mercoledì 1 agosto 2012

Il Cacciatore e il Burattino


Quando il cacciatore giunse al trotto a Villasola era quasi sera. Il paese, abitato da meno di venti anime e consistente di una semplice piazza centrale circondata da un paio di casolari, tra cui la casa del borgomastro, appariva deserto. Al centro della piazza era posizionata una forca in legno alta cinque metri, a cui un cadavere era appeso per il collo. Doveva essere una donna, ma il volto, quasi completamente sfigurato dai corvi e da altri uccelli necrofagi, era irriconoscibile.
Quello ovviamente non era il luogo dove viveva tutta la popolazione. Buona parte di essa abitava in alcune cascine distanti pochi chilometri. Il cacciatore le vide riflettersi nell’acqua stagnante delle risaie, che al tramonto riluceva di una particolare bellezza.
“C’è nessuno?”, chiese a voce alta, ma non ottenne risposta.
Il suo cavallo sbuffò, stanco per il lungo viaggio. Da quando erano partiti, quattro ore prima, non gli aveva ancora concesso una sosta. Era estate e la temperatura che si percepiva era molto alta a causa dell’umidità delle risaie.
Il cacciatore smontò e condusse la bestia tenendola per le redini ad un vicino abbeveratoio, dove immerse la testa avidamente. Anche il cacciatore lo imitò e mise la testa dentro l’acqua per rinfrescarsi e liberarsi del sudore. Quando si rialzò sentì il rumore di una porta aprirsi e alcuni lenti passi avvicinarsi a lui.
Si voltò e vide un uomo giovane e robusto, dall’apparenza di un contadino, che teneva minacciosamente un forcone tra le mani. L’uomo era evidentemente spaventato e probabilmente non lo avrebbe attaccato, ma il cacciatore avvicinò la mano all’elsa della spada.
Chi t’è ti, stranier?”, chiese utilizzando il dialetto tipico della gente delle campagne.
“Eusebio Grandi, cacciatore al servizio del conte Gregorio di Vercelli. Sono qui per risolvere i vostri problemi.”
“Par fortűna che t’è rivà! – gridò il contadino, visibilmente sollevato – chi a Villasola l’è capità de tűt, ci son dei morti… l’è la maledisiun da la strega!
“Fermati un momento, di quale strega parli?”, chiese Eusebio.
Il contadino alzò un dito e indicò il cadavere impiccato, che un leggero venticello stava facendo oscillare macabramente.
“L’è cűla strega lì, l’è nen purtà aut che guai… lei e i sé bűratin!”
Eusebio alzò la mano per far fermare il contadino, che sembrava stesse per aggiungere altro nel suo dialetto che, alle orecchie di Eusebio, era quasi incomprensibile.
“Forse è meglio che parli della cosa con il borgomastro… puoi portarmi da lui?”
“Al burgumastar l’è mort… Semo rimast sulament in dudas persűn in tűt’al vilagi”, disse il contadino alzando le spalle.
“C’è qualcuno che parli la mia lingua?”
“Sì, al mè mat. Ven dent, chi t’a fè parlè con lű.”
Il contadino fece dietro-front e fece cenno ad Eusebio di entrare in casa. L’uomo lo seguì, alzando lo sguardo solo una volta per fissare il cadavere della donna.

La casa dell’uomo, il cui nome era Giovanni, era spaziosa e accogliente, per quanto l’arredamento fosse spartano. Eusebio si accomodò su una sedia e si tolse l’ampio cappello di cuoio, appoggiandolo su un tavolaccio di legno posizionato lì accanto.
Giovanni gli indicò un cesto contenente alcune mele con fare amichevole.
“Pija pur dei pűm. Mi va a ciamè Ilario.”
Eusebio afferrò una mela e inizio a masticarla lentamente. Era dolce e succosa.
Non aveva capito molto di ciò che gli aveva detto l’uomo, ma l’aveva sentito dire chiaramente la parola “burattini”. Ilario sperava che non si trattasse di loro. Avrebbe preferito affrontare un intero branco di cani selvatici che un singolo burattino. Quelle cose gli facevano paura. Istintivamente allungò la mano verso la sacca di cuoio oblunga che portava sulle spalle, contenente un oggetto che gli sarebbe servito molto più della spada nel caso avesse dovuto affrontarne uno.
Dopo pochi istanti Giovanni tornò accompagnato da un ragazzino sporco di terra che poteva avere non più di nove anni.
“Cűs chi l’è Ilario – disse Giovani – l’è l’me matoch. Lű parla pű ben che mia.”
Eusebio annuì. Pur non essendo perfettamente sicuro di cosa significasse “matoch”, il cacciatore dedusse che doveva trattarsi di suo figlio. Eusebio era arrivato dalle terre più a sud solo da pochi anni e non aveva ancora preso dimestichezza con quella strana lingua, ma avrebbe dovuto farlo, prima o poi.
Giovanni andò a sedersi e Ilario fece la stessa cosa posizionandosi su uno sgabello vicino. Il ragazzino fissò Eusebio con un’aria ammirata, come se si fosse trovato davanti una leggenda o un eroe.
“Mio padre ha detto che sei un cacciatore e che hai bisogno del mio aiuto”, disse lui.
“Sono vere entrambe le cose – gli rispose sorridendo Eusebio – non parlo molto bene la lingua delle campagne, così ho bisogno che tu mi spieghi cosa sta succedendo qui. Dove hai imparato così bene la mia lingua?”
“Mia nonna materna mi ha lasciato in eredità alcuni libri… è lì che ho imparato.”
“Roba preziosa – commentò Eusebio con tono solenne – avanti, spiegami cosa è successo qui. Il messaggero che ci avete inviato ha detto solo che alcune persone erano scomparse e si temeva che fossero stati degli animali… ma a quanto ho capito da tuo padre la situazione si è evoluta. Mi ha parlato di una strega… la donna impiccata là fuori.”
Il ragazzino abbassò la testa e Eusebio notò che si era fatto scuro in volto.
“È così infatti – iniziò il ragazzino – quella donna si chiamava Maria Espegnac. È arrivata al villaggio circa due settimane fa portando con sé una gran quantità di mercanzia. Vendeva libri, erbe mediche, utensili, vestiti… insomma, di tutto e di più. Anche se si vedeva che buona parte della roba era usata, si è comunque trattenuta in città per qualche giorno, sembrava che gli affari le stessero andando bene. Dopotutto non sono molti i mercanti che si spingono in questo paesino infestato dalle zanzare, la maggior parte tirano dritti fino a Vercelli e a noi non ci vedono neanche…”
“Quindi si è trattenuta qui per qualche giorno. Dove è stata e poi cos’è successo?”
“Sì, ci sto arrivando. Il borgomastro le ha concesso di stabilirsi nella vecchia cascina dei Bordignon, che sta a un paio di chilometri da qui, in mezzo alla risaia. Ci si arriva tramite una stradina. La prima notte è andato tutto bene, non c’è stato alcun problema, mentre la seconda notte… l’ho vista compiere dei riti di magia.”
“Tu di persona? – chiese Eusebio, visibilmente sorpreso – come mai ti trovavi lì?”
Ilario si fece rosso in viso.
“La donna vendeva anche dei giocattoli, tra le sue cianfrusaglie. Vecchie bamboli, pupazzi, soldatini di legno. Avevo visto un piccolo cavaliere in armatura che mi piaceva molto… ma quando le ho chiesto quanto costava, ha detto una cifra troppo alta per le mie tasche. Così… ecco, io… l’ho seguita fino alla casina dei Bordignon. Speravo in un suo momento di distrazione di riuscire a rubarle il pupazzo.”
Giovanni assunse un’espressione dura ascoltando le parole di suo figlio. Anche se non parlava la loro lingua, sembrava capirla. Ilario lo guardò di sottecchi e abbassò di nuovo lo sguardo, mentre Giovanni grugnì una bestemmia incomprensibile.
“Quello che hai fatto è sbagliato, ragazzino, ma non sono qui per giudicarti, sono qui per capire cosa sta succedendo. Avanti, prosegui, cosa hai visto quella notte? Cerca di essere il più preciso possibile.”
“Maria ha sistemato il carro con la mercanzia e il suo cavallo nella vecchia stalla, poi è entrata nella cascina. I piani superiori erano pericolanti, così è rimasta al piano terra, dove aveva sistemato una branda di fortuna. Io sono entrato nella stalla e ho cercato sul carro, ma non ho trovato il cavaliere in armatura. Assieme ai libri e alle altre cose che avrebbero potuto danneggiarsi rimanendo lì, l’aveva portato dentro. Così, zitto zitto, sono entrato all’interno dell’edificio. Era molto polveroso, ma ci sono abituato. Sentivo dei movimenti provenire dalla cucina, dove si era sistemata la donna. A giudicare dal rumore, stava mangiando qualcosa. Per un attimo mi era parso di sentire una voce con lei… una vocetta stridula, ma sul subito ho creduto che si trattasse dei topi, così ho aspettato che si mettesse a dormire. È passata una mezz’ora, poi non ho più sentito nessun rumore e mi sono avvicinato. Vedevo la luce del fuoco provenire dalla cucina, ma ce n’era anche un’altra, più chiara e brillante… poi ho iniziato a sentire un frastuono.”
“Un frastuono di che tipo?”
“Non so dire, sembravano delle voci… ma erano strane, un incrocio tra il rumore delle foglie secche che vengono calpestate e il sibilo di un serpente. Un rumore molto forte, comunque.”
“Poi che è successo?”
“Beh, non mi sono spaventato e ho deciso di approfittare del rumore per farmi avanti… sono un tipo coraggioso io. Ma quando sono arrivato in cucina… beh, ho avuto troppa paura.”
“Cosa c’era?”
“La donna teneva in mano un oggetto, uno specchio magico. Era sottile e grosso così, più o meno – disse il ragazzino mostrando le mani aperta a una quarantina di centimetri di distanza l’una dall’altra – ma lo specchio non rifletteva la sua immagine. Si vedevano all’interno due uomini vestiti di scuro. Le stavano parlando, era da quello specchio che usciva il rumore forte che dicevo prima. Sono fuggito. Non credo che la strega mi abbia visto uscire, ma di sicuro mi ha sentito… e lui mi ha visto.”
“Lui chi?”, chiese Eusebio.
“Uno dei suoi giocattoli. Era un piccolo pagliaccio alto trenta centimetri e dall’aria simpatica. Ma i suoi occhi brillavano di luce azzurra e mi ha fissato da sopra lo stipite della porta, prima che fuggissi… l’ho visto, ne sono sicuro, non dico bugie. Sono tornato qui e ho raccontato tutto a papà. Lui me le ha date di santa ragione per aver tentato di rubare e poi è andato a informare il borgomastro. Quella stessa notte sono andati a prendere Maria e all’alba del mattino successivo l’hanno impiccata con l’accusa di stregoneria.”
“E la sua merce? Il pagliaccio con gli occhi azzurri?”
“Tutta la sua mercanzia è stata recuperata e bruciata, tranne lo specchio magico e il pagliaccio… loro sono spariti.”

Nel frattempo era calata la notte e Giovanni aveva offerto ad Eusebio di riposare nella stalla. Le innumerevoli zanzare sarebbero state un bel fastidio, ma Eusebio ci aveva quasi fatto l’abitudine: bastava non grattare i morsi ed evitare di accendere luci. Accompagnò dentro la stalla il suo cavallo e, a parte un paio di galline addormentate, si trovò completamente solo.
Rifletté su cos’altro gli aveva detto il ragazzino: dal giorno in cui Maria era stata impiccata, la gente di Villasola aveva cominciato a sparire. La prima vittima era stata una giovane mondina di nome Elisa, ma si era pensato che fosse stata morsa da una biscia d’acqua o fosse affogata dentro una risaia. Quando le sparizioni diventarono tre, cominciarono a dare la colpa ad un branco di cani selvatici. Alla quarta, dopo aver constatato che nessuno aveva sentito ululati nelle vicinanze, avevano iniziato a dare la colpa ad una maledizione della strega. Nessuno tranne Giovanni aveva creduto alla storia del pagliaccio raccontata da Ilario: credevano se lo fosse semplicemente inventato, oppure che nel momento di panico avesse visto cose che in realtà non c’erano.
Eusebio era sicuro che il ragazzino aveva detto la verità, perché in passato era stato costretto ad affrontare altre marionette assassine, impazzite e assetate di vendetta per la morte del loro padrone.
Ilario gli aveva anche detto che, per sicurezza, la vecchia cascina dei Bordignon, dove aveva alloggiato la strega, era stata data alle fiamme. Ciò non era bastato per fermare la serie di omicidi, la cui ultima vittima era stata il borgomastro, ritrovato quella stessa mattina con la gola tagliata nel letto di casa sua.
Giovanni e Ilario si erano chiusi in casa e così avevano fatto tutti gli altri abitanti di Villasola: era molto probabile che durante la sua caccia, Eusebio non avrebbe trovato nessuno a lavorare nei campi. Il miglior modo per cacciare i burattini era attirarli con un’esca, esattamente ciò che avrebbe fatto quella notte.

Il cacciatore si svegliò di soprassalto. Si era posizionato nel soppalco sopra la stalla e stava dormendo della grossa già da qualche ora, ma il rumore dei nitriti di terrore del suo cavallo gli fece scrollare di dosso la sonnolenza in un batter d’occhio. Strisciò silenziosamente fino alla balaustra e osservò al piano inferiore. La bestia stava scalciando mentre tentava di liberarsi di una piccola figura umanoide che gli si stava arrampicando su una zampa. Era alta circa trenta centimetri e aveva un costume bianco da clown macchiato di terra e fango, un cappello a punta con un pon pon azzurro sulla cima, naso rosso a palla e un sorriso divertito. I suoi occhi, però brillavano di una terribile luce azzurra. Tra le mani teneva un grosso coltello da macellaio, che utilizzò per ferire il cavallo alle zampe. Si arrampicò con la grazia di un ragno sulla sua schiena e gli piantò il coltello nel collo possente. Il cavallo si imbizzarrì e dopo pochi istanti crollò al suolo in un lago di sangue.
Dannazione alla vecchiaia, come ho fatto ad addormentarmi?, imprecò mentalmente l’uomo.
Eusebio strisciò fino alla sacca di cuoio che aveva posizionato poco lontano, ma il soppalco scricchiolò rumorosamente. Eusebio strinse i denti.
Il pagliaccio alzò la testa e i loro sguardi si incrociarono. Emise un suono gracchiante, poi corse fuori dalla stalla ad una velocità impossibile per le sue corte gambe.
“Dannazione!”, imprecò il cacciatore. Afferrò la sacca di cuoio e la spada e saltò giù dal soppalco. Osservò per qualche istante il cavallo ammazzato e strinse i denti con rabbia. Ora era una questione di principio, doveva prendere quell’affare. Il conte l’avrebbe pagato con moneta sonante, così non solo avrebbe comprato un cavallo nuovo, ma avrebbe avuto di che vivere per almeno un paio di mesi.
Una volta uscito nella piazza del paese si guardò intorno. Il terreno era fangoso e percorso da piccole orme che la luce della luna rendeva perfettamente visibili ai suoi occhi. Si mise a seguirle lungo alcuni sentieri, fino a che non scomparvero ai margini di una risaia allagata. Probabilmente la creatura si era immersa nell’acqua.
Eusebio però aveva imparato a non sottovalutare l’intelligenza di quegli esseri. Si guardò intorno, cercando i suoi occhi luminosi che non promettevano altro che odio, ma fortunatamente non li vide.
Quegli affari hanno bisogno di sostentamento, ragionò Eusebio, ma dove può trovare una cosa del genere qui in giro?
In lontananza vide i ruderi della vecchia cascina dei Bordignon, ormai ridotta ad uno scheletro carbonizzato. Aveva intenzione di setacciarla l’indomani mattina nel caso il burattino non si fosse presentato, ma ormai si era svegliato, così si incamminò in quella direzione. Decise di passare in mezzo alle risaie, strisciando nell’acqua fangosa che gli arrivava fino alle ginocchia, circondato dal gracidio delle rane.
Se non altro, il burattino avrebbe fatto fatica a sentirlo arrivare.
Eusebio sperò che non ce ne fosse più di uno, ma subito dopo scosse la testa, ritenendolo improbabile: da quello che aveva visto quando il pagliaccio aveva assalito il suo cavallo, era completamente impazzito. Se ci fosse stato un altro burattino, probabilmente si sarebbero distrutti a vicenda.
Strisciò nel fango fino a che non giunse ai margini del cortile della cascina. Nell’aria c’era ancora un forte odore di legno e mattoni bruciati.
“Dove ti sei cacciato, piccolo bastardo?”, sussurrò il cacciatore estraendo la spada. Vide per un attimo due occhi luminosi fissarlo da sotto le macerie, poi il pagliaccio sbucò e gli corse incontro emettendo un verso stridulo. Eusebio portò la spada davanti a sé e colpì con un fendente, ma il burattino fu più veloce e riuscì a schivarlo. Si avvicinò quel tanto che bastava per ferirlo alla caviglia con il coltello da macellaio.
Eusebio calò di nuovo l’arma e lo colpì alla testa, ma quell’affare era dannatamente duro e l’attacco non sortì alcun effetto fisico, anche se sicuramente bastò a spaventarlo. Il pagliaccio corse verso le macerie della cascina e si nascose al loro interno.
Il cacciatore esaminò la ferita alla gamba: fortunatamente si trattava di un graffio, le pezze di cuoio  bollito che portava sotto le braghe avevano fatto in modo che quel mostro non gli recidesse un tendine.
Si mosse lentamente fino alla cascina: gli occhi luminosi erano spariti, ma era sicuro che quello fosse il rifugio del burattino. Spostò alcune assi di legno bruciato fino a che non riuscì a liberarsi la via fino ad una piccola botola che era situata sul pavimento.
Una cantina, pensò, come supponevo.
Aprì la botola e puntò la spada nell’oscuro condotto. C’era una vecchia scala a pioli che portava al livello inferiore. Eusebio aprì la sacca, estrasse una lanterna ad olio e la accese, poi scese lentamente le scale, saggiando la resistenza di ogni singola asse.
La cantina puzzava di chiuso e umidità. Al suo interno, Eusebio vide alcune scatole fradice, un paio di vecchie botti e poco altro. Si guardò intorno con circospezione, cercando di individuare il burattino.
Sentì un verso stridulo provenire da dietro una botte: si stava nascondendo. Con il colpo alla testa che gli aveva rifilato pochi minuti prima doveva averlo ferito molto più gravemente di quanto credesse.
Eusebio rinfoderò la spada e afferrò un secchio impolverato poco distante. Era vuoto, proprio quello che gli serviva.
Si avvicinò fino ad arrivare nei pressi del rumore ronzante e per un attimo vide lo scintillio degli occhi del pagliaccio. L’aveva in pugno.
Con un calcio spostò la botte dietro cui la creatura si era nascosta e con uno scatto di entrambe le mani la intrappolò all’interno del secchio. La creatura si dimenò tentando di uscire, Eusebio la sentì tirare coltellate alla parete di legno che lo imprigionava per tentare di aprirsi la via. A meno di mezzo metro da lui, era appoggiato a terra il luminoso specchio magico della strega, la cui immagine che vi veniva riflessa era un meraviglioso paesaggio di colline verdeggianti.
“Non mi scappi più, bello”, ghignò Eusebio, che si rialzò appoggiando un piede sopra la gabbia del suo nemico.
Il cacciatore aprì la sacca di cuoio ed estrasse lo IEM-4356, un fucile a impulsi elettromagnetici. Quel tipo di armi, costruite nel lontano 2023, non danneggiavano le creature viventi ma emettevano impulsi in grado di distruggere qualsiasi circuito elettronico.
“Come si diceva nei vecchi videogiochi, burattino? – disse Eusebio puntando il fucile – Game Over.”
Sparò con il fucile in direzione del secchio. L’onda elettromagnetica emise una luce bluastra e a Eusebio si rizzarono i capelli in testa, poi il secchio smise di muoversi.
Il cacciatore lo rimosse con cautela. Quel tipo di armi era necessaria per disfarsi dei burattini, ma aveva un difetto: per ricaricarsi richiedeva almeno 24 ore attaccata ad una presa di corrente. Eusebio non avrebbe avuto a disposizione un secondo colpo.
Il piccolo pagliaccio giaceva immobile e i suoi occhi avevano smesso di scintillare definitivamente. Il cacciatore lo afferrò con delicatezza, esaminò il taglio che il colpo di spada gli aveva inflitto sulla testa e gli strappò di dosso il vestito cucito per farlo sembrare un comune pupazzo. Si trovò tra le mani un piccolo robot di acciaio e gomma nera, sul cui torso era stampigliata la scritta ISAAC04.
Dannati modelli difettosi, è colpa vostra se la gente ha paura della tecnologia, pensò Eusebio.
L’uomo aveva studiato la storia su alcuni libri, ma la maggior parte delle persone non era a conoscenza di ciò che era successo meno di cent’anni prima: dopo la crisi economica mondiale del 2013, c’era stato un nuovo periodo di crescita basato sull’innovazione tecnologica, che era culminato con una nuova guerra mondiale per la conquista delle ultime fonti di petrolio e delle riserve di minerali preziosi in Africa. La guerra aveva fatto miliardi di morti e interi continenti si erano distrutti a vicenda. Dopo trent’anni di lotta senza quartiere, la tecnologia era semplicemente stata bandita per favorire la nascita di un nuovo di ritorno al passato. Un’era di stampo medioevale, senza dubbio più pura e semplice rispetto all’oscuro periodo di monopolio economico da parte delle superpotenze mondiali.
Sfortunatamente alcuni antichi reperti tecnologici esistevano ancora ed era compito dei cacciatori come lui recuperarli e, se ritenuti pericolosi, distruggerli. Proprio come quel piccolo robot, un modello che poteva essere impostato per servire un singolo padrone ma i cui programmi di routine generavano decine di conflitti che sfociavano in una furia omicida se questi passava a miglior vita. La maggior parte delle persone credevano che quegli oggetti fossero magici, mentre le streghe e gli stregoni altri non erano che quei rari individui che avevano recuperato vecchia tecnologia ed erano in grado di farla funzionare.
Eusebio osservò lo “specchio magico” da cui il robot stava per trarre nutrimento tramite un apposito cavo, un vecchio notebook dei primi anni del 2010, un vero pezzo d’antiquariato, a sua volta collegato ad una presa di corrente sul muro della cantina, che riceveva ancora energia per chissà quale miracolo.
Il cacciatore prese il notebook e aprì un file sul desktop. Partì un vecchio filmato di due persone che parlavano. I riproduttori audio erano danneggiati e ciò che dicevano era incomprensibile, ma di sicuro il conte Gregorio l’avrebbe pagato bene per quella rarità.
Eusebio lo spense e lo mise nella sua sacca di cuoio, contenente decine di altri oggetti preziosi rubati ad un passato che non c’era più, poi uscì dalla cantina per tornare alla stalla e godersi il meritato riposo del cacciatore.