lunedì 26 settembre 2011

Ombre di un Diverso Passato


[Un altro racconto new weird la cui partecipazione ad un concorso non ha avuto buon fine. Peccato, lo trovo molto piacevole e pertanto lo lascio a voi.]

C’erano una volta, in un mondo antico e colmo di magia, due fratelli gemelli nati in una calda notte estiva. La loro madre, la regina degli elfi Eliema, li aveva tanto desiderati e la loro nascita aveva colto come l’improvviso barlume di una stella cadente l’intero regno: un evento meraviglioso e forse irripetibile. Sebbene fossero nati nello stesso momento dalla stessa madre, i due fratelli erano molto diversi tra di loro: la femmina, Piranka, era la bambina più bella che il già perfetto popolo degli elfi avesse mai visto. Aveva lunghissime orecchie appuntite, occhi che brillavano come i più perfetti smeraldi e capelli dello stesso colore del grano d’estate. Il maschio, Steno, aveva invece una corporatura massiccia già da neonato, molto inusuale per la sua razza. Aveva folti capelli neri, aria intelligente e occhi dello stesso colore della bianca sabbia del deserto.
Il loro primo anno di vita fu completamente privo di eventi che potessero intaccarne la felicità o la salute, compresa quella della loro famiglia e dei loro genitori. L’intero popolo degli elfi aveva proclamato la loro stessa esistenza come benedetta dal cielo.
Poi, un triste giorno di pioggia, il tempo morì. La sua non fu una lenta agonia, ma uno spegnersi rapido come il battito d’ali di una farfalla. Senza il tempo, niente aveva più significato. La frutta non giungeva più a maturazione, i campi non facevano nascere le messi e la stessa pioggia aveva deciso di non smettere più di cadere. Nel giro di pochi giorni, tutto venne sommerso dall’acqua putrida e gli elfi del regno provarono una profonda tristezza: la magia delle stagioni, ciò che dava gioia al loro popolo, non sarebbe più avvenuta. Niente sarebbe più cambiato.
Passò ben poco perché si rendessero conto del lato più tragico di tutta quella vicenda: i gemelli benedetti, Steno e Piranka, non sarebbero mai diventati adulti, intrappolati per sempre nel corpo di pargoli innocenti.
Presa dallo sconforto, la regina Eliema radunò tutti i grandi arcanisti del suo regno e ordinò di porre su Steno e Piranka il sonno eterno. In questo modo, avrebbero vagato per sempre nei sogni, che ancora avevano il potere di cambiare e mutarsi, e non avrebbero mai vissuto in quel corpo infantile una triste vita priva di cambiamento. Non appena si addormentarono, vennero posti in una grande culla di legno e seta e seppelliti nel terreno della foresta sacra.
Un luogo caldo, sicuro e confortevole, dove avrebbero potuto sognare per l’eternità.

La prima cosa che Piranka vide furono le larve. Centinaia, migliaia, milioni di microscopiche larve bianche che sciamavano sul suo corpo, proteggendola con un abbraccio caldo e solleticante. Sentiva accanto a sé la presenza di suo fratello gemello, a cui aveva stretto la mano per tutto il lungo periodo del loro sonno.
Anche se a malapena era consapevole, sapeva di essere sveglia, ne era sicura. La sensazione era troppo diversa, troppo reale. Il sapore delle larve che le zampettavano in bocca era troppo forte. La consapevolezza di esserne circondata, però, non la disturbava.
E c’era un’altra cosa: i capelli le facevano male. I suoi lunghi capelli dorati vibravano e tremavano come nervi accavallati, provocandole dei dolori lancinanti.
Anche Steno era sveglio. Erano rimasti vicini per così tanto tempo (tempo?) che la loro empatia, nata già forte a causa della loro nascita condivisa, si era ulteriormente amplificata. Steno però, a differenza sua, non soffriva. Steno non sentiva niente. Sapeva che qualcosa stava camminando sul suo corpo, ma la sensazione era lontana, come ridotta da uno spesso strato di terra e coperte.
Che fosse morto? No, era vivo, riusciva ancora a sentirlo. Ma c’era qualcosa, qualcosa che lo rendeva diverso…
Piranka tentò di respirare, ma non ci riuscì: le larve le strisciavano nel naso, sotto le palpebre, forse anche all’interno del cranio. Ma non aveva bisogno di respirare, o meglio, non ancora: il tempo era forse ancora fermo? Per quello i suoi polmoni non avevano bisogno di inalare aria?
Consapevolezze giunte come sogni di un passato lontano, senza che nessuno gliele avesse mai insegnate. L’unico ricordo che aveva oltre i sogni era quello del volto di una madre amorevole…
Qualcosa di duro e freddo la afferrò. Era una rete dalle maglie finissime, taglienti, che iniziarono a sollevarla assieme a suo fratello. Piranka si sentì un pesce preso all’amo.
Un pesce preso all’amo in un mare di larve candide.
L’impatto che i suoi occhi ebbero con il cielo fu qualcosa di più doloroso della terribile sensazione che continuava a provare ai capelli. Un viola così intenso non l’aveva mai visto nemmeno nei suoi sogni più vividi. Saette di colori impossibili da descrivere, tanto erano cangianti e spaventosi, lo attraversavano non producendo alcun rumore. Poi la rete li lasciò e cadde, ancora tenendo per mano il fratello, all’interno di una grande foglia verde.
La foglia era morbida, coperta da una sostanza dolciastra e appiccicosa. Le larve, ingolosite, iniziarono a strisciare via dal suo corpo dirigendosi verso il lauto banchetto che quell’impiastro rappresentava. Involontariamente, Piranka rise quando attraversarono i suoi organi interni producendogli una sensazione ancora più forte di solletico. Per la prima volta da quel risveglio, il forte dolore ai capelli si affievolì.
“Prk krp rrpkp prrkg rggkkr”, disse una voce poco distante (“Cos’è quella stranezza?”, capì Piranka).
“Krkrkr prrg grrpgk”, le rispose una voce simile (“Qualcosa di diverso”, capì Piranka).
“Krkk r grrpgk”, disse di nuovo la prima voce (“Il popolo non è diverso”, capì Piranka).
Finalmente le ultime larve uscirono dai suoi occhi, permettendole di vedere più accuratamente. Capì quasi subito di trovarsi non su una foglia, ma su una barca, una grande barca circondata da un mare bianco e tremolante. I due marinai che la conducevano erano la cosa più strana che la bambina elfa avesse mai visto: teste enormi e nere, antenne e occhi sporgenti, mandibole affilate.
Avevano tutta l’aria di grossi uomini-formica. Per quanto quelle creature sembrassero mostruose, lei non si spaventò: i sogni ogni tanto si trasformano anche in incubi, e lei aveva visto di molto peggio durante il lungo sonno.
Voltò la testa e con la coda dell’occhio vide i capelli, che ora pulsavano come una puntura di zanzara irritata. Rossi, dalla radice fino alla punta. Un rosso scuro, denso e oleoso, simile a quello del sangue. La paura incominciò a invadere il suo cuore di bimba. Cercò con lo sguardo il fratello, cercando i suoi occhi fieri e incoraggianti per scacciare l’orribile sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato. Quando lo vide, però, il coraggio le venne meno in maniera definitiva. Steno giaceva immobile, con la bocca spalancata e ancora parzialmente piena di larve. Il suo corpo era scheletrico, emaciato e coperto di escoriazioni. L’unica cosa che pareva avere vita in lui erano gli occhi, che schizzavano qua e là nelle orbite come una cicala impazzita dal terrore.
Non era morto, non era vivo. Semplicemente, per il suo corpo il tempo aveva smesso di scorrere definitivamente.
Piranka ritornò ad avere un solo anno di vita e scoppiò in un pianto dirotto e disperato, come solo i bambini sono in grado di fare.

I due fratelli vennero portati dagli uomini-formica al di fuori del mare di larve. Per tutta la traversata, il tempo e le sensazioni non cambiarono e l’avanzamento era scandito solamente dal lento sciabordio degli insetti che contorcendosi uno sull’altro facevano muovere l’imbarcazione. I due navigatori erano completamente insensibili agli strilli di sofferenza della bimba, tanto che dopo un po’ non ebbe più la forza di continuare e si accasciò stremata sullo scafo della barca-foglia.
Steno la guardava, agitando fremente gli occhi per comunicarle qualcosa.
“Piranka, stai bene?”, le chiese senza emettere un suono. Bastò un rapido movimento dei suoi occhi perché la sorella capisse cosa voleva dirgli.
“Sto bene, ma ho paura Steno. Cos’è questo mondo? Perché abbiamo smesso di dormire?”, rispose lei sottovoce. Gli uomini-formica non dettero segno di averla sentita.
“Non lo so. Credo che sia passato molto, sorellina. Cosa è successo ai tuoi capelli splendenti? Perché hanno il colore del sangue?”, occhieggiò Steno.
“Credo… credo che siano state le larve. Hanno divorato i miei capelli, che hanno sofferto molto e hanno iniziato a sanguinare. Quando sono stati completamente consumati, il sangue privo di tempo è rimasto a rappresentarli. Non ho più capelli, sono calva, la mia è una chioma di dolore!”
“Non riesco a muovermi, Piranka. Solo gli occhi, il resto è tutto paralizzato. Tutto fermo… Non percepisco sensazioni, non sento forza vitale, sento solo una morsa eterea che mi intrappola. Il mio corpo… il mio corpo si è fermato, proprio come il tempo. Sono un corpo che muove gli occhi.”
“I tuoi occhi sono sempre bellissimi, fratellino… eppure qualcosa è cambiato, lo sento. Il tempo… il tempo sta scorrendo di nuovo. Ha ripreso vita, non qui, non in questo strano mare, ma c’è… altrimenti non si spiegherebbero loro”, disse lei indicando con un cenno del capo i due uomini-formica.
Le larve, che avevano quasi finito di consumare il loro pasto dolciastro, ora scorrazzavano per tutta l’imbarcazione.
“Quanto tempo sarà passato, fratellino? – chiese Piranka – quanto abbiamo dormito?”
“Non lo so – occhieggiò lui – ere, credo.”
“Mi manca il nostro sonno… mi mancano già i nostri sogni”, disse lei.
Steno non rispose questa volta, rimanendo con gli occhi fissi nel vuoto. In lontananza, cominciava a delinearsi il profilo di una costa sormontata da una scogliera di pietra marrone e, sopra di questa, una gigantesca struttura bulbosa che si snodava in diramazioni grigiastre fino a superare le nubi cariche di elettricità.
E quando la barca toccò la sabbia umidiccia della spiaggia, qualcosa cambiò. Le larve iniziarono ad ingrandirsi e mutare, diventando sempre più simili ai due marinai-formica. Nel giro di pochi istanti, crebbero fino a diventare adulte e iniziarono una lenta adunata sulla spiaggia. La stessa cosa accadde ai due fratelli. Piranka sentì il proprio corpo ingigantirsi, mutare, fino a diventare quello di una ragazza elfa di quattordici anni, con solo una chioma di sangue scarlatto a ricoprire il suo corpo nudo. La stessa cosa accadde a Steno, che però non provò alcuna sensazione: il suo corpo ingrandì, divenne quello di un elfo della stessa età, ma rimase immobile e privo di sensazioni. Solo gli occhi continuavano ad agitarsi guardinghi, trasmettendo a Piranka parole di apprensione e paura. Egli rimase però scheletrico, la pelle si spaccò ancora di più, i muscoli atrofizzati divennero ancora più evidenti. Steno era solo l’ombra di ciò che era un tempo.
“Qui il tempo scorre”, occhieggiò Steno.
“Il tuo corpo, però, rimane morto”, osservò la sorella, coprendo le proprie nudità con i capelli insanguinati.
“Krk krrrkg grkrg!”, si rivolse a loro uno dei due marinai, che aveva fatto radunare tutte le altre formiche appena nate sulla spiaggia (“Radunatevi, formiche!”, capirono entrambi).
Piranka, non sapendo come comportarsi, sollevò il corpo del fratello e si diresse sulla spiaggia, circondandosi di altre formiche che facevano gocciolare fluidi acidi dalla bocca. Si stupì del peso del fratello, così leggero da sembrare ancora un neonato.
Quando furono in fila, i due marinai squadrarono tutti i nuovi nati e assunsero una posa marziale.
“Grk dkrk krrgrdkr! Krrdgkkr rrrk krrgdgrkr!”, disse (“Voi siete formiche! La vostra vita va al formicaio!”, capirono entrambi).
“Grgk rk krrgdgrkr!”, dissero tutte le formiche neonate in coro (“La mia vita al formicaio!”, capirono entrambi).
Loro non pronunciarono parola e tutte quelle creature aliene si voltarono a fissarle.
“Grrpgk!”, dissero in coro (“Diversi!”, capirono entrambi, percependo un tono di accusa nelle parole).
A questi toni minacciosi, i nervi di Piranka cedettero. Cercò di scappare lungo la spiaggia portando con sé il fratello, ma nonostante il suo peso fosse simile a quello di una piuma, le formiche riuscirono a raggiungerla e ad afferrarla. Venne stretta da mandibole d’acciaio, provando un dolore simile a quello che i capelli le avevano provocato quando si era svegliata.
Steno cadde per terra, inerme, e venne circondato anch’esso.
Le formiche iniziarono a parlare nuovamente in coro, come un esercito invincibile dotato di un’unica mente.
“Grrpgk crrkr Belzebù!”, dissero (“I diversi vanno portati a Belzebù!”, capirono entrambi).
I due fratelli non poterono fare altro che essere trascinati prima sulla scogliera e poi all’interno della colossale struttura, scivolando in corridoi oscuri e umidi. Durante tutto il tragitto, i loro occhi disperati non si persero di vista per un istante.

Una luce calda, mischiata all’odore di fieno, stalla e terra li accolse facendoli sentire un po’ meno alienati. Erano stati portati in una enorme stanza circolare, alta decine di metri e dalle pareti ricoperte da una tela sdrucita a strisce bianche e rosse. Tutt’intorno, la stanza aveva un alto camminamento di terra, mentre tutta la zona centrale era occupata da gabbie, catene e grandi anelli infuocati.
“Sembra un enorme circo”, occhieggiò Steno.
“Tutto questo è pazzesco”, gli rispose la sorella.
Nella zona centrale stavano diversi uomini-formica dall’aria smarrita. Alcuni girovagavano qua e là senza meta, altri facevano schioccare le mandibole senza dire niente di concreto. La maggior parte di loro aveva una o entrambe le antenne recise, rotte o in qualche modo rovinate. Quando il plotone di uomini-formica che li aveva presi prigionieri entrò nella stanza, si fece avanti un altro di essi che, in qualche modo, sembrava essere diverso.
Entrambe le sue antenne erano state recise alla base, gli mancava una zampa e, cosa ancora più sorprendente, indossava un enorme cappello a cilindro di velluto rosso, macchiato di terra e una sostanza giallastra non meglio identificata.
Il plotone di secondini non disse nulla e mollò semplicemente entrambi i fratelli all’interno dell’area, per poi girare sulle zampe e andarsene. L’uomo-formica con il cilindro venne loro incontro.
“Io sono Belzebù, diversi”, disse con voce ronzante.
Piranka non gli rispose, preoccupata per il fratello paralizzato. Si diresse verso di lui e lo drizzò a sedere. La sua testa priva di sostegno muscolare crollò all’indietro, lasciando spalancata la bocca.
“Perché parla come noi?”, occhieggiò Steno.
La ragazza alzò lo sguardo verso Belzebù e lo scrutò con attenzione, prima di iniziare a parlare.
“Non sembri come gli altri”, gli disse.
“Neanche voi sembrate come gli altri”, rispose per nulla stupito.
“Veniamo da un passato molto lontano… noi siamo elfi. Voi cosa siete?”
“Mai sentito parlare di elfi – rispose lui – ma se per “voi” intendi la mia specie di appartenenza, sappi che siamo formicidae sapiens. Se per “voi” intendi chi siamo, sappi che loro sono il popolo, con cui tutti i rappresentanti della mia specie presenti in questa stanza non hanno più nulla a che fare. Il nostro collegamento con la collettività è stato reciso”, disse lui, prima di toccarsi le antenne tagliate.
“Come è accaduto?”, chiese l’elfa.
“A causa di un incidente, per la maggior parte di noi. La caduta di un masso mi ha strappato le antenne e un braccio. Non facciamo più parte del popolo, né del formicaio. Noi siamo i diversi. Abbiamo un nome proprio e non abbiamo nessuno scopo, se non far divertire il popolo.”
“Perché ci hanno portato qui? È evidente che noi non siamo formicidae sapiens, come le hai chiamate tu. Siamo prigionieri?”
“Non proprio – rispose lui – diciamo che non avete alternative. Non esiste niente là fuori, se non il mare di incubazione. E laggiù il tempo non scorre, per il bene della nostra prole. Per quanto riguarda la vostra evidente diversità… il popolo non la comprende, né mai lo farà. Per loro siete diversi, perché siete esseri viventi non collegati alla collettività. Per questo vi hanno portati qui. Non hanno concezione della vostra natura… e, per la regina, non ne ho neanche io. Che diavolo è un elfo?”
“Abbiamo dormito a lungo – rispose Piranka, sollevando la testa del fratello, che assunse una posizione più composta – apparteniamo ad un’era passata, dove io e il mio gemello Steno eravamo solamente neona… larve. Eravamo solamente larve.”
“Questo non ha importanza – rispose Belzebù – dovrete stare qui per fare divertire la collettività. È il vostro scopo privo di scopo.”
“Farli divertire… perché?”, chiese l’elfa insanguinata.
“È una tradizione. La collettività si è sempre presa gioco del diverso.”

Belzebù li portò in una piccola celletta costituita da umida terra. Non vennero rinchiusi, ma quando se ne andò approfittarono dell’ambiente angusto e solitario per stare un po’ da soli.
“Saremo i pagliacci di questi mostri”, disse con gli occhi Steno.
“Lo so – rispose Piranka – ma abbiamo scelta? Ci siamo risvegliati in un mondo lontano, senza scopo e ragione… dove il tempo è rinato ma si comporta come un neonato urlante. Un neonato urlante! Quello che eravamo noi solo fino a poche ore fa! Fratellino, è successo troppo, troppo in fretta… non so come affrontare tutto questo.”
“I sogni… i sogni avevano tante cose che ora mi mancano. Molto spesso ho sognato di svegliarmi, di vivere il mondo là fuori, un mondo dove il tempo aveva ricominciato a scorrere e io divenivo un grande condottiero della mia gente, il più forte tra i guerrieri degli elfi… e ora sorellina, guardami. La realtà non mi da neanche la possibilità di muovermi.”
“Staremo insieme fratellino. Staremo insieme, come abbiamo sempre fatto. Fino all’eternità.”
Piranka abbracciò il fratello scheletrico e gli diede un bacio sulla fronte, coccolandolo dolcemente tra le sue braccia. I macabri capelli dell’elfa macchiarono di sangue il corpo del fratello, unico caldo conforto per un corpo freddo come un cadavere.

Il tempo in quel luogo scorreva, così Piranka iniziò ben presto a provare fame. Belzebù porto per entrambi dell’umida melassa dolciastra, molto simile a quella divorata dalle larve sull’imbarcazione. Steno non aveva fame e disse con gli occhi che probabilmente non l’avrebbe mai avuta, così lasciò il suo pasto alla sorella. Quando ebbero finito di mangiare, un diverso venne nella loro cella e fece cenno di seguirli nella pista centrale del circo.
Qui trovarono tutti gli uomini-formica mutilati radunati intorno a Belzebù, che si muoveva e parlava come il conduttore del circo.
“Fra poco arriveranno per assistere allo spettacolo, voglio che sia tutto perfetto. Riguarda anche voi due, nuovi arrivati.”
“Cosa dobbiamo fare?”, chiese Piranka tenendo tra le braccia il fratello.
“Ciò che vi viene naturale. Per loro sarà comunque qualcosa da deridere.”
Gli altri uomini-formica si dispersero per la pista principale e iniziarono a muoversi di nuovo in maniera convulsa: c’era chi correva in tondo, chi si picchiava sulla testa, chi stava semplicemente fermo a fissare il vuoto.
“Non ci hai ancora spiegato perché sai parlare la nostra lingua. Loro li capisco, ma… hanno una lingua diversa”, chiese Piranka.
“Parlare è sempre il miglior modo per farsi capire”, disse semplicemente Belzebù, poi corse al suo posto in cima ad una pedana al centro della pista.
Entro pochi istanti iniziarono a entrare le formiche della collettività. Camminavano ritte, una dietro l’altra, soffermandosi solo pochi secondi sulla balconata di terra per poi proseguire nel loro cammino. Non sembrava che ridessero, ma qualcosa nella mente di Piranka le suggerì che, nella loro mente, li stavano denigrando.
D’istinto lasciò andare suo fratello, che rimase steso a terra con lo sguardo puntato verso l’alto.
“Che fai, Piranka?”, occhieggiò.
“Quello che mi viene naturale”, rispose lei.
L’elfa iniziò a danzare per la pista in maniera convulsa, facendo roteare la sua chioma sanguinante e mettendo in mostra tutte le sue grazie. I suoi passi erano delicati e allo stesso tempo violenti, le sue acrobazie e i giochi compiuti perfetti. Gocce di sangue iniziarono a schizzare qua e là, lordando di un rosso cupo le zone bianche della tenda del circo. Loro iniziarono ad essere sempre più rapiti dalla vicenda, tanto che alcuni si fermarono per osservarla pochi secondi più del necessario.
Ben presto, all’interno del circo iniziarono a formarsi code di uomini-formica, che si accalcavano una sopra l’altra per vedere e deridere la straordinaria esibizione.
“Fallo anche tu, fratellino. Fa ciò che ti viene naturale. Sogna!”, gridò Piranka.
Steno spalancò gli occhi e iniziò a immaginare di essere un lucente guerriero corazzato, il più feroce e temibile di tutti i più feroci e temibili. Alzò le spade e con grazia divina fece calare la sua furia sul campo di battaglia. I nemici, i temibili orchi dalla pelle verde che più di una volta avevano invaso le terre del suo popolo, caddero uno dopo l’altro coperti di mortali ferite. Per quanto sangue sgorgasse, l’armatura di Steno era sempre intonsa e di una lucentezza sempre maggiore, che poteva competere con quella del sole che un tempo aveva fatto splendere i suoi raggi su quella stessa terra.
Quando l’esibizione finì, Piranka si accasciò a terra stremata, mentre Steno chiuse gli occhi. Il circo si era riempito, la collettività era giunta solo per osservare loro. Per assistere angosciati a qualcosa che non credevano possibile.
Ci volle un po’ di tempo prima che gli uomini-formica si ritirassero, lasciando unicamente i diversi all’interno del tendone.
Belzebù si diresse verso i due fratelli con passo tremante. Anche lui sembrava essere scosso.
“Cosa avete fatto?”, chiese.
“Quello che ci hai chiesto. Ci siamo comportati secondo la nostra natura”, rispose Piranka.
“Li avete spaventati. Hanno visto qualcosa che non sono in grado di comprendere. Hanno visto la vera diversità e ciò li ha distrutti. La collettività è sconvolta.”
“Passione, creatività e immaginazione. Basta così poco per sconvolgere il formicaio?”
“Loro non sanno nemmeno che quelle parole esistano. E nemmeno io. Accadrà qualcosa. Tutto ciò li farà impazzire. Impazziremo, anche noi diversi. Voi siete oltre la nostra concezione”, disse serio Belzebù.
“Lo faremo ancora e ancora e ancora, se ciò servirà a portare un po’ di luce in questo mondo”, disse seria Piranka. Steno annuì con lo sguardo.
“Tutto questo potrebbe distruggere questo mondo”, rispose Belzebù.

In quel luogo non era possibile misurare i giorni, così i due misurarono il tempo contando le esibizioni. Sempre più formiche accorsero a vederli, a saggiare le loro abilità, a stupirsene e a rimanerne terrorizzati. I due fratelli contarono almeno trenta esibizioni, ed ogni volta che era loro possibile aggiungevano qualche ritocco allo spettacolo, per renderlo ancora più unico e indimenticabile. La danza insanguinata di Piranka si faceva più irrefrenabile ogni volta e i sogni di Steno sempre più vividi e fantasiosi.
Venne infine quello che entrambi sapevano sarebbe stato l’ultimo spettacolo. Tutto sulla pista era pronto, loro avevano già cominciato ad accalcarsi uno sopra l’altro per poter osservare con attenzione.
“Lo faremo assieme”, disse Piranka.
“Insieme, come sempre”, occhieggiò Steno con i suoi occhi ocra.
Quando Piranka iniziò a danzare e a spargere il suo sangue per la pista del circo, Steno sognò. Sognò stelle cadenti, paesaggi mozzafiato, cigni e altri animali meravigliosi che circondavano la sorella, fornendole un adeguato scenario per il suo ballo. Grandi alberi, foreste, palazzi lussuosi, pianeti. Sognò la luce del sole, la fredda solitudine del deserto, la maestosità del mare. Sognò gli elfi, sognò la regina Eliema. Sognò la vita e la morte danzare a braccetto con la sorella.
Quando, con un passo trionfale e il sogno di una melodia di flauto da tempo dimenticata l’esibizione cessò, la collettività impazzì.
Si strapparono le antenne, si morsicarono a vicenda. Diventarono diversi.
“Io non sono una formica che augura lunga vita al formicaio!”, urlò Piranka prendendo in braccio il fratello e preparandosi ad una corsa a perdifiato.
Attraversarono i condotti della struttura in lungo e in largo e in ogni luogo le scene che si presentavano erano pazzesche ma mai identiche: le formiche sembravano essere state catturate dal demone della creatività, da quella cosa che ti fa dire io e non noi.
Attirati dalle scariche elettriche colorate provenienti dall’esterno, riuscirono a rintracciare la via d’uscita, ma quando vi giunsero davanti furono bloccati da una figura famigliare. Era Belzebù.
“Ve ne andrete?”, chiese.
“Sì. Vuoi fermarci?”, chiese Piranka con tono fermo.
Belzebù rimase fermo per qualche istante, massaggiandosi il moncherino della zampa.
“Avete portato il caos nella collettività, distrutto il formicaio, cancellato qualsiasi idea di ordine, organizzazione e scopo. Avete cancellato la vita di questo mondo. Io vi ringrazio. Non potrei mai impedirvi di andarvene. Ma là fuori non c’è nulla. Nulla, se non le larve.”
“Procuraci una barca, Belzebù – occhieggiò Steno – là fuori ci sono i sogni. E forse, tra qualche era, un mondo più ospitale per noi due.”
Belzebù annuì.

I due fratelli andarono al largo, nel mare di larve. Man mano che si allontanavano dal formicaio e dalla collettività, il tempo ritornava ad essere morto e immortale allo stesso tempo. Fermarono la barca quando furono abbastanza lontani da vedere solamente il cielo in ogni direzione.
“Qui andrà bene”, disse Piranka.
“Torneremo a sognare, finalmente – occhieggiò Steno – finalmente ci sentiremo a casa.”
“Casa non sono i sogni, purtroppo. Casa non la vedremo mai più. Anche se è morto, quel tempo è passato da un pezzo. Possiamo solo continuare ad andare avanti, aspettare un mondo migliore per me e per te. Il tempo rinascerà, prima o poi ci sveglieremo di nuovo. Fino ad allora, staremo insieme, come sempre.”
“Come sempre”, disse con gli occhi Steno.
Piranka prese in braccio suo fratello, poi osservò lo strano mare che si contorceva sotto di loro.
“Anche se può sembrare una favola, non lo è. Non vivremo per sempre felici e contenti. Vivremo per sempre, punto e basta”.
Poi si tuffò.

giovedì 28 luglio 2011

Kheperer



Lo scarabeo zampetta sulla mia/nostra schiena e con la sua lunga lingua dorata mi/ci assaggia per capire se sono/siamo fatti di miele o sterco. Per imitarlo mi/ci assaggiamo. A me sembra solamente sale. Ma mi/ci era sembrato fiele, e in futuro mi/ci sembrerà lebbra.
Non gradendo il mio/nostro sapore, piega le sue ali, fatti di cristallo, seta e ossidiana, fuse insieme in un perfetto miscuglio organico e inorganico. Vuole spiccare il volo attraverso il tempo, ma la mia mano coperta di sabbia rossa è più veloce e lo afferro, stringendolo tra le sei dita. La sua corazza di titanio e vuoto mi pizzica la pelle, così decido di ingoiarlo. Sento le sue zampine in grado di fendere il tempo che mi graffiano la trachea dall’interno, così lo faccio scivolare nei polmoni.
Gli altri me sono stati lenti e lo scarabeo gli è sfuggito tra le dita, me lo ricordo chiaramente, e ricordo che mi sfuggirà in futuro. Ma ormai sono abituato a simili bizzarrie. Io ho il kheperer, ed ora so che cosa è in grado di fare. Nessuno dei me passati o dei me futuri lo ha saputo o lo saprà mai. Sorrido, soppesando quest’incongruenza.
Il sapore speziato del paradosso si amplifica quando un brivido dietro la nuca mi avverte che l’Adunata sta per cominciare. D’un tratto, l’immenso deserto di sabbia e ossa mi pare meno bruciante, la luce riflessa dal sole rosso e morente meno dolorosa per le mie carni straziate. Tutto si attenua e mi ritrovo in un nero vuoto attraversato solo da un indescrivibile caos di voci.
Si sentono pianti, risate di gioia, risate crudeli, ringhi e altre oscenità sussurrate dalle tenebre. E, come ricordo/ricordiamo tutti, iniziano a materializzarsi figure. Le prime, le più antiche, sono dotate di due braccia, due gambe, una testa quasi sferica e coperti di pelle scura. Sia uomini che donne, portano vestiti pregiati, gioielli d’oro, ametiste e lapislazzuli. Nei loro occhi, così giovani e saggi, si nota ancora il barlume della lucidità mentale. L’intera dinastia dei regnanti, composta da novemilaquattrocentocinquantasei reincarnazioni precedenti a me stesso, crea con la pura forza di volontà una pari numero di troni d’oro e legni pregiati dal vuoto e ci si accomoda, osservando il resto delle creature con espressione crudele.
Osservo quello che ero prima di trascendere in questa forma: un uomo dalla pelle color ebano, con un abito intessuto interamente in filo d’oro e coperto di geroglifici simboleggianti protezione e morte. Ricordo perfettamente i poteri di quell’abito: ogni filo di cui era intessuto rappresentava un essere vivente del mondo che governavo. Chiunque osasse tentare di ferirmi, recidendo così i fili delle Moire, diveniva anche responsabile della fine di milioni di vite. E ricordo che è stato proprio quell’abito a rendermi/renderci ciò che sono/siamo ora e sono/saremo poi.
Ecco, iniziano a comparire le mie/nostre future reincarnazioni: creature gobbe, malformate, coperte di sabbia e sangue. Ultimi sopravvissuti di un mondo la cui fine è stata decretata già da milioni di anni. E dopo di essi, ritorna a tormentarmi/tormentarci l’orribile visione di quei mostri: demoni cornuti, creature composte da ossa e vuoto, macchine infernali con solo qualche brandello di carne attaccato ad un corpo metallico e rugginoso. Ringhiano, si dimenano, si distruggono a vicenda in preda alla follia causata da milioni di vite senza l’oblio della morte a depurarne i ricordi. E sono di un numero illimitato.
Vedo, proprio vicino a me, una creatura vermiforme, lunga dodici metri e dotata di quaranta artigli affilati al posto delle zampe, divorare la sua/nostra precedente incarnazione, un verme del tutto simile ma più piccolo. Essi si combattono e si distruggono a vicenda e le carcasse vengono divorate da un’incarnazione successiva, ancora e ancora, in un caos senza fine.
Il kheperer si dimena nei miei polmoni e sento il rumore ticchettante dei suoi palpi mascellari che si muovono senza sosta. Nessuno dei me passati o futuri sa della sua presenza e lui si sta nutrendo di questo paradosso, cibo delizioso e pregiato per una creatura nata al di fuori della linea del tempo.
Sghignazzo, unendomi agli altri mostri del luogo. Poi lui/io arriva/arrivo.
È/sono alto oltre due metri, con un torace massiccio, un portamento maestoso, quasi completamente nudo: solo un perizoma di filo di giada copre il suo/mio organo riproduttivo. La sua/mia pelle è del colore della notte, i capelli sono completamente rasati, gli occhi di un viola luminoso e accecante.
Ricordo che quando i miei/nostri antichi nemici avvistavano quella luce tremenda, che in una notte senza stelle era visibile da chilometri di distanza, i loro cuori iniziavano a tremare per la paura di qualcosa di ben più terribile della morte.
Si mette al centro. Non che in un luogo del genere, al di fuori del tempo e dello spazio, possa esistere un vero e proprio punto centrale. Ma è sempre lì che ho pensato di essermi messo quando ho/abbiamo tenuto un discorso che ricordo/ricordiamo molto bene, per le novemilaquattrocentocinquantasei volte che l’ho/abbiamo già sentito in precedenza. Ricordo di aver alzato le braccia e aver squadrato dapprima la dinastia dei regnanti, urlando per la gioia e l’euforia, poi le creature mostruose. Vedo il disappunto sul mio/suo volto: avevo pensato che quelle creature fossero delle entità ancestrali portate lì per errore durante il ripiegamento del tempo, ma solo con quest’ultima forma ho capito la verità delle cose.
Il kheperer scava e si muove nel mio intestino. Quello che succede lo sta divertendo un mondo.
“Io sono Sekhemib il Distruttore, Signore dell’Impero Khater e voi tutti siete me. Vi chiamo in questo non-luogo al di fuori del tempo perché il mio regno deve durare in eterno”, urla il primo con voce possente.
“Noi siamo Sekhemib il Distruttore, Signore dell’Impero Khater e tu sei noi. Rispondiamo alla tua chiamata in questo non-luogo al di fuori del tempo perché il nostro regno deve durare in eterno”, rispondo/rispondiamo tutti quanti in coro.
Nell’udire la risposta, il primo Sekhemib esplode in una risata selvaggia e incontrollabile. Se erano tutti lì, voleva già dire che ce l’aveva/avevo fatta. Povero pazzo.
Sono solo un povero pazzo.
“La vastità del mio impero non può essere misurata dall’occhio mortale, i suoi abitanti sono così numerosi che non possono essere censiti nemmeno dagli dei, ammesso che essi esistano. Io sono Sekhemib, che ha distrutto tutti i suoi nemici tranne uno.”
“Lo sappiamo, lo sappiamo!”, urlo/urliamo in coro.
“Questo nemico è la morte e l’oblio che essa porta. Sondando i misteri dell’aldilà ho compreso i misteri del corpo e dell’ànemos; il primo è caduco e viene inevitabilmente sconfitto dal tempo e dall’entropia, mentre la seconda, la parte più pura di me, vive in un eterno ciclo di reincarnazioni. Ma il trauma della morte è qualcosa che la l’ànemos non può accettare del tutto; ella ne viene consumata, fino a che ne rimane solamente una scintilla, per poi ricostruirsi e giungere in un nuovo corpo.”
“Lo sappiamo, lo sappiamo!”, urlo/urliamo in coro.
“Ed ecco perché io ho bisogno di me stesso, in tutti i futuri che il mio ànemos attraverserà. Mi serve il mio stesso potere arcano, moltiplicato per infinite volte, per rendermi ancora più puro e far si che la morte non rappresenti un ostacolo, ma solo un ciclo di passaggio, e che il mio regno duri in eterno. La memoria e il potere non ne verranno cancellati, ma risorgeranno più potenti che mai in un nuovo corpo, giovane e forte.”
“Lo sappiamo, lo sappiamo!”, urlo/urliamo per l’ultima volta, come è sempre stato fatto nelle novemilaquattrocentocinquantasei volte che ho vissuto quest’evento al di fuori del tempo.
“Il paradosso non esiste, e se voi siete qui, e sapete di cosa sto parlando, vuol dire che il mio futuro mi riserva il successo. Ma io devo lo stesso pormi la domanda: posso aiutarmi? Voi tutti futuri me stessi, potete aiutarmi?”
I Sekhemib sani di mente iniziano un dibattito accanito. Tutti conoscono alla perfezione il copione e ogni singola parola pronunciata da ognuno precedente a loro, ma sono convinti che il paradosso non possa venire a crearsi. Era quello che il primo Sekhemib pensava, ed è l’errore che ora comprendo alla perfezione.
Il paradosso può essere creato solo da un altro paradosso. E l’insetto che mi sta risalendo la colonna vertebrale procurandomi un dolore sordo con i suoi aculei rinforzati nell’acciaio ne è la prova.
Rido, pensando a quello che potrei fare pronunciando una singola sillaba. Non ricordo nei miei precedenti me che la creatura che ora sono abbia mai parlato durante il dibattito. Potrei farlo. Grazie al kheperer, io stesso sono un paradosso. Ma per il momento mi mordo la lingua bifida e il veleno amaro mi cola giù per la gola.
Una donna dalla pelle scarlatta tatuata da macchie di leopardo e il volto coperto da una maschera d’ebano si fa avanti. Porta solo alcuni bracciali e cavigliere d’oro, ma per il resto è completamente nuda. Mi riconosco, ero io tremilasettecentonove vite fa. Sorrido/sorridiamo, pensando a quanto ero/eravamo bella.
“Io sono Sekhemib la Collezionista di Anime, cinquemilasettecentoquarantasettesima reincarnazione di Sekhemib il Distruttore, imperatrice del grandioso Khater, e prendo parola per esprimere i nostri pensieri.”
“Mi concedo il diritto di parola”, risponde il primo con un ghigno trionfante. Le sue prime dieci reincarnazioni ridono sguaiate alla battuta. Quanto ero sciocco e meschino.
“Il Khater che io conosco non si estende più solo sulla superficie della terra. Si estende anche sotto di essa, nelle nere profondità del mare e al di sopra delle nuvole. Presto giungeremo fino alle stelle più lontane. Senza il mio potere, la mia saggezza e la mia ferocia, ciò non sarebbe stato possibile. Io sono favorevole allo svolgimento del rituale, e se lo sono io, lo sono anche tutti quelli precedenti a me. Il potere che avrai nella mia epoca sarà milioni di volte più elevato di quello che hai ora. I piaceri e le delizie che ho vissuto sono al di là di ogni immaginazione. Sommiamo la nostra forza, ed eseguiamo il rituale. Questo è il volere di Sekhemib”, dice la Collezionista di Anime/dico.
Gli occhi del primo me stesso brillarono durante l’ascolto di quelle semplici parole. Sogni di grandezza, gloria, potere e distruzione fecero scaturire in me/lui una tale eccitazione da rendere necessaria una risata liberatoria, in memoria di un’eterna auto-glorificazione.
Uno dei Sekhemib successivi alla Collezionista di Anime si fece avanti. Ero storpio, la barba era lunga e poco curata e tra le mani tenevo una tela di pelle bianca chiazzata di sangue. La mostro a tutti, senza dire una parola, e ritorna a sedersi sul suo trono.
Mi facevo chiamare Sekhemib l’Artista. In quell’incarnazione ero nato storpio e, essendo sempre nato in corpi sani e forti, avevo il terrore di mostrarmi in pubblico. Così mi ero rinchiuso nel mio palazzo e facevo portare ai miei servitori ciechi delle vittime sacrificali da cui ricavavo il sangue necessario per dipingere i miei quadri. Alla mia morte, tutte le mura del palazzo erano diventate rosse. Una sana dose di pazzia che venne curata solo alla mia successiva nascita, quando fui/sono un uomo alto tre metri che si faceva chiamare Sekhemib il Titano che amava schiacciare i suoi nemici sotto la suola degli stivali.
Non ricordo il motivo preciso per cui mostrai/mostrammo quell’opera composta da fluidi rappresi. Sentivo che lo dovevo fare e basta. Venni ignorato, non riuscendo a capire le mie/nostre stesse intenzioni.
All’improvviso, do un colpo di tosse e un grumo di sangue nerastro cade nel vuoto. Alcune mie precedenti incarnazioni si voltano verso di me, accorgendosene. Eppure io non ricordo di aver mai visto una simile scena. Lo scarabeo continua ad agitarsi nelle mie viscere, divorandole. All’improvviso mi sento confuso.
È il paradosso, continuo a ripetermi, è il paradosso che si manifesta.
Sghignazzo, non riuscendo a contenermi.
Molti me stesso prendono parola, glorificando l’impero in ogni epoca e in ogni reincarnazione. Giuro/giuriamo di aver sterminato il popolo dhukos dagli occhi bianchi, mentre un suo/mio successore/predecessore giura di averci stretto un’alleanza. Sostengo/sosteniamo di aver conquistato il favore degli dei, poi giuro/giuriamo di averli distrutti. Blatero/blateriamo parole senza senso, sostenendo di essere già morti, ma poi sono/siamo convinti che si tratti tutto di un sogno. Tante vite, tante diverse follie, per un ànemos che non è più in grado di contenere quasi un milione di anni di ricordi.
Poi, uno dei mostri/di noi si fa avanti. È/sono spaventoso e assomiglio/assomiglia ad un gigantesco sauride coperto di melma e spunzoni ossei. Dalla sua bocca, entrano ed escono in continuazione delle falene.
Chissà come si farà chiamare questo mio/nostro futuro me stesso? Sekhemib il Nido Infestato?
Rido sguaiatamente, sperando di non poterlo mai scoprire. Una speranza che riverso interamente nel kheperer.
Emette/emetto solo un ruggito, so che sta/sto per attaccare. Dalla bocca esplode un esercito di falene, che vola stridendo contro uno gruppo di Sekhemib antichi. Le farfalle notturne li divorano con piccole zanne e di loro/noi non rimane altro che un gruppo di scheletri spolpati.
Tutti i precedenti e i successivi dinasti gridano bestemmie contro la creatura e, in un imponente lampo magico, questa viene distrutta.
Uno stregone millenario e dotato di potere infinito che lotta contro sé stesso. Questa scena mi risulta sempre affascinante.
“Sono appena morto dodici volte, in un singolo istante! – tuona il primo – eseguiamo il rituale! Che le bestie degli inferni non giochino più con colui che è un dio in terra!”
Tutti si tirano in piedi e alzano le mani al cielo, sempre che di cielo si possa parlare, convogliando il potere nel primo. Ricordo/ricordiamo con estrema precisione questo momento: presto tutto esploderà in una luce sfavillante e noi tutti torneremo nelle nostre rispettive epoche, dove proseguiremo la vita di Sekhemib. È l’unica opportunità che ho, e devo prendermela. Cammino nel vuoto, mi porto davanti al primo, e prendo parola.
“Io posso parlare”, dico.
Il rituale si blocca. Questo non era previsto. In nessun ricordo, in nessuna delle mie/nostre memorie, in nessuna delle mie/nostre vite, questo doveva avvenire. Il kheperer inizia a risalire su per la gola.
Tutti mi guardano, con occhi resi roventi dal terrore. Guardano questa creatura sgraziata, gobba, dalla pelle incrostata di sabbia rossa e costretta a nutrirsi di rifiuti per tutta la sua vita.
Guardano quello che diventeranno.
“Come osi bloccare la mia ascesa al cielo? Chi sei tu?”, urla il primo, senza che io me ne ricordi.
“Io sono Sekhemib il Solitario, ultimo discendente dell’impero Khater. Sono il primo di una lunga scia di follia e distruzione.”
Funziona, funziona! Questo è un paradosso, che ne attirerà altri. Altri kheperer. Molti altri. li sento sciamare con le loro zampette metalliche e i corpi vuoti oltre il tessuto nero del non-luogo. Mi lascio andare ad un’altra risata, poi proseguo il mio discorso. Devo guadagnare tempo in un luogo senza tempo.
“Prima che fossi Solitario mi facevo chiamare il Ricattatore e con i miei poteri divini avevo creato una tunica tessuta con gli stessi fili delle Moire.”
Il Ricattatore mi guardò, socchiudendo gli occhi, che vennero immediatamente colmati di una luce violetta. Aveva/avevano un folle timore nel cuore, lo si capiva dal modo in cui stringeva/stringevano i denti affilati.
“Il mio impero e il mio potere erano al suo apice. Avevo conquistato le stelle, l’eternità e tutto ciò che esiste al mondo, sia esso materiale o immateriale. Ma la mia arroganza fu la mia rovina, poiché subito dopo essere tornato dall’Adunata, morii in un incendio appiccato da alcuni meschini plebei alla mia città-fortezza. Il mio corpo venne completamente consumato, e così i fili delle Moire. Tutti gli uomini e le donne del mio impero morirono in quell’istante, decretando la fine del Khater e del mio ciclo di reincarnazioni per milioni di anni.”
Tutti i miei io iniziarono a parlare tra di loro convulsamente. Sono terrorizzati dalle mie parole e, soprattutto, da cosa sarebbero diventati.
“Ora io sono ciò che vedete, una creatura discendente dagli uomini nata in un mondo consumato dal mio stesso potere. E coloro che vedete dietro di me, queste creature mostruose, sono ciò che sarà Sekhemib in futuro. Nient’altro che l’ombra di sé stesso, un animale dotato del potere più grande dell’universo e senza nessun altro essere su cui dominare. Imperatore Sekhemib il Distruttore, non ti/mi sembra questa la fine peggiore che possa essere concessa alla tua/mia grandezza?”
Il Distruttore mi guardò e annuì, iniziando a parlare con la sua voce tonante.
“Il mondo esiste perché io lo domino. Ma se il mondo non esiste più, allora nemmeno io ho più senso di essere. Sono il primo di noi ma non sono uno sciocco, Solitario. Tu hai creato un paradosso, lo comprendo dalle facce e dalle parole dei futuri me stessi. Tu non condividi più l’ànemos con me. Qual è la tua decisione?”, dice il primo.
“La mia decisione è di smettere di esistere”.
Sputo dalla bocca il kheperer, che schizza volando verso il primo, lasciando dietro di sé un dolciastro odore di zucchero e sangue. Le grida sono numerose, ma lo scarabeo è troppo veloce e nessuno dei me riesce ad afferrarlo. Giunge, rapido come una freccia, dritto in mezzo alla fronte del Distruttore, sfondandogli il cranio. Non appena le gocce di sangue e osso vengono risucchiate dal vuoto, l’oscurità stessa si sfalda facendo penetrare un’onda dorata di altri kheperer che, attirati dal paradosso come le api al miele, divorano, mangiano e risucchiano tutto ciò che sono stato e che sarò in futuro. Le mie/nostre urla di agonia sono terrificanti, ed dopo un momento di tempo fermo, lo sciame è scomparso, trascinando con sé tutti quanti i me.
Tutti eccetto me, il Solitario, rimasto da solo in mezzo alle tenebre.
Lo scarabeo che ho vomitato è scomparso con lo sciame e mi ha lasciato qui a patire una lenta agonia prima della morte. Vomito sangue e budella, sperando che tutto ciò finisca in fretta e che Sekhemib non sia più.
Poi lo vedo, in lontananza. Sembra un camaleonte, ma i suoi occhi sono di un violetto luminoso e terrificante. Fa scivolare su e giù la lingua spinosa e vedo che tra le zanne gialle stringe un altro kheperer. L’ho/abbiamo catturato in futuro, senza rendermene conto. Quello che sarò ne ha catturato uno, ed è divenuto lui stesso un paradosso.
Sekhemib esiste ancora, ed esisterà in eterno. Scompare/scompaio, ritornando alla sua/mia epoca. Capisco di avere fallito.
Non si gioca con il tempo, e questa ne è la prova. Continuerò a vivere in forme sempre più folli e grottesche, fino a che nell’universo non esisterà più alcuna particella vitale in cui potermi/poterci reincarnare.
Ma io me ne sono staccato. Ora sono solamente il Solitario. E sto morendo, questa volta veramente.
Cala il sipario sul mio manicomio. Apro le mani, e mi abbandono al vuoto.

[Questo racconto era stato mandato ad un concorso letterario in cui purtroppo non ho avuto buoni risultati, quindi lo lascio a voi, gentili lettori, sperando che apprezziate comunque i miei sforzi.]

giovedì 7 luglio 2011

Steno e Piranka

E' da un bel po' che non posto più niente. Il problema è che sto scrivendo poco, e il poco che scrivo lo mando in giro per concorsi, così non posso pubblicare nulla sul blog pubblico.
Ora però mi è venuta una piccola idea per un racconto del new weird che sto imparando ad amare. Cosa è il new weird?
Il new weird è un filone della letteratura fantastica, soprattutto fantasy, sviluppatosi a partire dagli anni novanta. Si caratterizza per la deliberata contaminazione di fantasy, fantascienza e horror, nella tradizione di H. P. Lovecraft e della letteratura pulp degli anni quaranta (cit Wikipedia).

L'ultimo racconto postato (Idilios) ne è un buon (anche se un po' carente, a mio parere) esempio.

Ad ogni modo, questo post serviva per ispirarmi. Le immagini che seguono chiaramente non sono mie (considerato che so a malapena disegnare degli omini stilizzati), ma potrebbero servirmi per visualizzare il racconto che ho in mente. Trovo che l'utilizzare musica e immagini come mezzo per figurarsi delle situazioni sia un buon mezzo per buttarsi a capofitto nella scrittura, non credete?


Piranka


Steno

sabato 26 marzo 2011

Idilios


“Mangia quante saette vuoi, Lamirin mio. Assorbi dentro di te questo rumore infernale e fallo diventare vita.”
Il gabbiano dalle piume di sottile acciaio inciso volteggiò quattro volte attorno al cielo plumbeo, attendendo il movimento particellare che preannuncia il crearsi di un fulmine. A poco a poco la pioggia cristallina iniziò a cadere, innaffiando un mondo quasi completamente privo di terra. Lamirin strillò verso il cielo quando il suo corpo venne all’improvviso attraversato da una scarica di energia bianca.
Una fonte di nutrimento per qualcosa che aveva bisogno di pura energia e non cibo vero, carnoso e sanguinolento.
Lamirin planò silenziosamente e tornò ad appoggiarsi sulla roccia resa scivolosa dall’acqua, fissando il ragazzo che gli aveva assegnato un nome così tanto tempo fa. Nessuno aveva mai tagliato i suoi capelli corvini, perché non c’era mai stato motivo per farlo. Non aveva mai indossato vestiti, perché non c’era nessuno che potesse vedere le sue vergogne. Non c’era nessuno che l’avesse mai guardato negli occhi, eccetto i gabbiani d’acciaio che volteggiavano al di sopra dell’isola di roccia volante immersa nel mare di nubi scure.
Lì il ragazzo aveva una casa, l’unica che aveva mai avuto, e trascorreva le giornate osservando l’orizzonte sempre percorso da tifoni, saette e uragani. Non c’era nulla al di sopra della sua oasi di pace, né al di sotto: solamente nubi, caos e solitudine.
A differenza dei suoi unici compagni dotati di piume, egli non aveva bisogno di nutrimento: la sua vita era stata sempre così solitaria che aveva imparato a trascendere tutti i suoi bisogni.
Esisteva solamente perché sapeva di esistere.
“Presto le cose cambieranno”, disse a bassa voce, rivolgendosi più a sé stesso che ai gabbiani.
Impensabile il cambiamento in un’esistenza che era sempre stata stabile e immutabile, per quanto circondata dalla furia.
Il ragazzo si diresse verso la collina rocciosa che sormontava l’isola, trascinando con sé un pesante blocco di roccia scolpito a forma di mattone, aiutandosi con una corda. Fece fatica, soprattutto a causa del suo fisico esile. Ma quell’ultimo sforzo sarebbe stato presto ripagato.
Aveva già percorso centinaia, migliaia di volte quel percorso trascinando con sé quei pesanti fardelli. I mattoni comparivano, già lavorati e di forma perfetta, segno che il fato stesso lo stava incitando a cambiare il proprio destino.
Una volta giunto sulla collina, issò il mattone sulla cima di un edificio che aveva formato con gli altri, una sorta di grossa piramide a gradoni. Sorrise silenziosamente quando riuscì a portare l’ultimo blocco fino in cima, formando la punta più alta della ziggurat.
Notò solo in quel momento che quell’ultimo blocco era forato al centro, come se fosse stato predisposto come un incavo per un ultimo oggetto.
“Il mio lavoro non è ancora finito”, disse a Lamirin, che nel frattempo gli si era poggiato su una spalla.
Tornò alla spiaggia priva di mare e lì trovò una grande asta d’acciaio, lunga quasi cinque metri, il cui diametro era perfettamente calibrato per inserirsi nel foro sulla cima della piramide.
Portò anch’essa alla collina e una volta lì, prima di inserirla nella costruzione, guardò il cielo grigio pieno di gratitudine.
Non appena inserì l’asta, questa attirò le saette come un gigantesco parafulmini, riempiendo l’isola galleggiante di pura energia. Il ragazzo venne scagliato via dalla violenza dell’impatto, cadendo sulle rocce, ma non facendosi male. Il dolore non significava nulla per qualcuno che aveva sempre vissuto da solo.
Si alzò in piedi, contemplando il gigantesco stormo di gabbiani d’acciaio che si avvicinava alla sua casa, attirati dalla luce e dal nutrimento dei fulmini che la costruzione continuava ad attirare sull’isola, una scarica dopo l’altra.
“Io sono Idilios e ho dato prova della mia esistenza. Ora la solitudine non mi spaventa più”, sussurrò alle creature, mentre lacrime più salate di un mare che non esiste gli scendevano lungo le guance.

domenica 2 gennaio 2011

Ingarbugliato nella trama

Beh, anche se non sto più pubblicando niente da un po', posso solo dirvi che non sono morto. Sono solo molto impegnato. Non per le feste di Natale, sia ben chiaro (lì sono solamente impegnato a mangiare), ma questa volta sono ingarbugliato in qualcosa di grosso. Sto scrivendo, ma è qualcosa che ho intenzione di portare avanti, perché, DANNAZIONE, credo proprio che funzioni. Attualmente sono al centinaio di pagine e non ho ancora intenzione di smettere. Forse è la volta buona che scrivo davvero un romanzo, per la miseria!
E, cosa molto bella, sono tornato finalmente a leggere parecchi libri. Era parecchio che ero intabarrato con libri che ritenevo noiosi, lunghi e poco accattivanti. Invece le ultime letture mi hanno attivato. Che devo dirvi? Ciò non fa che confermare che se uno non legge, non è in grado di scrivere.
Detto questo, vi consiglio queste letture. Mi hanno preso, e le ho portate a termine nel giro di pochi giorni. E ora mi butto nuovamente sul lavoro :)