mercoledì 20 giugno 2012

Giustizia Superiore


“Come sono le condizioni del prigioniero?”
“Ottimali. Attualmente si trova in stato di animazione sospesa. Potete fare ciò che volete di lui… anche se fosse per me l’avrei già fatto uccidere.”
“Non ti trovi qui per esprimere pareri, colonnello Immer’nok. Ora, fallo tornare cosciente. Voglio parlare con lui.”
“Gerarca Okox, le sconsiglio vivamente…”
“Ho già detto che non sei qui per esprimere pareri. So che avete sondato la sua mente e non avete trovato traccia della Parola Zero. Come nostro ex-commilitone, è giusto che Halikan abbia diritto ad un interrogatorio per verificare il suo stato mentale. Liberalo, non lo ripeterò un’altra volta.”
“Sissignore”, disse il colonnello Immer’nok, poi ruppe le righe e si diresse a passo svelto verso l’unità di sospensione riservata ai prigionieri appena deportati nella dimensione Omega-8. Era un congegno grande quanto un armadio a due ante, completamente costituito di acciaio istoriato di rune brillanti di energia magica che avrebbero mantenuto un individuo rinchiuso al suo interno in uno stato permanente di coma e gli avrebbe anche impedito di fare scherzi, come tentare di liberarsi, grazie alle rune di interdizione poste lungo tutta la sua superficie.
Immer’nok era un th-ya della dimensione Kishogy, una creatura umanoide gobba e dalla pelle di un malsano colorito verdastro, dotata di due arti inferiori e quattro arti superiori che finivano in micidiali artigli. Il suo volto era serpentiforme e aveva occhi dalla pupilla color blu notte. I th-ya erano creature rinomate per la grande disciplina e la capacità bellica, anche se Immer’nok dimostrava spesso di avere più iniziativa e capacità di pensare di quella che normalmente viene accreditata ad un comune soldato, ed era quello il motivo per cui il Gerarca Okox l’aveva voluto tra i cacciatori della dimensione Omega-8.
Immer’nok tracciò con le dita artigliate alcuni simboli sulla superficie dell’unità di sospensione, che  subito emesse una leggera vibrazione, mentre la luminosità di alcuni glifi iniziò a perdere di intensità. Il portellone principale si aprì con uno sbuffo di fumo, rivelando la sagoma di chi vi era contenuto.
Halikan era un umano, una creatura imponente alta quasi due metri e dall’apparenza taurina. Era completamente nudo, eccezion fatta per un medaglione d’oro rappresentante una bilancia con i piatti i perfetto equilibrio. Buona parte del suo corpo era tatuata con simboli tribali, ma il tatuaggio più interessante era quello che gli marchiava il lato destro del cranio rasato, una serie di simboli arcani e numeri rossi che indicavano il suo numero e il suo grado tra i cacciatori di Omega-8.
Okox si alzò dalla comoda poltrona in pelle su cui era seduto reggendosi ad un bastone d’argento. Il gerarca era un umano avvizzito, con il volto duro come la corteccia di un albero e la pelle cianotica. Portava una tunica nera di pelle traslucida e alcuni bracciali d’osso e argento troppo larghi che gli traballavano sulle braccia rinsecchite. Come Halikan, anche Okox era rasato e aveva una simile sigla tatuata sul lato destro del cranio. Immer’nok, pur essendo un cacciatore, aveva solo un marchio di riconoscimento sui vestiti: la pelle della sua razza mal sopportava l’inchiostro sottocutaneo.
Halikan aprì lentamente gli occhi e si guardò intorno senza dire niente. Tentò di liberarsi dall’unità di sospensione, ma legami d’acciaio gli stringevano polsi e caviglie. Guardò in direzione di Okox attendendo che il direttore di Omega-8 dicesse qualcosa.
“Fisicamente sembri stare bene. Vediamo se anche il tuo cervello è a posto. Rispondimi, come ti chiami?”
“Halikan”, rispose lui con tono neutro.
“Bene, Halikan, sai dirmi chi sei?”
“Sono un servitore del Feanah’ir, la giustizia, e uno dei cacciatori di Omega-8.”
“Ti ricordi di me? Sai dove ti trovi?”, lo incalzò il gerarca.
“Gerarca Okox, mio diretto superiore, direttore di Omega-8, dove credo di trovarmi ora. Nel particolare, credo di essere nella sala di controllo generale.”
“La memoria episodica sembra che ti sia rimasta. Ora controllerò se hai subito danni alla memoria semantica.”
“Normali procedure”, commentò freddo Halikan.
Okox annuì con soddisfazione e accennò un lieve sorriso.
“Sai cos’è il multiverso? E cos’è Omega-8?”
“L’universo dove ci trovavano è solamente uno tra migliaia e migliaia di dimensioni che insieme formavano il multiverso, uno spazio di grandezza inimmaginabile dove le leggi della fisica e del tempo non sono sempre concordanti. Omega-8 è una terra di cenere grigia che non conosce alcun confine, adibita a dimensione-prigione per soggetti estremamente pericolosi. Alcuni incantesimi infusi nelle stesse particelle di stabilità fanno sì che niente e nessuno possa compiere viaggi dimensionali dall’interno verso l’esterno della dimensione se non tramite l’ausilio di apposite chiavi, ma i prigionieri sono liberi di vagare all’interno e fare ciò che più gli aggrada. Anche uccidersi tra di loro. Tra i soggetti più pericolosi si annoverano Adeo, un organismo di fibra ottica e fasci nervosi delle dimensioni di un piccolo sole, responsabile dell’assorbimento psichico di duecentodiciotto mondi abitabili in novantaquattro diverse dimensioni, Evshoon, creatore di malattie e mente alveare di tutte le bestie che strisciano, Sekhemib l’Immortale, nella sua dodicimilaquattrocentoventiquattresima reincarnazione a partire da Sekhemib il Distruttore, e…”
Okox alzò una mano e, istantaneamente, Halikan obbedì all’ordine e tacque. Il cacciatore si era sempre dimostrato molto obbediente in passato, anche se quel modo di parlare simile a quello di una creatura sintetica aveva sempre messo in soggezione il vecchio gerarca.
“Hai superato appieno il test. Ora non parliamo più come graduati, ma come amici di vecchia data. Come stai, Halikan?”, chiese Okox. Il colonnello Immer’nok, che rimaneva in attesa di ordini di fianco all’unità di sospensione, emise un sibilo che sembrava un sussurro.
“Fisicamente e mentalmente bene, ma ho un gran mal di testa. Inoltre queste costrizioni mi stanno rendendo nervoso. Puoi liberarmi?”
Okox annuì e fece un cenno a Immer’nok, che eseguì l’ordine di controvoglia. Halikan uscì dall’unità di sospensione massaggiandosi i polsi indolenziti.
“Mi devi delle spiegazioni, vecchio mio. Hai servito come cacciatore di entità per questa prigione per diversi cicli, hai contribuito personalmente a rinchiudere qui alcuni dei suoi ospiti più pericolosi. Tutto questo per il senso del dovere e della giustizia più puro e integerrimo che abbia mai visto. Poi scompari per due interi cicli senza dire una parola e senza lasciare nemmeno una lettera di dimissioni. E poi, quando finalmente riusciamo a capire dove sei finito, ti raggiungiamo credendo di trovare un cucciolo smarrito e piangente e invece… scopriamo ciò che hai fatto.”
“Me ne assumo tutte le responsabilità del caso. So di essere un individuo pericoloso e so che sarò rinchiuso per ciò che ho fatto.”
“Tutte le creature viventi della dimensione Naalothorh cancellate dall’esistenza. Non sono state uccise, nemmeno disintegrate. Semplicemente, è come se non fossero mai esistite. Nel momento in cui ciò è successo tutti i libri di storia si sono automaticamente riscritti, i ricordi di chiunque conoscesse viaggiatori provenienti da quella dimensione ancora vivi si sono cancellati, così come tutte le azioni da loro compiute. Ti sembra una cosa divertente?”, chiese Okox, furioso.
“No, non è affatto divertente – rispose Halikan – ma come ho detto me ne assumo tutte le responsabilità. Ho una domanda: se con l’annullamento di tutte le forme vitali l’intera storia del multiverso che riguardava quella dimensione è stata riscritta, come avete fatto ad accorgervene?”
“Non è stato facile. I dati indicavano che di punto in bianco, diverse centinaia di anni fa, tutte le forme di vita di Naalothorh si sono estinte. Nessuna creatura ha più generato figli, nessuna forma vegetale ha fatto più attecchire delle spore sul suolo. È stato pane per gli storici, che hanno tentato di scoprirne la causa. Alcuni calcolatori probabilistici in nostro possesso hanno ventilato la possibilità di un paradosso, così abbiamo fatto analizzare la dimensione ad alcuni kheperer.”
“Gli scarabei magici che si nutrono del paradosso e al contempo lo generano.”
“Esattamente. Ti posso assicurare che hanno trovato Naalothorh una vera e propria prelibatezza. Abbiamo sondato la dimensione per rilevare le possibili minacce, e così ti abbiamo trovato e prelevato. Ricordi cosa è successo poco prima del tuo arresto?”
“Sì, me lo ricordo. Tu mi hai chiesto se fossi stato io, e io ti ho risposto di sì. Tu mi hai chiesto come e io ti ho detto della Parola Zero.”
Okox annuì con fare solenne.
“Conosci la leggenda delle Parole di Potere?”, chiese Halikan.
“Molto vagamente. Miti e leggende di quando ero un ragazzino. Rinfrescami la memoria, vecchio mio.”
“Si dice che nascoste nel multiverso esistano diverse Parole di Potere. Sono parole ancestrali, antiche, che racchiudono in loro un singolo significato profondo. Chiunque senta pronunciare una Parola di Potere subisce immediatamente il suo significato. Le leggende più incredibili parlano di parole in grado di uccidere chi le sente, di trasformarlo in un animale o di farlo innamorare perdutamente di chi le pronuncia. Ebbene, io ho trovato una parola ancora più potente. Quella che viene chiamata Parola Zero, oppure Parola di Non-Esistenza.”
“Chi la sente cessa di esistere?”
“Sì, ma non solo. Chi la sente pronunciare è come se non fosse mai esistito. La parola stessa genera un paradosso che cancella tutta la storia passata dell’individuo e le azioni che ha compiuto, comprese le reazioni che la sua vita ha generato. Questa parola, letteralmente, cambia la storia del multiverso.”
“Come hai fatto ad entrarne in possesso?”, chiese Okox.
“Okox, io sono colui che ha catturato da solo Baelarha, il collezionista di anime, che ha sconfitto in combattimento Ekathon, il titano dalle mille braccia, e che ha consegnato a questo luogo più creature di qualsiasi altro cacciatore che la storia ricordi. Credi davvero che ci sia qualcosa che io non sia in grado di fare? Ho compiuto una cerca che ha richiesto ben due cicli di tempo, ho svolto delle indagini e ho vissuto orrori inimmaginabili. Ma alla fine l’ho trovata e ciò è quanto ti è dato sapere”, disse Halikan con voce solenne, che lasciava appena trasparire una punta di vanagloria.
“Ora però non l’hai più, ed è per questo motivo che ho deciso di parlare con te. Ti abbiamo sondato la mente tramite la magia e non abbiamo trovato traccia della Parola Zero. Non solo, tu stesso sei convinto di non esserne a conoscenza”, disse Okox.
“È vero. Poco prima che tu e gli altri cacciatori veniste a prelevarmi ho consegnato la parola a due compagni che mi hanno aiutato nella cerca. Ho dato loro metà parola ciascuno, in modo che non fossero vittima del suo potere e nemmeno fossero in grado di utilizzarla, poi ho utilizzato un eliminatore di memoria selettiva per cancellarmi completamente il ricordo della Parola Zero.”
“Questi due chi sono? Puoi dirmi i loro nomi?”
“Si chiamano Noctibula e Creodes. Non sono mai andati molto d’accordo, ragion per cui posso fidarmi di loro. Non confideranno la loro parte di segreto l’uno all’altro. Se ne sono andati prima che voi poteste raggiungermi e non credo che li troverete. Sanno nascondersi molto bene. Inoltre, garantisco per loro: non hanno alcuna responsabilità per ciò che è successo nella dimensione di Naalothorh.”
“Questo è tutto da vedere, Halikan. Hai lavorato per me per molto tempo e dovresti sapere che questo luogo non è una prigione dove vengono detenuti i criminali. Questo è un luogo dove vengono detenuti degli individui pericolosi, che abbiano compiuto crimini o meno. Il semplice fatto di conoscere una parte della Parola Zero rende i tuoi amici delle persone da rinchiudere. Lo capisci questo?”
Halikan toccò il medaglione a forma di bilancia che portava sul petto muscoloso e assunse un’espressione mesta.
“Lo capisco, ma non condivido. Non ho mai condiviso, Okox. Le persone dovrebbero essere punite per dei crimini commessi. Questa è giustizia, non quella che proponi tu. È questo il motivo per cui due cicli fa me ne sono andato. Sicuramente in questo luogo ci sono anche dei veri e propri criminali, che sono tutte le creature che ti ho consegnato io personalmente. Ma il potere personale di un individuo non indica la sua propensione al caos. Io stesso sto per essere rinchiuso in questa dimensione e lo accetterò, anche se non ho commesso alcun crimine.”
“Cancellare dall’esistenza tutti gli esseri viventi di un’intera dimensione non è un crimine, Halikan?”, tuonò Okox.
“No, non lo è. Quegli esseri viventi non sono mai esistiti, io non ho mai nuociuto a nessuno. Ho abusato del mio potere, forse questo è vero, ma dal punto di vista di Feanah’ir, la giustizia, io non ho crimini sulla coscienza.”
Il gerarca Okox si portò una mano al volto, stremato. Quella conversazione lo aveva messo in agitazione. Il punto di vista di Halikan era sicuramente corretto. Non lo condivideva, ma era perfettamente logico. Tuttavia continuava a sfuggirgli un dettaglio, forse il più importante in tutta quella vicenda.
“Sarai rinchiuso Halikan, ormai la decisione è stata presa. Sarai circondato da tutte quegli individui che tu stesso hai contribuito a rinchiudere. Tu sei un eroe e un guerriero formidabile, ma anche gli eroi hanno dei limiti. Non sei in grado di affrontarli tutti assieme, prima o poi riusciranno a sopraffarti e allora morirai. Sapevi che saresti andato incontro a questo destino, vero? Allora spiegami, perché l’hai fatto? Perché hai ritenuto una cosa giusta cancellare dall’esistenza tutti gli esseri viventi di una dimensione solo per essere portato qui?”
“Perché, come ti ho già detto, mio vecchio amico, io credo in Feanah’ir. Molte creature sono qui dentro per un crimine e meritano ciò che stanno vivendo, ma le altre? Tutte quelle altre che sono qui perché ritenute troppo potenti. Non meritano un destino simile, così sono venuto a portare rimedio. Una cura che non li farà più soffrire e al tempo stesso permetterà al multiverso di essere al sicuro dai loro poteri. Io sono venuto qui per portare loro la Parola Zero.”
Okox si alzò dalla poltrona con uno scatto nervoso e le sue vecchie ossa scricchiolarono per lo sforzo, ma il gerarca era talmente teso che non sentì alcun dolore.
“Tutto ciò che hai fatto… era un metodo per farti portare qui dentro? La tua ricerca della Parola Zero, nient’altro che…”
“Un modo per farmi rinchiudere in questa dimensione senza compiere atti che avrebbero portato vergogna a Feanah’ir. La giustizia non è mai stata violata, né la violerò mai”, disse Halikan con tono ostinato.
“Ma tu non conosci più la Parola Zero. L’hai data ai tuoi compagni, tu ne hai perso la conoscenza, ne siamo sicuri.”
“Il multiverso è grande, Okox. Talmente grande che può portare un uomo alla follia, specie se mosso da un’ostinata sete di giustizia e spinto verso una cerca che pare infinita. Noctibula e Creodes… sono qui con me. Non devo fare altro che porre loro una domanda e mi sveleranno il loro segreto.”
Okox trasalì e rimase ad osservare Halikan per qualche istante, poi all’improvviso capì e per poco il cuore non gli cedette.
“I tuoi compagni… non sono mai esistiti. Sei tu. Sono delle tue altre personalità.”
“Noctibula e Creodes, grazia e forza, i motori che muovono Feanah’ir. Loro esistono, ma solo nella mia mente, e sono dotati di una propria memoria. E proprio mentre stavamo parlando, io sono nuovamente venuto a conoscenza della Parola Zero.”
Immer’nok si mosse verso Halikan con l’intenzione di aggredirlo, ma il colosso si voltò verso di lui.
“Mi basterebbe pronunciarla, cacciatore.”
Il colonnello si fermò e lo osservò con aria terrorizzata. Non sapeva come comportarsi.
“Sei un folle, Halikan”, disse Okox digrignando i denti.
“Ammetto le mie responsabilità. Ora hai due scelte, Okox. Puoi mandarmi là sotto e imprigionarmi come creatura pericolosa, dove io farò ciò che devo, oppure puoi ascoltare la parola e non essere mai esistito. Tu sei stato il primo cacciatore, senza di te questo luogo non sarebbe mai nato. Se tu non fossi esistito, tutte le creature rinchiuse sarebbero ancora in libertà.”
“Stai bluffando – disse Okox – non lo farai.”
“Nulla può fermare la giustizia quando questa deve fare il suo corso. Nulla può fermarmi.”
Okox rifletté per qualche istante, chiudendo gli occhi. Nella stanza, la tensione era palpabile.
“Rinchiudilo con gli altri, colonnello.”
“Ma signore!”, si lamentò il th-ya.
“Obbedisci o tutta la nostra esistenza sarà stata sprecata!”
Immer’nok abbassò lo sguardo e toccò Halikan sulla spalla, che annuì in direzione del gerarca e camminò in direzione dell’uscita dalla sala di comando e del portale che l’avrebbe portato sul suolo di Omega-8.
Okox rimase da solo nella stanza di comando, ad osservare un libro mastro di migliaia di pagine che racchiudeva i dati di tutte le creature rinchiuse nella dimensione. Osservò lo scaffale contenente oltre trenta libri mastri simili a quello, poi intinse la penna d’oca nel calamaio e trascrisse i dati dell’ultimo arrivato. Il pesante tomo era giunto al completo.
Okox aspettò che l’inchiostro si asciugasse, poi richiuse il tomo e lo posizionò sullo scaffale. Omega-8 aveva appena raggiunto il decimo tomo di prigionieri rinchiusi al suo interno.
Il Gerarca Okox annuì con soddisfazione.

martedì 19 giugno 2012

Viola Scuro


Tsc’yich divenne bianco quando la selce affilata colpì il suo avambraccio affondando con profondità nelle carni grigiastre. Il bianco sfumò fino a diventare screziato di nero. I molteplici occhi del fattucchiere fremettero per quello che stava provando, ma il ruolo che si era assunto all’interno della tribù gli imponeva di proseguire. Colpì un’altra volta nello stesso punto di prima e gli altri membri della tribù, che gli stavano intorno per sostenerlo, sentirono chiaramente il rumore delle ossa che si spezzavano. Nuovamente, il fattucchiere provò il bianco, e subito dopo il nero divenne molto più consistente.
Stava per perdere i sensi, ma sarebbe sopravvissuto anche questa volta. Ndhi-ysth sapeva che se avesse assunto in futuro il ruolo di fattucchiere della tribù, l’automutilazione rituale sarebbe spettata anche a lui. Ma l’avrebbe fatto, avrebbe fatto tutto per il bene della comunità.
Tra gli ogunruhe, la comunità era la cosa più importante.
In quella piccola tribù erano in quattro: lui, il suo genitore Krthuskra, il cacciatore Zsogotel e Tsc’yich. Ndhi-ysth era il più giovane, nato solamente dodici anni prima. Oltre i membri della tribù, non aveva mai conosciuto altri ogunruhe, né era speranzoso di averne la possibilità in futuro: per qualche ragione che non gli era mai stata del tutto chiara, i membri della sua razza venivano uccisi a vista da altre creature che il fattucchiere Tsc’yich considerava senzienti, ma che mai avevano dato prova di un’intelligenza poco più che animale al giovane. Erano esseri piccoli ma temibili, ben più bassi degli ogunruhe. Il loro corpo era spesso ricoperto di disgustosi filamenti sporchi, così simili alla pelliccia degli animali, nella regione della testa e del volto, mentre nel resto del corpo erano quasi glabri come la razza di Ndhi’ysth. Come loro avevano due braccia e due gambe. Come loro avevano occhi (solo due, e non la corona di occhi che circondava la testa bulbosa degli ogunruhe permettendo la visione in ogni direzione). Non avevano un becco affusolato e pulito, ma una bocca piena di denti molto spesso infetti, che si staccavano prematuramente. Non avevano arti membranosi posizionati sulla schiena, simili alle ali degli uccelli ma adatti unicamente per nuotare a gran velocità. Non avevano nemmeno un doppio organo respiratore, che gli permettesse di respirare indifferentemente aria o acqua, ma Ndhi’ysth continuava a pensare che quelle creature, quegli esseri chiamati umani (o nani, nome che indicava dei loro simili molto più bassi e pelosi) non erano così diversi da loro.
Tsc’yich finì di amputarsi il braccio e in quel momento divenne nero, perdendo definitivamente i sensi. Krthuskra si avvicinò con della neve fresca tra le mani artigliate e la posizionò sul moncherino, facendo cessare il getto di sangue che ne fuoriusciva. Il fattucchiere si era già amputato entrambe le gambe in passato, come sacrificio necessario per poter eseguire le sue divinazioni. Era sopravvissuto fino a quel momento, e sarebbe sopravvissuto anche questa volta. Ndhi-ysth non vide traccia di viola scuro nella sua aura.
I tre membri della tribù lasciarono il fattucchiere riposare e uscirono dall’umida caverna naturale parzialmente invasa dalle acque situata a ridosso di una palude ghiacciata e si immersero completamente, congiungendosi al freddo fango che fungeva loro da ambiente naturale.
Krthuskra gli aveva detto che i motivi per cui gli umanoidi li odiavano erano principalmente due. Il primo è che prima che Ndhi-ysth nascesse, in un periodo talmente lontano che persino l’anziano Tsc’yich faceva fatica a ricordarselo, gli umanoidi erano stati schiavizzati dagli ibotha-oshab, una razza proveniente da un mondo lontano, oltre le stelle. Queste creature li avevano utilizzati come animali da soma per edificare le loro città sotterranee e, quando necessario, come cibo per sostenere i propri corpi immortali. Poi gli ibotha-oshab erano stati sconfitti dagli umanoidi, che si erano guadagnati la propria libertà. Gli ogunruhe provenivano dallo stesso passato di schiavitù, ma gli umanoidi credevano che la loro “strana” razza di creature magre e dalla pelle grigia fossero alleati degli ibotha-oshab.
Il secondo motivo è che gli ogunruhe possedevano un senso che era completamente estraneo agli umanoidi: la percezione dell’aura. I loro otto occhi erano in grado di vedere le sfumature colorate che circondavano tutti gli esseri viventi, sfumature che cambiavano colore a seconda delle emozioni provate. Gli ogunruhe non avevano bisogno di dimostrare fisicamente le proprie emozioni con gestualità o toni di voce, semplicemente perché erano in grado di vederle con i loro occhi. Possedevano anche diversi altri poteri come una poco potente capacità telecinetica e la possibilità di generare negli altri incubi e illusioni in grado di uccidere, estrapolati direttamente dalle paure della vittima. Era una capacità temibile, la più potente della razza ogunruhe e pressoché sconosciuta tra gli umanoidi. Una capacità derivata dalla loro grande comprensione delle emozioni.
Questi poteri rendevano gli ogunruhe una razza da temere. Il loro non era odio, non era cremisi, ma era verde scuro, era pura e semplice paura.
Gli ogunruhe avevano rischiato lo sterminio in passato e avevano dovuto premunirsi. Le loro tribù non erano mai numerose, tanto che se nascevano troppi figli, il fattucchiere poteva decretare di eliminarne alcuni appena usciti dall’uovo, per evitare di crescere troppo e attirare umanoidi ostili.
Ed era proprio quello il rischio che la tribù di Ndhi-ysth stava correndo in quei giorni. Andando a caccia di orsi, Zsogotel aveva avvistato una colonia di umanoidi che si era accampata a solo qualche vallata innevata di distanza. Per lo più nani e qualche umano, vestiti di pelliccia e armati di asce d’osso e clave di pietra. Ma la cosa più pericolosa era che loro avevano visto lui.
Era tornato alla palude bruciante di rosso, anche se l’arguto Ndhi-ysth era stato in grado di percepire delle punte di verde scuro dentro di lui.
Quando il cacciatore aveva comunicato agli altri la notizia, Ndhi-ysth era diventato di un verde scuro così profondo che per poco non era diventato nero. Temeva che prima o poi quel pericolo sarebbe giunto e aveva il terrore che la sua tribù venisse distrutta e lui fosse l’unico superstite. Non aveva mai avuto molta compagnia, ma non era mai stato veramente solo. Era ancora troppo giovane per essere in grado di creare delle uova e fecondarle, sarebbero passati ancora diversi anni prima che il suo corpo fosse stato in grado di generare gli organi riproduttivi necessari a far nascere un’altra generazione di ogunruhe.
Temeva di perdere il suo genitore Krthuskra, che aveva ancora tanto da insegnargli. Come di consuetudine, non disse nulla. Agli altri bastò lanciargli un’occhiata per comprendere le sue paura.
Così il vecchio fattucchiere aveva deciso di compiere una divinazione sul futuro, ricevere una profezia dagli stessi spiriti della terra che lo avrebbe consigliato sul da farsi, ma prima di compiere la magia aveva bisogno che le sue ferite guarissero. Non ci sarebbero voluti più di un paio di giorni. Ndhi-ysth nuotò fino al fondo della palude e si ricoprì di zolle di fango e ghiaia, decidendo di ingannare l’attesa riposando.

Alcuni giorni dopo, i membri della tribù fuoriuscirono dalle fredde acque e si posizionarono su un isolotto di terreno innevato. Zsogotel aiutò il mutilato Tsc’yich a issarsi sul terreno, poi si sedettero in cerchio. Tsc’yich posizionò al centro del cerchio formato dai loro corpi il suo braccio amputato, a cui il freddo della palude non aveva ancora fatto iniziare il processo di decomposizione. Il fattucchiere alzò l’unico braccio rimastogli ed entrambe le ali membranose al cielo, intonando un canto vibrante e profondo. Quella lingua, un insieme di gorgoglii, versi striduli e parole inarticolate era la lingua degli ibotha-oshab, che gli ogunruhe avevano ereditato. Era un gergo odiato dagli umanoidi, ma che era necessario utilizzare per invocare l’aiuto degli spiriti. Tsc’yich continuò a salmodiare fino a che non divenne di tutti i colori, un misto di emozioni incomprensibile anche agli ogunruhe che si verificava solo quando un individuo utilizzava poteri ultraterreni.
Il suo braccio amputato venne avvolto in un fuoco mistico e cominciò a consumarsi, mentre il fattucchiere assorbiva le conoscenze del futuro dall’aria stessa. Per agevolarlo, gli altri membri della sua tribù iniziarono a emettere lo stesso lugubre canto, divenendo arancio come quando ci si sente in armonia con il tutto. Ndhi-ysth sperò con tutta la forza di cui disponeva che gli spiriti non gli dessero brutte notizie, che la sua tribù poteva essere salvata e che se dovevano essere distrutti voleva morire con gli altri.
Diventava troppo verde scuro al solo pensiero di rimanere solo.
Ci vollero diversi minuti prima di completare l’invocazione, poi Tsc’yich assunse nuovamente un colore comprensibile. Era azzurro, con delle striature verde scuro. Simili rituali erano pericolosi, mettevano a repentaglio la propria vita, ma Ndhi-ysth non vide alcune macchia di viola scuro.
Tsc’yich alzò lo sguardo verso Ndhi-ysth e divenne completamente azzurro, segno della volontà ineluttabile. Aveva preso la sua decisione.

Ndhi-ysth osservò la palude dall’alto della collina coperta di pini innevati su cui si era nascosto. Vide chiaramente Zsogotel e Krthuskra seduti su alcune rocce, con delle lance d’osso strette tra le mani. Il vecchio Tsc’yich doveva essere lì da qualche parte, magari nascosto tra alcuni cumuli di fango o appena sotto il pelo dell’acqua, pronto a utilizzare la sua letale magia quando gli umanoidi avessero deciso di attaccare.
Era ormai questione di ore, Ndhi-ysth lo sapeva bene. Tsc’yich era venuto a sapere dagli spiriti che entro tre giorni avrebbero portato morte sulla tribù. Per lui, Zsogotel e Krthuskra non ci sarebbe stato scampo, nemmeno nel caso avessero tentato la fuga. Solo Ndhi-ysth avrebbe potuto salvarsi, ma solamente se gli altri membri della tribù gli avessero coperto le spalle combattendo e morendo per lui.
Il più grande incubo di Ndhi-ysth era giunto e lui non aveva potuto fare nulla per opporsi a quella sorte.
Durante quegli ultimi tre giorni, il genitore gli aveva fatto proseguire la sua formazione spiegandogli tutte le cose che avrebbe dovuto fare per sopravvivere, svelandogli i segreti della riproduzione, dicendogli come avrebbe dovuto fare per congiungersi agli spiriti come il loro fattucchiere.
Ndhi-ysth sapeva che avrebbe avuto ancora molto da imparare, ma non c’era stato tempo. Sarebbe andato la fuori, sarebbero dovuti passare ancora trent’anni prima di diventare in grado di generare delle uova. Per i prossimi trent’anni sarebbe stato solo.
Trascorse quei tre giorni nel verde scuro più assoluto e disperato, mentre il suo genitore e gli altri due ogunruhe univano rosso e azzurro, animati dalla volontà di combattere fino alla fine per proteggersi dall’estinzione.
Sarebbe dovuto andarsene già da ore, ma non ce l’aveva fatta. Voleva vederli fino alla fine, voleva vedere le loro aure tingersi di viola scuro. Quei pochi minuti l’avrebbero accompagnato per gli anni a venire, sarebbero stati minuti preziosi trascorsi con loro. Minuti che avrebbe ricordato in eterno nella solitudine che lo attendeva. Minuti in cui la sua aura avrebbe potuto tingersi di rosa, il colore dell’affetto e della devozione che provava per loro, un’ultima volta.
Li vide arrivare dalla valle antistante la palude: erano venti umanoidi dall’aspetto brutale, armati di lance affilate e temibili asce dalla lama di pietra. Nei loro capelli erano intrecciate decorazioni in osso e sassi, usanza che gli ogunruhe, così candidi e magnifici nei loro corpi glabri e nudi, ritenevano brutali. Un alone rosso avvolgeva l’intero gruppo di umanoidi, decisi a marciare e a uccidere qualsiasi creatura diversa da loro avessero incontrato sulla strada.
Zsogotel e Krthuskra si alzarono e si posizionarono in difesa con le lance. Tsc’yich strisciò sulla neve e iniziò a salmodiare gli spiriti con la sua voce vibrante. Essi risposero e la neve iniziò a scendere dalle colline circostanti seppellendo alcuni umanoidi.
I bruti si spaventarono, ma continuarono la loro avanzata. Ora nei loro cuori non albergava più solo il rosso, ma un sentimento ancora più temibile, il blu notte, la vendetta.
Quando i primi furono a portata delle lance dei due ogunruhe, essi colpirono dilaniando le loro carni. Zsogotel lacerò la giugulare di un umano vestito di pelle di mammut facendo scattare il becco, poi venne ferito alla gamba da un colpo d’ascia.
Tsc’yich invocò nuovamente gli spiriti, che modellarono l’acqua della palude in fredde braccia tentacolari che afferrarono due nani stritolandoli.
Il suo genitore Krthuskra venne colpito dai giavellotti scagliati da alcuni umani e venne trafitto. Il suo continuo cambiamento di colore, da bianco a nero, da rosso a viola scuro, rese nera anche l’aura di Ndhi-ysth, che però si fece forza e si costrinse a non perdere i sensi.
Voleva stare con loro fino alla fine. Doveva farlo.
Un nano armato di una gigantesca ascia di pietra raggiunse Tsc’yich, che stava rannicchiato tra alcune rocce, e iniziò a mutilarlo a colpi di ascia. Il viola scuro sopraggiunse quasi istantaneamente. Il vecchio fattucchiere era stato il primo a cadere.
Krthuskra durò solamente qualche secondo di più. Riuscì a trafiggere un umano al petto e poi un giavellotto scagliato da un nano a poche decine di metri di distanza gli si conficcò nel cranio bulboso, facendoglielo esplodere. Fu viola scuro anche lui, poi la sua aura si dissipò.
Perdere un genitore era doloroso, ma nella tribù tutti erano stati genitori per Ndhi-ysth in egual modo. Di nuovo, il giovane rischiò di divenire nero.
Zsogotel riuscì a uccidere altri cinque uomini prima di cadere. Dovettero circondarlo, recidergli le ali con dei colpi di ascia ben assestati e trafiggerlo con le lance diverse decine di volte prima che il suo corpo scheletrico ma straordinariamente resistente smettesse di muoversi.
Viola scuro. Ndhi-ysth aveva visto abbastanza. Si voltò, scappò nei boschi lasciando tutta quella morte alle spalle.
Avrebbe dovuto vivere senza di loro.
Corse per ore, procurandosi numerosi graffi a causa dei rami taglienti e carichi di neve.
Verde scuro.
Sarebbero passati trent’anni prima che fosse stato in grado di generare un altro ogunruhe.
Verde scuro.
Avrebbe dovuto cacciare, dormire, mangiare solo con la compagnia di sé stesso. Forse avrebbe potuto non farcela.
Verde scuro.
Tanto sarebbe valso morire direttamente.
Il verde era così scuro che Ndhi-ysth non aveva mai visto l’eguale.
Continuò a correre fino a che il suo apparato respiratorio fu in fiamme, i suoi due cuori battevano all’impazzata, le aure degli alberi si mescolavano a quelle degli animali in tinte di nero.
Il verde scuro di Ndhi-ysth si tramutò in viola scuro.
Capì.

Stava fissando negli occhi Tsc’yich. Era seduto in cerchio con i membri della sua tribù, il vecchio fattucchiere aveva appena finito di compiere la sua divinazione, dopodiché, mosso da una volontà incrollabile di far sopravvivere la sua razza, l’aveva ucciso facendogli vivere il suo incubo più terribile.
Ndhi-ysth si portò una mano al petto. I suoi due cuori avevano smesso di battere. Gli spiriti avevano dato a Tsc’yich la comprensione degli eventi futuri, tale per cui lui aveva deciso che l’unico modo per far sopravvivere la specie era di liberarsi dell’anello più debole della loro catena. Forse gli spiriti gli avevano rivelato che avrebbero potuto salvarsi solamente in questo modo. Ndhi-ysth non riuscì mai a comprendere il perché, ma non lo biasimava, sapeva che la specie era più importante del singolo individuo. Per gli ogunruhe la comunità era tutto e riuscì finalmente a provarlo divenendo viola scuro.
Era grato per ciò che il fattucchiere aveva fatto. Gli aveva permesso di vivere, anche se solo nella sua mente, gli ultimi giorni con la sua tribù. Gli aveva permesso di imparare cose che non avrebbe mai imparato, anche se non gli sarebbero mai servite a nulla.
Gli aveva permesso di non rimanere solo.
Ndhi-ysth osservò con attenzione Zsogotel e Krthuskra. Anche loro avevano capito e le loro aure si erano tinte di rosa in un ultimo, disperato abbraccio ad un compagno perduto.
Poi si accasciò e tutto quanto si fece viola scuro, definitivamente.
Viola scuro non era morte. Viola scuro era gratitudine.