frener fissò il terreno per qualche istante, poi annuì.
“Torniamo a casa”, disse l’assassino bianco.
“È programmato un prelevamento nei pressi della Grande Crepa tra tredici ore e ventotto minuti standard. Se ci sbrighiamo possiamo farcela in tempo”, concluse Nadira.
Frener annuì, e si allontanarono insieme.
Immer’nok osservò un’ultima volta le Grotte Infinite, che erano state le sua casa per ottantasei anni, e comprese che non gli sarebbero mancate.
Era l’inizio di qualcosa di più grande.

[Nota: per una visione più completa della vicenda, consiglio la lettura dei miei racconti "L'Alchimista dei Mondi" e "Giustizia Superiore", disponibili anch'essi sul blog.]