martedì 30 novembre 2010

Passare il Segno


Mi ci era voluto diverso tempo per decidermi, ma alla fine ero giunta ad una conclusione: sarei andata a trovarlo quella notte stessa. Che gli altri dicessero pure quello che volevano, che sparlassero pure di me.
“Cristina, lo sai che non si fanno queste cose, non si va a trovare un ragazzo in piena notte. Non è educato, ecco.” Questo me l’aveva detto mia nonna Maria Rita. Ma si sa che gli anziani sono legati a tradizioni di un tempo antico, troppo passato. Quando lei era giovane, quello che poi è diventato il nonno doveva farsi più di dieci chilometri a piedi per andarla a trovare. E lei? Non ha mai osato fare una cosa del genere. Cavalleria di una volta, ma i tempi sono cambiati, sono nata in un mondo diverso, e avevo intenzione di godermi la notte come mi pare e piace! Dopotutto Marcello è un ragazzo d’oro, cosa avrebbe mai potuto farmi? E soprattutto, anche avesse reagito male, come avrebbe potuto farmi qualcosa? A me, il suo dolce angelo?
Per cui quella gelida notte di novembre mi trovavo davanti a casa di Marcello. Tirava un forte vento e la neve stava per decidere di lanciarsi giù dalle nuvole bianche e vaporose. Erano quasi le due, ma dalla finestra di camera sua, al secondo piano di una piccola villetta a schiera, brillava ancora la luce di una lampada. Povero Marcello, come al solito doveva essersi addormentato sul letto mentre studiava per il prossimo esame universitario. Psicologia era una dura materia.
Mi avvicinai alla porta con passo silenzioso. E se non avesse gradito la mia visita? E se si fosse spaventato? Beh, era troppo tardi per tornare indietro. Mi infilai in casa e sgattaiolai al piano superiore. I suoi genitori stavano già dormendo della grossa nella camera da letto. Tipi simpatici, ma chissà cosa avrebbero detto se mi avessero trovata qui a quest’ora!
Arrivai in camera sua e lo vidi: ci avevo visto giusto, Marcello si trovava riverso sulla scrivania, con il volto appoggiato sopra un pesante libro aperto, e stava dormendo della grossa. Guardai il suo bel volto, incorniciato da capelli castani. Stava dormendo così beatamente che ero indecisa se svegliarlo. Passai forse diversi minuti ad ammirarlo, quando fu lui ad aprire lentamente gli occhi.
Per un attimo assunse un’espressione allibita. Io gli sorrisi in maniera materna. Si mise a sedere sulla sedia, ancora incredulo per la mia presenza.
“Cristina? – disse, sottovoce – che ci fai qui? Sto sognando?”
Sorrisi divertita.
“Sì, stai sognando. È tutto un sogno”, gli dissi.
“Anche se è un sogno è bello vederti. Come stai?”, rispose. Il tono di voce era ancora incredulo, ma ora appariva molto più rilassato.
“Bene. Più bene di così non penso che si possa.”
Mi avvicinai e lui, pur rimanendo seduto, ruotò la sedia da computer rivolgendola verso di me. Mi sedetti a cavalcioni sulle sue ginocchia, guardandolo negli occhi.
“Ho poco tempo – dissi, toccandogli il volto con le mani – qualcuno potrebbe accorgersi della mia assenza.”
“Hai le mani fredde”, rispose lui.
“Fuori fa freddo – dissi – riscaldami.”
Dopo lungo tempo, provai sensazioni fisiche. Il nostro primo bacio fu timido, lui si ritrasse per qualche secondo, poi mi baciò con passione. Le sue mani si appoggiarono sui miei fianchi, percorsero la mia schiena. Tutto sembrava essere attutito, ovattato. Ma finalmente lui era di nuovo con me. Continuammo a baciarci, poi lui si alzò e mi portò tenendomi in braccio verso il suo letto. Io lo guardavo fisso negli occhi.
“Un sogno, non è vero?”, mi chiese di nuovo.
Non risposi. Lo presi per il colletto della maglia e lo trascinai giù, verso di me. I miei sensi si annullarono quasi del tutto, mentre la mia mente correva e si elevava ad uno stadio superiore. Sentivo le sue mani che percorrevano il mio corpo, mentre io facevo lo stesso con le mie. Lui era caldo, quasi bollente. Le mie mani continuavano ad essere gelide. In capo a pochi minuti i nostri vestiti non c’erano più e a proteggerci dal freddo c’erano solamente le coperte. Tutto avvenne in maniera veloce, ma ai miei occhi esageratamente lenta. Quando tutto avvenne mi annullai: non ricordavo più quello che ero. Ricordavo solo di essere viva per la prima volta dopo tanto tempo.
Ci accasciammo stremati l’uno sull’altro. Lui aveva gli occhi chiusi, ma mi stringeva forte.
“Sei ancora fredda”, disse sorridendo.
“Mi dispiace, non posso farci niente…”, risposi io, sorridendo e lacrimando allo stesso tempo.
Alzai lo sguardo verso di lui e poi il mio occhio cadde sul comodino di fianco al letto. Fotografie incorniciate. Foto di Marcello insieme ad un’altra donna. Forse poco più grande di lui, alta, dai capelli biondi. Foto dove si baciavano. Foto da fidanzati.
“E quella chi è?”, gridai.
“Quella? Chi?”, rispose lui sorpreso.
“Quella!”, dissi, mettendomi a sedere mentre indicavo le foto.
“Quella… quella è Ludovica, la mia ragazza…”, disse Marcello, serio.
“La tua ragazza? La tua ragazza? Pensavo di essere io la tua ragazza!”, urlai.
“Cristina, tu eri la mia ragazza… ma tu sei morta”, rispose lui.
“Pensi che questa sia una giustificazione? Solo perché un tir mi ha schiacciato pensi che io non possa più essere la tua ragazza? Mi tradisci così! Sei solo un bastardo!”
“Cristina, aspetta, ma questo non è un sogn…”
Non gli diedi il tempo di finire la frase che fluttuando e passando attraverso le pareti mi fiondai fuori da casa sua. La neve ora stava cadendo della grossa.
Aveva passato il segno. L’avevo fatto anche io morendo, ma non era una giustificazione valida. Quel bastardo. Avrei dovuto dare retta alla nonna, che sicuramente ora era molto preoccupata non vedendomi tornare.
“Bastardo, non voglio vederti mai più”, urlai alla casa, mentre lacrimavo. Poi fluttuai verso il cielo piangente, per tornare a casa della nonna.

[Esercizio: scrivi una scena d'amore in prima persona ma con protagonista una persona di sesso opposto al tuo.]

lunedì 1 novembre 2010

La Strategia dei Fiori di Ciliegio


Il Capitano Sekigawa si trovava seduto a gambe incrociate sul ciglio della collina erbosa e fissava con sguardo severo l’ampia Vallata dei Ciliegi che si stagliava sotto di lui, mentre una pallida luna brillava nel cielo notturno. Una vera e propria meraviglia della natura agli occhi degli uomini, ora che i ciliegi erano in piena fioritura e centinaia e centinaia di piccoli petali rosa si muovevano sospinti dal vento. Sembrava quasi che l’intera vallata fosse viva, come un unico organismo vivente che lentamente respirava, un neonato appena venuto al mondo.
“Capitano…”
Sekigawa spostò lo sguardo dalla magnificente bellezza della valle e, sistemandosi le ottiche, portò lo sguardo verso l’uomo che aveva parlato. Il suo secondo in comando, il Tenente Izumi.
“Non dovresti riposare, tenente?”, disse riportando lo sguardo verso il paesaggio.
“Questo spettacolo mi mozza il fiato, capitano. Il resto degli uomini sta dormendo come se fossero in letargo, ma io non ce la faccio.” Sekigawa notò che la voce di Izumi era tremolante, insicura.
“Qual è il problema, tenente? Sento del nervosismo nella tua voce.”
“Domani dovremo scendere laggiù”, disse prima di bloccarsi.
“Sì, è così. Con le prime luci dell’alba caleremo sulla vallata. I banditi che stanno flagellando la satrapia di Fong Bei si nascondono laggiù. Sono una dozzina, a quanto ci hanno riferito. Niente che non possiamo affrontare.”
“Lo so capitano. Ci hanno pagato per farlo.”
“Allora qual è il problema?”, rispose di scatto Sekigawa, voltandosi nuovamente verso Izumi.
“Il problema è che ho paura capitano. I vostri cavalli e i vostri uomini marceranno su quel paesaggio incontaminato. Le piante di ciliegio ne verranno contaminate, distrutte. Se un Dio veglia su quella valle, ne sarà certamente furioso.”
Sekigawa si alzò in piedi e si avvicinò a Izumi, posandogli le mani sulle spalle, come per rassicurare un vecchio amico.
“Ed è per questo che non siamo scesi durante la notte. I vili agiscono lontano dalla luce. Noi caleremo come una forza pacificatrice, spronati dalla luce del sole che sorge. I banditi si arrenderanno alla nostra magnificenza e nemmeno un singolo petalo di ciliegio sarà calpestato. Ricordatelo sempre Izumi: la Compagnia della Tigre Orientale porta con sé delle armi per far sì che nessuno debba mai più usarle. E anche se dovesse succedere qualcosa laggiù, un imprevisto che faccia macchiare di sangue quel sacro terreno, allora ti prometto che se sarà necessario dedicherò il resto della mia vita per riparare quel torto.”
Izumi annuì verso il suo capitano, ora visibilmente rassicurato.
“E se il Dio dei Ciliegi si adirasse?”, chiese.
“La mia offerta basterà a placare qualsiasi furia”, rispose sicuro Sekigawa.
“Se fossimo sull’Isola Benedetta – rispose ridendo Izumi – una frase del genere vi sarebbe costata l’accusa di eresia!”
“Se fossimo sull’Isola Benedetta – disse serio il capitano – un’accusa di eresia sarebbe l’ultimo dei miei problemi.”

[Esercizio della settimana: scrivi un dialogo!]
[Sì, ho usato l'ambientazione di Exalted.]

lunedì 25 ottobre 2010

Rabbia


La rabbia è senz’altro una delle emozioni più antiche e primitive dell’uomo. Presente in pressoché tutti gli animali, si manifesta quando qualcuno o qualcosa verso cui non si prova alcun tipo di paura si contrappone al proprio bisogno. A quel punto scatta un meccanismo di aggressione motivato a farti ottenere il tuo bisogno a tutti i costi. In alcuni casi, si sfoga semplicemente nel proprio stomaco o in un’ira immotivata verso il resto del mondo, anche verso coloro che nulla c’entrano con i propri problemi. A seconda che si abbia ottenuto il proprio obiettivo o meno, la rabbia si conclude in sentimenti che possono variare dalla soddisfazione all’insoddisfazione e, in molti casi, vergogna per aver perso il controllo.

Erano mesi che le fissavo. Quelle sbarre, quelle dannate sbarre. Fredde, immobili, con un solo scopo: tenermi ingabbiato. È colpa tua, mi avevano detto. Sei stato stupido a farti beccare con le mani nel sacco in quel modo. La rapina alla gioielleria era andata male, questo era vero, ma allora perché ero l’unico dei miei complici a trovarmi rinchiuso?
Quelle sbarre, quelle fottute sbarre. Avranno visto un sacco di altra gente prima di me. Eppure rimangono sempre lì, e si oppongono alla mia libertà. E allora vaffanculo! Prima o poi avrò la forza di strapparle, di piegarle sotto la mia forza e andarmene finalmente libero. Cazzo, ma cosa vado a pensare? Cazzo, è più probabile che arrivi la fine del mondo che succeda una cosa del genere. Due metri per tre di cella, mura e delle sbarre. Vi distruggerò, vi limerò, farò di tutto per andarmene.
Non potrete tenermi qui per sempre.

[Esercizio della settimana: descrivi un sentimento in modo analitico, poi descrivi un oggetto "sterile" con sentimento]

giovedì 21 ottobre 2010

Un ragazzo alla stazione legge un libro e tira un forte vento



Il ragazzo dai capelli rossi era scappato di casa. Viveva in una fattoria, ma non desiderava quella vita, non desiderava lavorare nei campi con gli animali sporchi di terra senza dare altro significato che a quello. Voleva vedere, viaggiare e scoprire. Con sé, oltre qualche abito, aveva i suoi libri preferiti.
Attendeva con pazienza alla stazione dei pullman, su una vecchia panchina nel cortile esterno. Stava leggendo per l’ennesima volta La Storia Infinita, mentre il vento ne scompigliava le pagine e mandava avanti troppo in fretta la trama che già conosceva. Tutto ciò gli ricordava la sua vita: rapida e priva di mordente proprio come il vento. Il pullman in ritardo era la sua unica salvezza. Che ironia, viaggiare nella vita con tanta rapidità e ora dover attendere per un ritardo. Quel pullman però non arrivava più e lui aveva letto i suoi libri già decine di volte. Le scelte erano tornare indietro oppure continuare ad aspettare.
E lui aspetta, fino a che il vento non spazza via la polvere di ciò che rimane di lui.

lunedì 18 ottobre 2010

Scrittori & Lettori

Per una sera vediamo di fare un po' di chiarezza su come la penso.
Scrittori e lettori. Due categorie all'apparenza distinte, ma che in parte possono essere accomunate. Uno può essere un lettore e basta, ma uno scrittore deve essere per forza anche un lettore. Non può esistere altrimenti, è una cosa simbiotica. Se uno non legge, come è possibile pretendere che scriva?
Eppure internet sta facendo questo e altro per far "sviluppare" la vena scrittoria degli ignoranti. Su internet è pieno di blog di gente che scrive poesie, racconti, pensieri e, in generale, stupidaggini. Io sono uno di questi. Ma in effetti, quanta di questa gente è veramente disposta anche a leggere la sequela di stupidaggini degli altri? A me sembra che sempre più spesso tutti si improvvisino super scrittori, riempiano il proprio blog di stronzate per farsi belli e dimostrarsi superiori, ma non si interessanno al medesimo lavoro degli altri.
E allora lasciatemi dire una cosa: se sei uno scrittore sei anche un lettore, altrimenti sei solamente un coglione. Io le leggo le creazioni degli altri. Mi interesso di cosa scrivono, pensano e vogliono comunicare, se sono disposti a condividerlo con il resto del mondo. Sono disposto a commentare, fare battute, dare critiche costruttive, insultare o elogiare. Ma io leggo. E poi scrivo. Non il contrario.
O forse siamo arrivati al punto di volere ognuno per sé una piazza deserta con al centro una riproduzione in marmo di sé stessi?

domenica 17 ottobre 2010

Kebab Tonight


Evento: Sono andato ad un kebabbaro in centro, mi sono fatto fare un kebab con tutto (tranne l’insalata rossa) da portare via, l’ho pagato e me lo sono mangiato. Ma non mi ero accorto che il kebabbaro aveva messo dentro anche le patatine fritte. Poco male, va bene lo stesso.

Lo stesso evento, vissuto da: Jules Winnfield (Samuel L. Jackson nel film Pulp Fiction).
Come ti stavo dicendo, ero appena uscito da quel cazzo di bar. Era notte fonda e avevo una fame fottuta. Avevo fumato troppo, bevuto troppo e il mio stomaco si stava lamentando di tutta la merda liquida che gli avevo fatto ingerire. Era troppo tardi per trovare qualche posto aperto, così mi metto a girovagare cominciando a pensare che avrei dovuto tornarmene a casa a stomaco vuoto e riscaldarmi gli avanzi del pranzo del giorno prima. Poi la vedo, in fondo alla strada, un’insegna luminosa ancora accesa. Doner kebab, uno di quei posti più sporchi della cucina di un Burger King che si trovano abbastanza spesso in Italia. Qui in America non ce li abbiamo, lì in Italia sì. Ma in Italia la gente è abbastanza strana, sono di quelli con il sistema metrico decimale, e vanno avanti a bere cappuccino e a mangiare spaghetti tutto il giorno. Lo sai che ci mettono sugli spaghetti? La salsa di pomodoro. Non il ketchup, ma la salsa di pomodoro! Assurdo vero? Comunque, come ti stavo dicendo, entro in questo postribolo grosso come lo sgabuzzino di casa mia e un turco mi accoglie con fare sorridente. Mi chiede cosa voglio, e io gli dico che voglio un panino. Allora inizia a farmelo. C’era odore di salsa piccante che si infilava dentro i vestiti, il rotolo di carne ruotava e sfrigolava sulla griglia. Aspetto in silenzio il mio succulento panino. Lo sapevi poi che quel kebab non è assolutamente roba turca? Lo fanno in Germania, ed è solo una trovata commerciale per far lavorare i turchi nel resto dell’Europa. Se vai in Turchia e chiedi un kebab così, prima ti ridono in faccia e puntano una pistola addosso e ti rapinano lasciandoti in mutande.
Comunque, il kebabbaro mi scalda un pezzo di pane arabo, lo taglia e lo riempie di carne. Poi si avvicina e mi chiede cosa ci voglio dentro. Gli indico un paio di salse piccanti, cetrioli, pomodori e cipolle. Insalata verde, ma gli dico di non mettere quella rossa. Vedo che con la sua pinza metallica si avvicina al cestello dell’insalata rossa, ne afferra una presa e la infila nel panino. Io lo guardo contrariato, quel tipo non aveva capito un cazzo, e gli dico di nuovo che non volevo l’insalata rossa. Lui scuote la testa, fa finta di non capire e continua a mettermi insalata rossa in quel cazzo di panino! Allora io gli dico “senti, togli subito quell’insalata rossa oppure non sarà l’unica cosa che finirà dentro quel cazzo di panino”. Lui fa finta di niente e continua a chiedermi se voglio altra salsa piccante. A quel punto mi girano veramente i coglioni e tiro fuori il ferro. Glielo punto dritto negli occhi, lui mi guarda terrorizzato, non si era mai trovato una pistola puntata in faccia, si stava cagando nelle mutande cazzo! L’insalata ormai si era impastata ben bene con il resto dei condimenti ed era impossibile toglierla. E allora gli dico “mi prendi per il culo? Rifammi quel cazzo di panino senza insalata rossa oppure ti giuro che presto vedremo chi è il più negro dei due qui dentro!”. Lui a quel punto sembra capire, lascia cadere il panino per terra e tremando tutto incomincia a farmene un altro. Quando mi chiede cosa ci voglio dentro gli indico gli ingredienti e le salse e lui questa volta non sbaglia. Tutto tremante mi da il sacchetto con il panino, io prendo una coca dal frigo e gli chiedo quanto fa. Lui mi dice niente, ma io insisto e gli chiedo di nuovo quanto fa. Mi dice cinque euro. Li tiro fuori dal portafoglio, glieli appoggio sul bancone di vetro e mi allontano.
Per la strada tiro fuori il mio kebab dal sacchetto e inizio a gustarmelo. Cazzo, era davvero buono. Mangio e mangio e sai cosa ci trovo? Patatine fritte! Quello stronzo mi aveva messo dentro delle patatine fritte senza che glielo chiedessi! Questo mi ha fatto capire che se uno è un coglione non gli basta avere una pistola puntata in faccia per rinsavire, rimarrà un coglione comunque. Ma non avevo più voglia di tornare indietro. Quelle patatine tutto sommato stavano bene nell’insieme. E posso dirti una cosa: era davvero buono quel panino!

[Ecco il secondo degli esercizi del laboratorio di scrittura creativa: descrivi in poche righe un evento qualsiasi che hai vissuto durante la settimana e poi riscrivilo come se al tuo posto ci fosse un personaggio qualsiasi. Jules Winnfield può questo e altro ;)]

sabato 9 ottobre 2010

Lifeless


Fisso il foglio ancora bianco.
Quale delle seguenti sostanze è più energetica per un grammo di peso?
I miei compagni sono chini sui loro fogli. Intenti a crocettare con fare meccanico le loro risposte al test di chimica. Alcuni alzano lo sguardo come per supplicare una risposta dai secchioni della classe.
A) Proteina.
La signora Debtheas osserva la classe dall’alto della cattedra, lanciando occhiate arcigne verso tutti. Ci sorveglia come un secondino. Di quelli pronti a saltare addosso ai detenuti con l’intento di picchiarli e sfogare la loro ira repressa. Sanno che sono solo degli sporchi detenuti, e non saranno puniti per questo.
B) Lipide.
L’unica cosa che riesco a fare in questo momento è sbatacchiare la mia penna sul bordo del tavolo, producendo un suono noioso, irritante. Jeanie, che si trova a meno di un metro da me, mi lancia un’occhiata infastidita. Lei è una di quelle che ha studiato.
C) Zucchero.
Fottuta chimica. A vedere tutti i suoi atomi, le sue molecole, la sua tavola periodica, mi intristisco. Mi fanno rendere conto che questo mondo è dannatamente materiale. Solido. Reale. Sintetico. Non c’è posto per magia, fantasia, immaginazione. È un fottuto mondo sterile, privo di vita. Un po’ come la superficie di Marte. Là solo i sassi possono vivere bene. Forse loro sarebbero bravi in chimica.
D) Acqua.
Che cosa ci faccio qui? Ho davanti solo fogli bianchi, biro, camici, microscopi. Barattoli e ampolle contenenti sostanze colorate ma inerti. Mi manca il palco. Mi manca il teatro. Mi manca essere un giorno una principessa, un giorno il giullare del re, un altro giorno una ballerina su un lago di cigni.
Mi manca la musica. La musica non ha atomi e molecole. La musica c’è e basta. È viva, altro che questa roba senza vita.
Senza vita.
E) Alcol etilico.
Mancano cinque minuti alla fine del test. Il mio voto sarà uno zero. Non me ne frega assolutamente niente.
A casa me lo diranno. “Dominique, stupida ragazza, quando pensi di mettere la testa a posto e iniziare a vivere in questo mondo?”
Mai spero. È un mondo senza vita. La vita vera sta altrove.
Eppure non ho il coraggio di andarmene. Me ne resto qui, in questo ambiente sterile a battere il bordo del tavolo con la mia penna. Sperando che una melodia mi trasporti via.
Ho ancora cinque minuti. Il foglio non rimarrà bianco ancora per molto. Questa vita deve piacere a me, non agli altri. Voglio una melodia? La avrò.
Di sicuro domani chiameranno i miei genitori per un colloquio.
Come al solito reciterò la parte del mimo. Qualche gesto triste, di cordoglio. Ma in realtà sarà solo silenzio.

[Questo piccolo racconto era il primo "esercizio" del laboratorio di scrittura creativa, ovvero "scrivi un racconto su come è stata scritta una canzone". La canzone in questione è Lifeless, degli Stolen Babies, che potete trovare qui: http://www.youtube.com/watch?v=lF4wqWDpVu4. E' chiaramente opera di completa fantasia.]

giovedì 30 settembre 2010

Diario Onirico, secondo giorno

C'era un luogo sotterraneo, una sorta di base militare dove facevano esperimenti segreti, in cui era successo un casino. L'intero complesso era stato abbandonato, ed entro breve sarebbe stato sigillato in via definitiva. La compagnia proprietaria della base avrebbe pagato profumatamente per qualsiasi oggetto recuperato da là sotto. Entro, da solo, recupero dei fogli. Entro un'ora il complesso sarebbe stato sigillato definitivamente, indipendentemente dalla gente che si fosse trovata dentro. C'era qualcosa di strano là sotto, al livello 4. Decido di scendere.
Sole. Un prato gigantesco. L'ascensore mi porta fin là sotto e dei vecchietti vivevano felici in questo prato maestoso. Un complesso scuro, nero, come la torre di un mago si stagliava all'orizzonte. Dei droidi si muovono per le strade. Ci sono anime morte dentro di loro.
Me ne vado, mancano quattro minuti alla chiusura. I vecchietti rimarranno sigillati dentro: vogliono vivere in quel prato.
Riesco ad uscire dal complesso a pochi secondi dalla chiusura, con i fogli in mano, pregustandomi i milioni che avrei guadagnato.
Poi mi sono svegliato.

mercoledì 29 settembre 2010

Merda


Nessuno può vivere per sempre. Dovevo iniziare questo mio ultimo scritto con una frase ad effetto, un bell’incipit, ma come al solito sono partito con la solita stronzata iperscontata e utilizzata in almeno altre seimila opere. Pazienza, dopotutto non credo che qualcuno leggerà mai questi mie ultime parole. Non andrò a dirvi come mi chiamo. Se lo volete sapere, il nome è sulla buca delle lettere della casa. Sappiate solo che di mestiere faccio lo scrittore. O meglio, lo facevo, prima che succedesse questo puttanaio. E dire scrittore è comunque una parola grossa. Ho pubblicato qualche piccola opera. Sono finito sui giornali locali. Un piccolo libro autoprodotto. Solita roba. Se riuscite a raggiungere una libreria che non sia ancora stata incendiata, o invasa completamente da quelle cose, provate a cercare “Decusuzione”. L’ho scritto io. Se però siete donne di trent’anni, grasse e con i brufoli sul culo è meglio che non iniziate neanche. Potreste offendervi. Oh, ma a ripensarci penso che tutta la gente che non avesse un fisico perfetto sia crepata nei primi giorni. Scappare da quelle cose non è facile… eh, già, per niente.
Quando hanno iniziato a parlare di rivolte popolari alla televisione, me ne sono sbattuto. Così come quando hanno detto che per sedare queste rivolte era stata necessaria la violenza. Pace, roba del genere accade tutti i giorni. Quando hanno detto che i morti si stavano rialzando, allora ho cominciato a farmi delle domande. Dei fottuti zombie, proprio come quei film di Romero. Con la differenza che questi conservavano il loro intelletto… sono persone abbastanza normali, almeno finché la decomposizione non gli frigge il cervello. Allora iniziano a vagare per le strade in cerca di carne umana, proprio come in quei film. Se sei fortunato, prima di iniziare a sbavare e a inseguire i vivi mugugnando possono passare un paio di settimane… un mese se fa abbastanza freddo da conservare un po’ più di tempo i tessuti. Quelli nelle zone più calde non arrivano alla settimana.
Che cazzo vi devo dire d’altro, questa storia la sapete un po’ tutti. Nel giro di qualche settimana la gente ha cominciato a crepare. Gli zombie trasmettono una malattia che ti uccide nel giro di poche ore, per poi rianimarti come uno di quelli. Mi sono barricato in casa per un po’ di tempo, ma dopo diversi giorni sono riusciti a entrare.
Ora penso che avrete capito quello che è successo. Uno di loro è riuscito a mordermi. Un paio di ore dopo sono morto nel cesso di casa mia. Quando mi sono risvegliato, ho passato qualche ora a pisciarmi e cagarmi addosso: sapete com’è, quando uno muore butta fuori tutti i liquidi. Ormai siamo in autunno, comincia a fare fresco. Credo di avere ancora tre settimane, forse poco più, prima che mi flippi il cervello definitivamente. Sono già morto, solo che ancora non me ne sono reso conto. Quelli là non mi attaccheranno, ora mi considerano uno di loro. Credo proprio che dovrò godermela in questi ultimi giorni di lucidità mentale. Andrò a farmi un giro in città. Se non altro, me lo merito.
Cazzo, a guardarmi allo specchio non ho proprio una bella cera. Spero proprio che il cervello mi bruci prima che mi si stacchi il naso, o chissà che altro di peggio.

[Questo è l'incipit del personaggio che interpreterò sabato sera alla cena col personaggio. Niente di eccelso, ma spero di riuscire a fare qualcosa di abbastanza divertente :)]

sabato 25 settembre 2010

Diario Onirico, primo giorno

Faccio sogni strani per la maggior parte delle volte. Credo che sia interessante cercare di tenere una sorta di diario onirico, con i pensieri più strani che mi saltano alla mente mentre dormo. Questo è ciò che ho sognato questa notte.

Un magazzino pieno di oggetti in legno, corde, attrezzi. Anche la pareti del magazzino sono di legno. Nel complesso è molto polveroso, scuro. Un vecchio (il falegname? Anche se non so perché credo sia più giusto identificarlo come "fabbro") è legato ed imbavagliato ad una sedia. Una grossa armatura di metallo è retta su un manichino. E' della mia misura, la indosso ed esco per strada.
Un incrocio asfaltato, ma non ci sono macchine. L'armatura continua a muoversi su un fianco e mi da fastidio, comprimendomi le costole e il bacino. Proseguo e trovo dei miei amici (non ricordo chi, ma li ho identificati come amici). C'è un idrante esattamente in mezzo alla strada. Proseguiamo. I miei amici diventano dei mostriciattoli gommosi, uno viola con due occhi gialli, gli altri due verdi con un singolo occhio bianco in mezzo alla fronte. Arriva una grossa ondata d'acqua, che ci travolge. Siamo dentro l'acqua. Dall'interno di un bar ci osservano annaspare. Io penso "Facciamo l'onda corta" e l'acqua si ritira e ritorniamo a terra.

Poi mi sono svegliato.

venerdì 24 settembre 2010

Azione e Reazione

Ne stavo parlando appunto questa sera. Credenze religiose. Convinzioni su cose che non esistono e non sono dimostrabili in alcun modo. Gente che è convinta di sentire Dio. Tutto vero o tutto falso? A mio parere, tutto falso. Tutto lo fa l'autoconvincimento. L'illusione personale. Se io sono convinto di sentire qualcosa, di percepire una forza nell'aria, allora per me quella forza esiste davvero. Questa cosa vale per tutti: cristiani, islamici, buddhisti, ebrei e pagani. Non è importante che quello in cui credono esista davvero, l'importante è che lo sentano. Vaffanculo la logica, vaffanculo la scienza, vaffanculo la dimostrabilità. Se io mi convinco che uno stronzo qualsiasi ci manipoli dall'alto e vegli su di noi, allora per me quello stronzo esiste. E sono disposto ad ignorare la logica convenzionale per scendere a patti con le mie convinzioni.
Io non credo in un'entità che ci osserva dall'alto. Non credo in un Dio, in un pantheon divino o in una qualche presenza spirituale. Credo invece in una forza priva di coscienza che anima l'equilibrio della vita. Chiamiamola karma, ka, o come diavolo vi salta in mente. Chiamatela elefantino se vi va bene.
Io credo che se fai una cosa, l'equilibrio insito nella vita ristabilirà prima o poi quella cosa. Ovvero, se sei un mentecatto, prima o poi aspettati dei pali nel culo. Se sei una persona furba ed equilibrata, aspettati una vita serena. E' così facile, così logico, che anche in questo momento mi risulta assurdo pensare che ci sia qualcosa che ci guarda da sopra. Qualcosa di senziente, se non altro. Perché ci sono ancora cose che gli scienziati possono non avere scoperto, ma sono disposto a scommettere quanto volete che anche tra un milione di anni la situazione "divina" non sarà cambiata più di tanto. Anzi, se il destino vuole, tra un milione di anni la religione, la "spiritualità" non esisterà più.
Io credo in filosofie razionali, modi di vivere, non in presenze che giustificano il mio comportamento. Trovo particolarmente congeniale la filosofia (ma non la parte esoterica) della Bibbia di Satana di Anton LaVey, ovvero: fai quello che vuoi, vivi la tua vita come ti pare. Vivi libero. Ma non nuocere in alcun modo la libertà degli altri, poiché essa è cosa sacra.
Questo è quello in cui credo. La religione è un male, le filosofie di vita invece sono un bene. Se non altro, con le filosofie di vita non hai nessuna entità inesistente dietro cui ripararti e giustificare il tuo comportamento.

giovedì 23 settembre 2010

La Caccia


Il cielo, grigio e nuvoloso, era illuminato da lampi. Una sottile pioggia stava scendendo dal cielo, dritta come le mura di una fortezza. Da dove si trovava, Dolkas vedeva solo una pianura riarsa, del colore della ruggine, che si stendeva per chilometri in ogni direzione. Nonostante la fitta pioggia, non tirava un filo di vento. Certo il panorama non era dei migliori, ma da quel punto rialzato la visuale era notevole: era possibile vedere qualsiasi cosa in movimento nel raggio di diversi chilometri. Dolkas stava aspettando notizie da Glaazir, sua compagna d’arme che era andata in ricognizione. Era via ormai da diverse ore e Dolkas stava cominciando a preoccuparsi: se le fosse successo qualcosa? Se una delle pantere purpuree che stavano cercando le avesse teso un agguato? Dolkas scosse la testa, cercando di scacciare questi pensieri, ma qualcosa ci pensò al posto suo.
«Ehi capo… Qui sto cominciando a infradiciarmi troppo… penso che mi stia venendo un raffreddore…».
Dolkas si girò verso la creatura che aveva parlato. Krissenap era un goblin alto poco più di un metro, dal malsano colorito verde e dallo sguardo malefico. Era eccessivamente scheletrico anche per la sua razza, ed i denti giallastri e gli occhi infossati non lo rendevano esattamente una creatura dall’aria affidabile.
«Cosa?» pronunciò Dolkas, fissandolo con rabbia. Krissenap non sembrò cogliere lo sguardo e continuò il suo lamento sibillino come se stesse ricevendo il massimo dell’attenzione.
«Capo, ti sto dicendo che siamo sotto la pioggia da quasi due ore, Glaazir sembra essere scomparsa nel nulla e qui ci stiamo prendendo entrambi qualche brutta malattia. Inoltre il vecchio Goz sembra essere piuttosto stanco» e nel dire questa frase tirò una leggera pacca alla roccia su cui era seduto, che sembrò quasi vibrare per un attimo.
Dolkas cercò di far sbollire l’ira e rispose con tutta la tranquillità di cui disponeva. Ovviamente, ben poca. «Glaazir tornerà. È sempre tornata fin’ora e non vedo perché qualcosa dovrebbe andare storto. E poi Goz non mi sembra proprio il tipo che si stanca facilmente». Un leggero mugugno si levò dalla roccia su cui era seduto Krissenap.
«Oh capo, andiamo! Ho solo bisogno di un po’ di riposo, tutto qui! Sono quasi dodici ore che stiamo seguendo le tracce di quello stupido branco ma non ne abbiamo ancora trovato un esemplare! Sono stufo, stufo e arcistufo! Glaazir è via da due ore, non era mai stata via così tanto in vita sua! Avrà beccato una di quelle dannate pantere e ora sarà diventata la sua cena…» il goblin non fece in tempo a finire la frase perché una manata di Dolkas gli arrivò in pieno volto.
«Ora stammi a sentire topastro verde – lo apostrofò Dolkas – io mi fido ciecamente di Glaazir e delle sue capacità. Se non è ancora tornata è perché probabilmente ha avuto un contrattempo ma che è di sicuro riuscita a risolvere. Sono sicuro che sarà qui a momenti.»
«Sono già qui» gli rispose una voce. Dolkas e Krissenap si voltarono verso il sentiero roccioso giusto per vedere la mezzorchessa muoversi a passo furtivo verso di loro. Glaazir era una donna alta quasi un metro e novanta e dai lunghi capelli neri. Poteva essere considerata bella anche da un essere umano come Dolkas: spalle robuste, forme sinuose, un naso leggermente aquilino e gli occhi dallo strano colorito dorato. Le uniche particolarità che tradivano la sua eredità orchesca erano la pelle verdastra e i canini più pronunciati del normale. In questo momento stava tenendo la sua spada con la punta poggiata a terra, per aiutarsi nella ripida camminata, e aveva un piccolo taglio ancora sanguinante sulla guancia sinistra. La sua armatura di cuoio bollito era stracciata in più punti.
«Oh, finalmente sei arrivata – gridò Krissenap con la sua vocina stridula – si può sapere dove ti eri cacciata? Ti abbiamo cercata ovunque, ovunque! Hai trovato le pantere? Goz ha voglia di picchiare qualcosa, si, tanta voglia!»
«Sono felice che tu ti sia preoccupata per me, Krissenap» sospirò lei.
«Cosa è successo, Glaazir?» disse allora Dolkas.
«Ho seguito le tracce delle pantere. C’è una caverna sotterranea a pochi chilometri da qui, sembra che si siano dirette laggiù. Ho dato un’occhiata all’interno e aveva tutta l’aria di una nidiata»
«Hai visto solo pantere?» la incalzò Dolkas. Glaazir viaggiava con il gruppo solo da pochi mesi e Dolkas stava ancora cercando di metterla alla prova in tutti i modi: la mandava a fare ricognizioni, le dava qualsiasi genere di ordine e ovviamente i turni di guardia più pesanti spettavano a lei. Glaazir sembrava sopportare tutto questo in silenzio, come se fosse stata abituata a fare lavori ben più pesanti. Di sicuro era uno dei migliori elementi che il gruppo avesse mai avuto, specialmente come segugio. Dolkas era giunto alla conclusione che poteva fidarsi di lei, ma metterla sotto pressione un altro po’ non avrebbe di certo fatto male. E comunque, era impensabile affidare i turni di guardia a qualcuno di inaffidabile come Krissenap.
«Una dozzina di pantere, ma nella caverna c’erano anche tracce di demoni della criniera. Prima di appurare la cosa ho preferito tornare indietro a riferire, avevo già rischiato troppo» Dolkas la fissò per qualche istante in volto, concentrandosi soprattutto sul taglio che aveva sulla guancia.
«Ah, questo… Quando ho tentato di uscire dalla tana le pantere mi hanno bloccato. Non mi hanno visto, ma ho dovuto cercare un’altra uscita. Sono passata attraverso una serie di condotti e un imp mi ha aggredito. Sono riuscita a farlo fuori prima che urlasse troppo»
«Hai preso la testa?» stridette Krissenap.
Glaazir si limitò a lanciare un fagotto verso il goblin. Subito lui si avventò sull’involto e ne estrasse una piccola testa ancora sanguinante: era simile a quella di un goblin, ma molto più piccola, e al posto del verde aveva un malsano colorito nerastro.
«Bene, bene… Questa ci frutterà qualche spicciolo… per arrotondare i guadagni» Krissenap non fece in tempo a finire la frase che estrasse un coltello dalla cintola e si mise a togliere la pelle dal cranio dell’imp.
Dolkas lo fissò per qualche istante, poi si rivolse nuovamente a Glaazir «Hai detto che c’era un condotto secondario. Possiamo strisciare da lì e tendere una bella sorpresa alle pantere…»
«Impossibile – lo interrompette subito Glaazir – sono condotti molto stretti. Noi due possiamo anche passarci, ma per Goz è fuori discussione.»
Di nuovo la roccia su cui era seduto il goblin vibrò con violenza. Krissenap gli tirò una sberla «Sta fermo Goz! Mi fai fare danni a questo bel teschio!»
«Allora faremo così – ricominciò a parlare Dolkas – io e te passeremo per quel condotto e ci nasconderemo, mentre Krissenap e Goz passeranno dall’entrata principale causando un diversivo.»
«Cosa? Capo, sei impazzito? – stridette il piccolo goblin, lanciando via il teschio che aveva appena finito di scarnificare – Hai sentito cosa ha detto Glaazir? Una dozzina di pantere e addirittura dei leoni della criniera! Goz non se la sente di fare qualcosa di simile» questa volta, la roccia su cui il goblin era seduto non si mosse.
Dolkas si allontanò di qualche passo, in direzione del teschio che Krissenap aveva lanciato via. Quando lo trovò, si inginocchiò e lo raccolse «Non dovresti trattare così il denaro, Krissenap» disse sogghignando, ignorando totalmente le parole del goblin. Glaazir emise una risatina.
«Oh, andiamo capo! Non puoi farmi fare una cosa del genere…» supplicò Krissenap, guardando Dolkas con lo sguardo più carico di supplica che poteva esibire. Ma lo sguardo dell’umano non ispirava la benché minima compassione.
«Ho capito, ho capito! – urlò Krissenap, sbuffando mentre afferrava delle redini che sembravano essere attaccate alla roccia su cui era seduto tramite due grossi chiodi – svegliati vecchio mio… è ora di andare in guerra.»
Il golem di pietra si alzò lentamente e solo una parola fuoriuscì dalla sua bocca: «Guerra.»

Dopo pochi minuti, il quartetto si stava dirigendo verso la pianura, guidati da Glaazir. Tutti, ad eccezione di Goz, indossavano dei lunghi mantelli color ruggine, esattamente come il terreno. La pioggia continuava a scrosciare fitta.
Ogni tanto Glaazir lanciava un’occhiata di sfuggita a Dolkas. Era un umano piuttosto basso (lei lo superava addirittura di una spanna), dallo sguardo freddo e duro. I suoi occhi erano del colore del ghiaccio e portava lunghi capelli castani che gli arrivavano fino a metà schiena ed una corta barba ben curata. Indossava una pesante armatura di piastre che copriva quasi completamente il suo corpo muscoloso e solcato da cicatrici, ed un grosso scudo con l’emblema di un’aquila dorata era legato al suo avambraccio sinistro. Legato dietro la schiena portava un grosso tridente d’acciaio temprato. Il suo sguardo in questo momento era fisso nel vuoto e stava seguendo stancamente i passi di Glaazir.
Krissenap e Goz erano una decina di metri indietro. Come suo solito, Krissenap restava seduto a cavalcioni sulle spalle curve del golem tenendosi stretto alle redini. Non che ne avesse bisogno ovviamente: il golem eseguiva gli ordini semplicemente impartendoglieli. Krissenap le aveva raccontato che lo avevano trovato anni prima su queste terre, perfettamente immobile in mezzo a una vallata. Quando si erano avvicinato e il goblin aveva aperto bocca, Goz si era semplicemente messo a seguirlo. Da quel momento, solo il goblin è riuscito a impartigli ordini: ne lei ne Dolkas sarebbero riusciti a fargli fare qualcosa se non ci fosse stato il goblin a fare da portavoce. Nessuno di loro sapeva se Goz fosse una creatura intelligente o no: in questi anni non l’aveva mai dimostrato, limitandosi ad eseguire semplicemente gli ordini di Krissenap ed emettendo qualche parola ogni tanto. Mai niente di concreto, ovviamente.
«Ci siamo quasi – sussurrò Glaazir – vedete quel costone di roccia? Laggiù c’è l’entrata principale della tana. Il condotto da cui sono fuoriuscita invece è lassù» Glaazir indicò col dito il punto più alto del costone di roccia. Era effettivamente possibile vedere un piccolo buco nella roccia ed uno stretto sentiero per arrivarci.
«Quanto ci vuole una volta entrati nel condotto per arrivare alla tana?» le chiese Dolkas.
«Cinque minuti al massimo – rispose lei – se non troviamo altri imp, che sia ovvio. Potrebbero essercene molti.»
Dolkas fissò l’entrata principale della caverna, facendo alcuni rapidi calcoli mentali.
«Bene, allora il piano è questo: Krissenap, tu e Goz rimanete qui. Quando ci vedrai entrare nel condotto secondario comincia ad avanzare verso la caverna. Una volta che sarai nei paraggi, inizia a fare tutto il rumore possibile. Sono sicuro che ne sei capace» Dolkas sogghignò.
«E poi capo?» piagnucolò il goblin.
«Poi semplicemente dovrai cercare di farne fuori il più possibile. Noi per quel momento dovremmo già essere dentro la caverna e attaccheremo nelle retrovie. Cerca di non farti ammazzare, capito?»
«Tranquillo capo – sogghignò Krissenap, slacciandosi dal fianco una corta spada – Goz baderà a me. E se non sarà abbastanza, gli darò una mano anche io» il goblin non sembrava molto convinto di quello che diceva, ma Dolkas non ci badò. Si limitò semplicemente a fissare Glaazir e insieme si incamminarono verso il costone di roccia.

Dolkas e Glaazir stavano ormai percorrendo lo stretto sentiero che portava al condotto secondario della tana, armi in pugno. Riuscivano a malapena a scorgere il possente Goz in lontananza, ma ciò non era importante. Bastava che lui scorgesse loro. Arrivarono infine alla stretta entrata del passaggio: Dolkas doveva inginocchiarsi per riuscire ad entrare. Non aveva idea di come avesse fatto ad uscire da lì Glaazir, notevolmente più grossa di lui.
«Il condotto prosegue in piano per circa trenta metri, poi c’è un grosso dislivello verso il basso. Stacci attento, lì dentro è parecchio buio» Dolkas fissò Glaazir con invidia. L’eredità orchesca le garantiva, oltre ad una certa resistenza fisica, la capacità di vedere bene anche in caso di pessima illuminazione. E li dentro c’era un buio innaturale.
«Forse è meglio che vada avanti tu, tigre» la apostrofò Dolkas. Glaazir prese l’insulto come un complimento e si limitò a fare una risatina. Insieme si inoltrarono all’interno dello stretto passaggio. Dopo pochi passi il condotto si allargava notevolmente e Dolkas potette rialzarsi in piedi. Glaazir doveva ancora camminare con la schiena curva, ma a parte ciò non sembrava molto impedita nei movimenti, e procedeva andando diritto con spada in pugno. La spada era notevolmente grande, ma Glaazir non era certo priva di muscoli e, a differenza delle persone più deboli, riusciva ad utilizzare la spada con una mano sola. Aveva anche un piccolo scudo di legno legato all’avambraccio sinistro: era rivestito di pelle bollita e decorato con piccole punte ossee e sembrava aver preso numerosi colpi durante la sua vita. Nonostante il buio del passaggio, entrambi procedevano con cupa determinazione.
Dopo parecchi metri di cammino, il condotto precipitava verso il basso, in una piccola caverna. Una corda di canapa era legata ad uno spunzone di roccia. Dolkas fissò la corda con sguardo interrogativo, ma Glaazir subito gli lanciò un’occhiata facendogli capire che l’aveva messa lei prima. Entrambi scesero scivolando giù dalla corda per una decina di metri, con la mezzorchessa in prima linea. Dolkas riusciva a percepire solo il buio: la debole luce che proveniva da fuori non arrivava così tanto in profondità e lui si trovò nella più completa oscurità. «Nella caverna principale si vede meglio – sussurrò Glaazir – attaccati a me e occhio a dove metti i piedi» nel dire ciò, la mezzorchessa prese la mano di Dolkas e se la mise sulla spalla. Avanzarono nella piccola caverna per pochi metri, quando qualcosa alla loro destra fece rumore. Glaazir subito si volto e vide che una piccola pietra si era staccata rotolando giù per una delle pareti della caverna: nient’altro sembrava muoversi.
«Cos’è stato?» le sussurrò Dolkas all’orecchio. «Potremmo avere compagnia – sussurrò lei a sua volta – tira fuori il tuo tridente e cerca di fare meno rumore possibile.»
Glaazir non fece in tempo a finire la frase che qualcosa le piombò addosso. Fortunatamente riuscì a non urlare, ma Dolkas saltò indietro emettendo notevoli scricchiolii con la sua corazza. Glaazir vedeva benissimo cosa le era piombato contro: un essere simile ad un goblin, ma molto più piccolo, nudo e dalla pelle nerastra. Si trovava contro ad un imp. Mentre Dolkas scrutava in giro cercando di scorgere qualcosa nell’oscurità, Glaazir afferrò l’imp che le era saltato addosso e cercò di staccarselo dalla faccia, mentre l’essere le aveva afferrato la faccia con gli artigli. Lo afferrò per il fragile busto e tirò con tutte le sue forze, mentre i letali artigli dell’imp le graffiavano il volto. La mezzorchessa era notevolmente più forte della creatura e riuscì a strapparsela dal volto e a scagliarla a molti metri di distanza. Un coro di guaiti si levò tutt’intorno ai due combattenti.
«Dannazione – pensò Dolkas – spero che Krissenap sappia cavarsela da solo per un po’.»

La pioggia continuava a cadere incessante e Krissenap e Goz stavano viaggiando piuttosto lentamente verso l’entrata della caverna. Krissenap fissava il buio ingresso a poche centinaia di metri di distanza. Goz, ovviamente, non diceva una parola.
«Merda… qui ci rimango secco – piagnucolò il goblin – Goz… mi raccomando. Il tuo compito è quello di difendermi, capito? Di-fen-der-mi.»
«Difendere. Guerra.» rispose il golem con voce meccanica.
«Bravo, vedo che hai capito» sussurrò Krissenap dandogli una pacca sulla testa. Mentre Goz continuava ad avanzare con passo inesorabile, l’insicuro goblin estrasse da una grossa sacca una cintura piena di coltelli da lancio e la indossò, stringendo le cinghie nervosamente. Estrasse uno dei coltelli e si punse il mignolo della mano sinistra, facendo fuoriuscire qualche goccia di sangue. Si passò il dito sanguinante sotto gli occhi, lasciando due linee di sangue ancora gocciolante sulle guance e infine si mise il dito in bocca iniziando a succhiarne il sangue. Goz era ormai arrivato davanti all’entrata della tana.
«Ci siamo amico… tieniti pronto – sussurrò il goblin al suo grosso compagno – Voi di casa! - si mise ad urlare con tutto il fiato di cui disponeva – c’è nessuno la dentro?» dalla caverna non proveniva nessuna risposta.
«Forza Goz, batti un po’ i piedi! Fai rumore!» e il golem si mise a saltare. Ogni volta che atterrava, il povero goblin veniva quasi scagliato via dalla sua schiena e un forte schianto si levava in ogni direzione.
«Basta Goz, fermati – implorò Krissenap – forse Glaazir si è sbagliata e qui dentro non c’è niente… Forse dovremmo andare a vedere, cosa ne dici?» il golem non rispose, ma iniziò ad avanzare con il suo solito passo lento. Entrarono nella tana ed il buio li avvolse quasi subito, nonostante Krissenap potesse vedere piuttosto bene anche in scarsità di luce. La caverna era piuttosto ampia, con numerose stalattiti che pendevano dal soffitto. Alcune gocce d’acqua, forse infiltrazioni causate dalla pioggia che continuava a scendere impetuosa, cadevano dal soffitto producendo una strana sinfonia di rumori. Sembrava che non ci fosse anima viva.
«C’è nessuno? – stridette il goblin – Dolkas? Glaazir? Dove siete?» nessuna risposta.
«Evidentemente Glaazir si è sbagliata – sospirò il goblin – forza Goz, torniamo fuori e aspettiamoli…» in quel momento, due occhi gialli si accesero nell’oscurità, fissando il goblin con rabbia. «Goz… qui siamo nella merda.»

Nei condotti superiori, dove si trovavano Dolkas e Glaazir, la battaglia stava infuriando. I due guerrieri si erano trovati circondati da un grosso numero di imp, che si erano scagliati come un sol uomo verso di loro brandendo bastoni e sassi, mentre qualcun altro contava semplicemente sulla resistenza dei suoi artigli. I loro versi sembravano simili ai guaiti di un cane e stavano rimbombando per tutte le caverne, causando un frastuono infernale.
Glaazir si trovava in questo momento circondata da una mezza dozzina di quelle creature ringhianti. Una di esse tentò di lanciarle la roccia che aveva in mano ma a Glaazir bastò semplicemente alzare lo scudo per pararsi da quel debole colpo. Uno degli imp le si scagliò contro brandendo un bastone ma anche in quel caso, la difesa fu estremamente semplice: Glaazir puntò semplicemente la sua spada bastarda contro di lui e l’inetta creatura ci si lanciò contro finendo infilzato. Gli imp non brillavano certo per intelligenza, questo era ovvio. Mentre l’imp conficcato sulla spada si agitava ancora spargendo le sue interiora sul terreno, Glaazir scattò in avanti colpendo con un micidiale colpo di scudo l’imp alla sua sinistra, quello che gli aveva tirato la pietra, e mandandolo a fracassarsi il cranio contro la parete di roccia. La mezzorchessa si voltò di colpo: altri quattro imp, di cui due armati di bastoni, la circondavano. Dietro di sé aveva una semplice parete di roccia. Alzò lo sguardo e vide Dolkas, anche lui chiuso in un angolo, circondato da altri tre imp. Pensò che forse avrebbero tardato parecchio all’appuntamento con Krissenap.
Quando Dolkas aveva cominciato a sentire i guaiti, aveva estratto il tridente e si era chiuso in un angolo. Non riuscendo a vedere niente, doveva affidarsi solamente sul proprio udito. Era sicuro che era circondato da alcune creature, almeno tre o quattro. Dietro di sé si trovava solamente una parete di roccia. Si mise sulla difensiva, chiudendosi nell’angolo e rivolgendo il pesante scudo agli imp, o almeno dove pensava che essi si trovassero. Il tridente era ben stretto nell’altra mano, pronto a scattare. Sentì uno stridio e riuscì a percepire un movimento davanti a sé: qualcosa aveva spiccato un salto e si era lanciato contro di lui: il tridente sembrò per un attimo sferzare il vuoto, ma poi colpì qualcosa di solido, che andò a spaccarsi la testa su una roccia, facendo colare pezzi di cervello tutt’attorno. Sembrava troppo presto per esultare per la vittoria, perché qualcosa gli graffio la gamba nell’incavo del ginocchio. Dolkas evitò di urlare e con un rapido gioco di mano girò il tridente nella direzione opposta, cercando di dirigerlo verso l’imp. Non si sa di preciso cosa successe, ma Dolkas mancò il bersaglio: affidarsi solo al proprio udito non era di certo facile.
Glaazir era riuscita nel frattempo a saltare via dall’angolo dove si era infilata, riuscendo a cogliere gli imp di sorpresa per qualche secondo. Con un rapido fendente riuscì a colpirne uno alla base del collo tagliandogli di netto la testa, che rotolò a qualche metro di distanza. il corpo dell’imp rimase ancora in piedi per qualche secondo, emettendo schizzi di sangue dal collo, per poi cadere a terra con un tonfo sordo. Qualcosa la colpì all’altezza dello stomaco, togliendole il respiro per qualche istante. Abbassò lo sguardo e riuscì a vedere la disgustosa creatura che l’aveva appena colpita con una bastonata. Un veloce affondo diretto al suo cranio bastò a farla calmare, facendole emettere schizzi di sangue ovunque. Nello stesso momento colpì con un calcio allo stomaco un altro imp che le stava venendo addosso. Il calcio venne accompagnato da un rumore sordo, probabilmente della spina dorsale della creatura che si spezzava. Glaazir alzò lo sguardo giusto in tempo per vedere il proprio compagno, reso cieco dall’oscurità, venire assalito da un imp.
Dolkas si era appena messo nuovamente sulla difensiva quando un altro imp gli fu in faccia, artigliandogliela con forza. Una zampa ossuta si attaccò all’orecchio dell’umano, strappandoglielo con vigore. Dolkas emise un urlo, di dolore più che di rabbia, che rimbombò per tutte le caverne circostanti. Con tutta la forza di cui disponeva, afferrò la creatura che gli era arrivata in faccia e, dopo aver lasciato cadere il tridente, le strinse il collo in maniera brutale. Questa tentò di graffiarlo e di morderlo, invano. Il collo dell’imp si ruppe con un rumore sordo, mentre gli ultimi guaiti della creatura si spegnevano lentamente. Glaazir, che aveva appena assistito a questa scena, si lanciò contro all’ultimo imp rimasto vivo e, con uno sgambetto, lo fece cadere a terra infilzandolo subito dopo con la sua spada.
«Quello stronzo… mi ha strappato l’orecchio quello stronzo!» urlò Dolkas, mettendo mano al buco sanguinante dove fino a pochi istanti prima si trovava l’orecchio sinistro.
«Zitto Dolkas! – sussurrò la mezzorchessa – ce n’è ancora uno qui in giro…» Glaazir non fece in tempo a finire la frase che vide una bassa figura correre via attraverso un passaggio scavato nella roccia. «Dolkas! Dammi la tua balestra!» urlò lei, ma l’umano sembrava troppo impegnato a tamponarsi la ferita. Senza che potesse reagire, Glaazir strappò la balestra dalla cintura dell’umano e la caricò con un quadrello. Prese attentamente la mira e sparo attraverso il condotto. L’imp era ormai quasi arrivato ad una svolta, ma il dardo fu più veloce: gli si conficcò esattamente in mezzo alla schiena, mandandolo a schiantarsi contro la parete davanti a lui con un sonoro tonfo. L’imp cadde a terra pochi secondi dopo, lasciando una scia di sangue sul muro.
«Il mio orecchio…» sussurrò Dolkas, con rabbia. La mezzorchessa si strappò un lembo del mantello e prese a fasciare la testa di Dolkas, come se stesse curando un bambino piccolo. «Per ora è il meglio che possiamo fare. Ora è il caso di muoverci, Krissenap potrebbe essere nei guai.»

Krissenap era effettivamente nei guai. Appena entrato nella caverna, un grosso numero di pantere purpuree l’aveva assalito. Si trattava di creature magre, quasi scheletriche e simili a grosse pantere. Non avevano peli e la loro carnagione era di un colore viola scuro, quasi simile al nero. Avevano delle orecchie e una lingua sproporzionate rispetto al resto del corpo e, a differenza delle normali pantere, gli arti superiore erano dotati di pollice opponibile, nonostante preferissero camminare a quattro zampe. Erano saltate fuori dal nulla, quasi ammantate da un velo di oscurità che sembrava ricoprirle. Il goblin ne aveva contate dieci.
«Diavolo… se quei due non arrivano subito sono morto… Goz, difendimi!» urlò il goblin, terrorizzato. «Difendere» l’enorme golem di pietra puntellò le proprie zampe sul solido terreno di roccia e mise le proprie poderose braccia davanti a se. Le pantere stavano ringhiando verso i due compagni, con rabbiosi occhi gialli. Alcune di loro sbavavano, pregustandosi un lauto pasto. La tensione stava aumentando sempre di più, visto che nessuno dei due gruppi sembrava aver intenzione di fare la prima mossa. Come ci si poteva aspettare, furono i demoni ad agire per primi. Due di essi scattarono in avanti ringhiando, lanciandosi addosso al possente Goz. Il golem non si mosse, attese semplicemente che le due bestie fossero alla sua portata. Krissenap, che si era alzato in piedi sulle spalle del golem e si teneva saldamente alle redini, afferrò un coltello dalla sua cintura e lo scagliò verso una delle due bestie. Il coltello si conficcò con precisione in uno degli occhi gialli del demone, che emise un forte guaito accasciandosi a terra subito dopo. La seconda pantera che era scattata in avanti arrivò alla portata di Goz e gli si scagliò contro, mordendolo. Certo il demone rimase sorpreso quando si rese conto che aveva appena conficcato i denti in una creatura di solida pietra, spaccandosene la maggior parte. Il golem approfittò dell’attimo di disorientamento della creatura per colpirla con uno dei suoi pugni esattamente a metà della schiena. La forza di Goz, unita al materiale con cui era costruito, non lasciarono scampo alla creatura: finì divisa in due parti, con lo scheletrico torso spiaccicato sul terreno e con una grossa quantità di liquidi che già cominciava a riversare. Emise ancora qualche lamento prima di spegnersi definitivamente. Krissenap non fece neanche in tempo a riprendere fiato che altre tre pantere si scagliarono contro i due. L’enorme golem si mosse in avanti con passo lento e Krissenap dovette tenersi saldo alle redini per non cadere. Goz prese a questo punto a correre in maniera goffa, dirigendosi verso una delle tre pantere che stavano correndogli incontro, letteralmente travolgendola. Il demone probabilmente non fece neanche in tempo ad accorgersi cosa gli era successo: venne schiacciato sul terreno come un gatto investito da un carro. Le altre cinque pantere purpuree, che fin’ora erano state ferme, cominciarono a muoversi circondando il golem. Krissenap si teneva saldo alla sua schiena, urlando come un pazzo per la paura e l’eccitazione. «Forza Goz! Dagli addosso!» urlò il goblin, mentre si teneva alle redini con un solo braccio e con l’altro cercava di afferrare un coltello da lancio alla cintura. La creatura di pietra non se lo fece ripetere due volte e si voltò rapidamente, dirigendosi verso un’altra pantera lì vicino e spiaccicandola con un colpo delle poderose gambe. Krissenap nel frattempo era riuscito a trovare una posizione stabile sulle spalle del golem e stava lanciando i suoi coltelli verso qualsiasi cosa si muovesse. Una pantera purpurea fu colpita alla spalla e del sangue color rubino cominciò a riversarsi a terra. L’attacco di Krissenap continuava, ma la pantera si fece pericolosamente più vicina, cercando di lanciarsi sopra il golem per mordere il goblin appostato. Quando il goblin ebbe appurato le intenzioni della creatura, estrasse velocemente una corta spada simile a una mannaia e la colpì quando ormai era a pochi centimetri di distanza. La spada le si conficcò in testa e il demone cadde dal golem emettendo un urlo quasi umano. Sfortunatamente, la pantera sembrava aver avuto lo slancio necessario da sbilanciare il poderoso golem. Quest’ultimo cadde a terra, facendo rotolare lo sfortunato goblin a pochi metri di distanza facendogli sbattere la testa. Quando Krissenap riuscì a rialzarsi e ad estrarre la spada, si rese conto di trovarsi in una situazione davvero brutta: Goz era sdraiato a terra e non dava segni di movimento e lui si trovava in un angolo, circondato da cinque pantere purpuree.
«Merda… merda… Dolkas, Glaazir, dove diavolo siete? Garradon, dio della battaglia, fammi sopravvivere anche questa volta» pregò lo sfortunato goblin.

Dolkas e Glaazir, nel frattempo, erano appena arrivati nella tana principale ed avevano assistito alla caduta di Goz. Ora vedevano chiaramente il goblin in un angolo, mentre agitava la spada nella speranza di tenere alla larga le cinque bestie che lo circondavano.
«Lo sapevo che non dovevo fidarmi di lui!» sbraitò Dolkas.
«Stai calmo, Dolkas – rispose cautamente la mezzorchessa – dobbiamo darci una mossa o Krissenap ci rimetterà la pelle.»
«Si… hai ragione» le rispose mestamente. Glaazir sapeva benissimo com’era il carattere di Dolkas. Sapeva che in realtà non era arrabbiato con il povero goblin, ma doveva prendersela con qualcuno per la perdita dell’orecchio e, ovviamente, il goblin era il bersaglio adatto.
«Senti… Io vado e le ammazzo. Tu resta qui e coprimi con la balestra, siamo d’accordo?» gli sussurrò Glaazir, fissandolo cautamente.
«Vai. Vedi di salvarlo, mi raccomando» rispose lui con un certo tono acido.
Glaazir non se lo fece ripetere due volte e cautamente si avvicinò alle pantere, cercando di prenderle alle spalle. Nel frattempo, il minuto Krissenap era terrorizzato e cercava invano di difendersi con la spada. I demoni stavano mostrando una certa dose di malvagità e sembrava quasi che stessero pregustando il momento in cui l’avrebbero ucciso osservando il suo terrore. Glaazir era quasi arrivata alle spalle delle creature e neanche il goblin sembrava averla notata. A pochi passi, il goblin si girò verso di lei e la notò, ma continuò ad agitare la spada e a sembrare terrorizzato: sapeva perfettamente che le pantere purpuree avevano una buona dose di intelligenza e mettersi ad esultare per l’arrivo dei compagni non avrebbe fatto che saltare i piani di Glaazir. Non appena la mezzorchessa fu a portata di spada dalle creature, mosse un affondo diretto alla schiena di una di esse. La spada penetrò nella schiena del magro essere, spaccandogli la spina dorsale, ed esso cadde con un lamento a terra. Le quattro bestie rimanenti si voltarono verso Glaazir e sia Krissenap che Dolkas approfittarono dell’evento. Il goblin saltò sulla schiena di una delle creature brandendo la spada. La creatura, nonostante scalciasse con tutte le sue forze, non riuscì a far cadere dalla schiena l’agile goblin, abituato com’era a viaggiare sulla schiena del golem che ora giaceva disteso a pochi metri da lui. Raggiunse la gola della creatura e gliela tagliò con un rapido colpo di spada. La bestia gorgogliò per un attimo vomitando sangue, prima di crollare al suolo priva di vita. Dolkas aveva approfittato della situazione per tirare un colpo di balestra diretto una delle tre bestie rimanenti: il dardo non era riuscito a colpire alla perfezione, colpendo la creatura al fianco. Infastidito, il demone prese a emettere potenti ruggiti che non avevano nulla di naturale.
Dolkas sorrise, sentendo i lamenti della creatura, ma un basso ringhio alle sue spalle lo costrinse a voltarsi: un demone della criniera si trovava a pochi metri da lui.

Glaazir e il piccolo Krissenap si trovavano contro altre tre creature. Una di esse saltò addosso a Glaazir, che non riuscì a parare l’artigliata delle lunghe dita flessibili del mostro e finì per stracciare ancora di più la sua ormai malridotta corazza. Un fiotto di sangue le fuoriuscì dallo stomaco, facendola quasi piegare in due dal dolore. Vedendo la situazione, il goblin si lanciò contro la creatura tirandole la viscida coda. Subito la creatura si voltò con l’intenzione di morderlo, ma Glaazir riuscì a riprendersi in tempo per eseguire un fendente sul suo collo, staccandogli la testa di netto. Una delle due bestie rimanenti, quella col dardo di balestra conficcato nel fianco, si lanciò addosso al goblin affondando i denti nel braccio sinistro della sventurata creatura. Krissenap emise un urlo stridulo, ma la creatura venne fermata in tempo da un altro colpo di Glaazir, che stava agitando la spada come se fosse posseduta dal demonio. Krissenap riuscì a togliere il braccio dalla morsa letale della creatura e si voltò verso l’entrata della caverna, vedendo l’ultima delle pantere purpuree che correva via come se avesse avuto la coda in fiamme.
«Che facciamo Glaazir, la inseguiamo?» stridette il goblin.
«No, lasciamo stare. Qui abbiamo già un bel bottino – grugnì la mezzorchessa mentre un ghigno le si formava sulle labbra – Dolkas, puoi uscire ora» ma l’umano era sparito.
«Dolkas! – urlò la donna – Dove sei finito?»
«Anche Goz è scomparso!» gridò Krissenap.

Quando Dolkas aveva visto il demone della criniera, era scappato via con tutte le forze di cui disponeva. I demoni della criniera erano delle creature molto simili ai leoni, con l’unica differenza che la loro criniera era di un nero fuligginoso e il loro muso non era leonino: sembrava più quello di un grosso uccello rapace, con tanto di un robusto becco in grado di spaccare anche le armature più resistenti. A differenza delle pantere purpuree, i demoni della criniera erano creature solitarie, che si univano principalmente a branchi formati da altri tipi di creatura, comandandoli: avevano una forte volontà dominatrice.
Dolkas era corso verso le profondità della caverna e aveva lasciato cadere la balestra per strada, mente si riallacciava lo scudo e prendeva il tridente con tutta la rapidità di cui disponeva. Come tutti i grandi felini, i demoni della criniera sono notevolmente più veloci di un essere umano, quindi, nel giro di pochi secondi la bestia ringhiante gli fu addosso. Dolkas riuscì a saltare via giusto in tempo per evitare di essere sbattuto a terra e si voltò verso la creatura puntandole contro il tridente. La creatura si preparò a balzare, studiando l’avversario. Aveva capito benissimo che non era saggio saltargli addosso, avrebbe potuto finire infilzata. La bestia continuò a camminare attorno all’umano, per studiarlo e metterlo sotto pressione. Con una enorme velocità si lanciò infine verso le gambe dell’umano, al fine di spezzargli le ossa con il suo robusto becco. Dolkas non si aspettava un colpo diretto così in basso e la creatura colpì, riuscendo ad accartocciargli i gambali d’acciaio. Non fu così abile da mantenere l’equilibrio e cadde a terra, supino. La creatura subito balzò sopra di lui, ma fortunatamente Dolkas fu abbastanza veloce da piazzare lo scudo in mezzo. La creatura ringhiava e sbavava sopra di lui, mentre cercava di penetrare le sue difese. A una distanza così ravvicinata, il tridente era inutilizzabile. Qualcosa graffiò Dolkas alla spalla sinistra: la creatura era riuscita a tirargli una zampata nonostante lo scudo che li separava. Se i suoi compagni non fossero giunti subito, per l’umano sarebbe stata la fine. Il demone riuscì a penetrare le sue difese col becco e a Dolkas sembrò che la scena andasse al rallentatore quando il volto della creatura si diresse verso il suo con tutta l’intenzione di spaccargli il cranio col poderoso becco.
La salvezza arrivò dall’alto: Dolkas vide la creatura sollevata da qualcosa di grosso, come se non pesasse quasi nulla. Goz era sopra di lui e stava tenendo la creatura per la coda con una delle sue possenti mani di pietra, tenendola sollevata da terra. Gli bastò un solo, potente pugno diretto al volto del demone della criniera per porre fine allo scontro: frammenti di becco e di cervella si sparsero fino a due metri di distanza.
Dolkas rimase a fissare per qualche istante il golem che nel frattempo si era fatto immobile. Due figure emersero dal tunnel, gridando il suo nome: erano i suoi compagni.
Dolkas si rialzò in piedi e afferrò il tridente che era caduto a pochi metri di distanza.
«Eccoti finalmente! Ti ho cercato dappertutto, dappertutto!» urlò di gioia Krissenap, ma ovviamente non si stava riferendo a lui, ma al suo grosso compagno roccioso.
Glaazir corse da Dolkas e lo fissò per qualche istante, con sguardo severo. «Stai bene?» chiese la mezzorchessa con voce tenue.
«Si, non devi preoccuparti – rispose lui – bendiamoci le ferite e riposiamoci un paio d’ore. Poi raccogliamo i teschi e torniamo a Velbrun.»
«Ehi capo! – urlò il goblin – ma cosa hai fatto all’orecchio?»
Dolkas fissò Krissenap in cagnesco.

Nuovo Documento di Microsoft Word


La chiamano sindrome del foglio bianco.
È quando vuoi scrivere, ma hai paura di metterti davanti ad un foglio e cominciare il tuo lavoro. L’immagine stessa del foglio pulito, immacolato, ti spaventa.
Sto soffrendo di quella sindrome, anche se io la chiamo in un modo diverso.
Sindrome da paura.
Perché vuoi iniziare a scrivere, hai delle idee, ma ti sembrano tutte una merda e pensi che le parole che scriverai non riusciranno a rendere ciò che hai in mente. E ti viene paura. Paura di stare perdendo il tuo tempo.
Ma voglio fare comunque un tentativo. Scriverò la prima cosa che mi viene in mente, senza pensare al rigurgito acido che probabilmente ne verrà fuori.
Mi torna in mente un discorso privo di senso fatto con un mio amico questo pomeriggio.
Si va a cominciare.

Il viaggio sul Torino-Milano delle 14 e 50 mi sembra come al solito interminabile. Sono su un vagone di seconda classe e sono riuscito a trovare tra la gente schiamazzante un sedile polveroso e coperto di schizzi di qualche sostanza non meglio identificata. Non mi sono portato né il lettore mp3 né libri da leggere, così mi sto annoiando a morte. Ho dormito un po’, con il rumore ripetitivo del treno sui binari che mi conciliava il sonno, ma quando il treno si è fermato mi sono subito svegliato e non sono più riuscito a riprendere sonno.
Fermata a Vercelli. Siamo a metà viaggio. Sale altra gente riempiendo ancora di più il vagone. Qualcuno scende, ma pochi. Il panorama dal mio finestrino mi ricorda una qualche ambientazione da film cyberpunk-futuristico: un impianto industriale coperto di tubi e sbuffante fumo grigiastro. I piccioni sono ovunque, si stanno tenendo vicini per scacciare il freddo. Sono comunque meno stretti di noi qui sopra.
Salgono due suore, che si siedono sul sedile di fianco al mio. Non sono le suore bianche, sono quelle con la tonaca color nero slavato, così io mi giro su un fianco e mi tocco i coglioni. Loro non mi vedono, non mi andava di prendermi già degli insulti. Da delle suore soprattutto. Mi hanno sempre fatto paura, con quelle tonache grigie e quegli sguardi torvi. Anche queste non si discostano dallo stereotipo. Non parlano, guardano solamente con aria grave davanti a loro. Una di loro ha in mano qualcosa… una foto sembra.
Una foto di Gesù Cristo.
Beh, è normale, penso. Sono suore. Sono fissate con Gesù Cristo.
Poi penso un attimo a quello che ho visto. Una foto di Gesù Cristo? Non un santino. Proprio una foto.
Allungo lo sguardo, per vedere bene. Si, è proprio una foto. Sembra un Gesù Cristo di Woodstock. Il Gesù Cristo Compagnone. Ha solo uno straccio addosso, è coperto di sangue e ha segni di tortura ovunque, ma sorride. Non un sorriso grave, ma un sorriso divertito, come se stesse sfottendo qualcuno.
Una delle suore nota cosa sto guardando, e si volta verso di me sorridendo. Il suo sorriso è falso, gli occhi sono privi di vita.
“L’abbiamo scattata pochi giorni fa. Al teatro hanno fatto un’opera basata sulla passione di Cristo. Tu credi in Gesù Cristo?”
Le parole mi escono senza pensare.
“Sì, io credo in Gesù Cristo. Credo che sia stato solo un falso profeta che si è fatto infilare un palo di tre metri nel culo dai suoi stessi apostoli, è stato così coglione da non scappare in Messico quando era ora, noi ne paghiamo ancora le conseguenze dopo 2.000 anni e quella foto è la dimostrazione di quanto lui sia divertito della cosa. Sì, credo in Gesù Cristo. Credo che sia uno stronzo.”
Le suore sgranano gli occhi e assumono un’espressione solenne e irritata allo stesso tempo.
“Satanista” bisbiglia una. Dopodiché entrambe si alzano e vanno verso un’altra carrozza.
Con un sorriso soddisfatto, mi riaddormento. Al mio risveglio sarò a Milano.

Voilà, ho scritto qualcosa. Non lo definirei neanche racconto breve. Lo definirei “una mezza cazzata”. Ed ecco ricomparire la sindrome da paura. La pagina è di nuovo bianca, bisogna ricominciare daccapo. È quello che mi fa paura. Cominciare dall’inizio, poiché è all’inizio che la strada per arrivare alla fine è più lunga. Una volta intrapresa però, questa strada va come un fulmine. Ma, ogni volta, te lo dimentichi. Così ti aspetti ogni volta una marcia lenta e molto, molto estenuante.

mercoledì 22 settembre 2010

Intervista col Sabbatico


“Il registratore è acceso. Possiamo procedere. Direi di cominciare con le presentazioni, signore.”
“Piantala con il signore. Io mi chiamo Damian. Damian Velvet.”
“Posso darle del tu, Damian?”
“Sì.”
“Bene, Damian. Allora che ne dici, parliamo un po’ di te. Descriviti.”
“Sono alto un metro e ottanta, ben proporzionato, bel fisico. Un bel volto amabile. Capelli neri, portati lunghi. E sono un vampiro.”
“Un vampiro? Stai forse usando una qualche metafora?”
“Nessuna metafora. Niente del genere. Sono un vampiro. Hai presente quelli coi denti aguzzi, che bevono sangue, pallidi, e che secondo i film dormono in bare foderate di velluto rosso e vengono bruciati dalle croci? Uno di quelli.”
“Quindi mi stai dicendo che tu ti nutri di sangue?”
“Sì.”
“Che bruci se vedi la luce del sole?”
“Sì.”
“Che sei morto?”
“Sì, anche se da non molto. È successo circa due anni fa. Vuoi che te lo racconti?”
“Certo.”
“Mi trovavo all’Ascension, un locale molto in giù in centro. Ora è chiuso da qualche tempo. Te lo ricordi?”
“Sì, me lo ricordo. Brutto posto. Girava un sacco di droga da quelle parti. Ora è bruciato. Quanto tempo fa?”
“Due anni.”
“Due anni fa quindi… oh, capisco. C’entri qualcosa, non è vero?”
“Era una serata come tante altre. Ero circondato da un paio di battone vestite da contesse settecentesche e mi stavo sparando una pista di coca. Una terza mi stava facendo un pompino. Una serata come tante altre. La musica, mischiata con la droga, mi stava sballando. Volevo divertirmi. Quando sono entrati questi tizi.”
“Tizi?”
“Sì, una sorta di primitivo moderno quasi nudo, interamente coperto di tatuaggi neri, accompagnato da due troie vestite da pornosuore. Ero sballato e i suoi tatuaggi mi sembravano quasi muoversi. Come ombre che si muovevano sotto la sua pelle.”
“Che è successo poi?”
“Il tizio si è seduto ad un tavolo e ha ordinato un drink. Le due troie hanno iniziato a strusciarglisi contro. Tutto regolare. Sembravano tutti e tre strafatti. La serata è andata avanti per qualche ora. Ho ballato, mi sono drogato ancora, mi sono strafatto. Poi è arrivata altra gente.”
“Altra gente?”
“Sembravano degli invasati della SWAT. Giubbotti antiproiettile, pistole, solo che questi avevano anche paletti di legno e taniche piene di benzina. Roba dell’altro mondo.”
“E poi che è successo?”
“Un casino. Tutti hanno iniziato ad urlare. Le due troie vestite da suore si sono lanciate come delle furie sugli uomini della SWAT, ma questi hanno sparato ad entrambe. Sono cadute per terra agonizzanti. Il primitivo moderno si è alzato e dopo aver rifilato un paio di spintoni alla gente che gli ostruiva il passaggio si è diretto verso l’uscita d’emergenza che guarda caso era proprio vicino a dove mi trovavo io. Le puttane che mi stavo portando dietro io si sono dileguate ed ero troppo fatto per riuscire a muovere il culo dalla poltrona. I tizi armati hanno iniziato ad inseguirlo e a sparargli contro. Un po’ di gente è caduta per terra ferita. Questo è stato ferito alla spalla, ma senza battere ciglio mi ha afferrato e mi ha piantato le zanne nel collo.”
“Zanne?”
“Non ci sei ancora arrivato? Quello stronzo era un vampiro, le due troie che si portava dietro le sue servitrici ghoul e i tizi che gli stavano sparando contro erano cacciatori di vampiri.”
“Cos’è un ghoul?”
“Uno schiavo. Se tu dai da bere ad un umano del sangue di vampiro senza ucciderlo questo si irrobustisce, diventa più forte, e diventa un tuo schiavo fedele. Il sangue è una droga, amico. Quei poveri bastardi dei ghoul non possono resistere per più di qualche giorno senza.”
“Cosa è successo poi?”
“Mi sono sentito prosciugare. Sono caduto per terra. Ho sentito qualcosa di caldo colarmi in bocca, poi sono morto. Ho smesso di respirare, di pensare, di fare qualsiasi cosa. L’unica sensazione ancora palpabile era il calore in bocca, il calore del sangue del mio sire. Mi sono rialzato pochi istanti dopo con una sete irrefrenabile. Lui era sparito, il locale aveva preso fuoco. I cacciatori erano ancora lì vicino. Non ci ho più visto. Gli sono saltato addosso. Mi hanno sparato contro, ho sentito le pallottole passarmi attraverso, ma li ho presi entrambi e dissanguati. Poi, preso dal panico per il fuoco, sono scappato. Noi vampiri non amiamo troppo il fuoco. È una delle poche cose che può distruggerci definitivamente. Sono fuggito per la strada, urlante, fino a che non l’ho ritrovato. Aveva i vestiti strappati, ma non aveva un graffio addosso. Mi ha ordinato di seguirlo, e l’ho fatto. Mi ha portato a casa sua dove mi ha spiegato tutto. Che ero diventato un vampiro, e che se ero sopravvissuto ero degno di essere il suo figlioletto. Mi disse che ero un membro del suo clan.”
“Un clan? Una sorta di famiglia intendi?”
“Qualcosa del genere. È più un retaggio del sangue. Ci sono tredici clan di vampiri al mondo, ognuno dotato di poteri singolari e una maledizione millenaria. Divertente vero? Io sono un membro del clan Lasombra. Siamo i maestri delle ombre, abili manipolatori dell’oscurità. Ed in effetti mi dimostrò subito che era vero: i tatuaggi che aveva erano solo ombre abilmente addossate attorno al suo corpo.”
“E la vostra maledizione?”
“Non ci possiamo riflettere negli specchi, proprio come Dracula, e la luce del sole ci brucia più che agli altri vampiri. Aspetta, non farmi quella faccia dubbiosa, te lo dimostro. Andiamo in bagno.”
-Rumore di passi. Un sussulto-
“Oh cristo.”
“Strano vero? Non appaio neanche in fotografia. Va solo bene che da quando sono morto non devo più farmi la barba. Truccarsi però è piuttosto difficile.”
“Poi cos’è successo?”
“Mi ha fatto conoscere i suoi compari. Non te li descriverò, non penso che vogliano rendersi famosi. Ti basti pensare che eravamo cinque vampiri. Un cosiddetto branco. Una sorta di famiglia: mangiare, cacciare e dormire insieme. Darsi assistenza reciproca. Cose di questo tipo.”
“Che mi dici della caccia?”
“La caccia… è qualcosa che un mortale può solamente sognarsi. Sembra di entrare in sintonia con un animale predatore… annusare la preda, sentire la sua paura, inseguirla, tenderle tranelli… fino a farla entrare in una dolce agonia estatica tramite il tuo morso. Hai il potere in mano, tutto il potere del mondo. Una cosa divina.”
“Quindi a te piace essere un vampiro?”
“Cazzo, è la cosa migliore che mi sia mai capitata! Non ero un grande fan del giorno già quando ero vivo, quindi la cosa non mi pesa più di tanto. L’unico problema è la Jyhad.”
“Jyhad? Vuoi dire una guerra?”
“Sì, qualcosa del genere. Vedi, noi vampiri siamo un popolo diviso. Siamo dei cazzo di traditori. Ci sono due grandi sette nel mondo, la Camarilla e il Sabbat. I primi pensano che per evitare un’altra inquisizione debbano nascondersi alla vista dei mortali, mischiandosi tra di loro e facendo finta di non esistere. Chiamano tutto questo Masquerade. I secondi invece pensano che i vampiri siano degli dei e debbano dominare incontrastati sui mortali. Senza stronzate come la Masquerade e senza nessuno a dettare delle regole. I mortali sono mortali e ucciderne uno è qualcosa di più che lecito se si ha voglia di farlo.
“E tu a quale setta appartieni?”
“Al Sabbat ovviamente.”
-Cinque secondi di silenzio-
“Cosa c’è, ti ho spaventato? Beh, dovresti esserlo in effetti. Vedi, noi Sabbatici facciamo di tutto per rompere le uova nel paniere a quei fottuti Cammy. E una delle prime cose che facciamo è andare a rovinare la Masquerade. C’è un motivo per cui ti ho attirato fin qui e ti ho concesso quest’intervista. Quando domattina la polizia ritroverà il tuo cadavere dissanguato e questa registrazione, inizierà a farsi delle domande. Questa registrazione presto sarà diffusa e alimenterà la convinzione che noi esistiamo. Meno Masquerade, più punti per noi. E vaffanculo pure ai Cammy. Non sei d’accordo, amico? Penso che sia arrivata l’ora, ti devo proprio uccidere. Non preoccuparti, non ti farà male. Sarà la cosa più bella che hai mai provato in tutta la tua vita.”
-Un urlo, poi un mugolato di piacere. La registrazione si conclude qui.-

On Scribocching


- Quando hai un’idea che sembra buona, cerca di contestualizzarla il minimo che basta. Preferibilmente deve essere una situazione iniziale o un “Cosa accadrebbe se…”

- Il resto del racconto deve venire fuori da sé. Tu, come scrittore, decidi la situazione iniziale, i personaggi e gli eventi, ma non prendi le decisioni al posto dei personaggi. I personaggi hanno una propria testa e DEVONO pensare con la propria testa. Non con la tua.

- La parte più difficile di un racconto è l’incipit. Una volta fatto quello, hai già fatto buona parte del lavoro. Ricorda che è importante che l’incipit piaccia allo scrittore, non al lettore. Senza un buon incipit, il lettore non legge. Senza un buon incipit, lo scrittore non scrive. Se lo scrittore non scrive, il lettore non legge.

- Quando sei bloccato, pensa a come la situazione potrebbe naturalmente evolversi. La trama verrà fuori da sé.

- Non definire mai una lunghezza per il tuo racconto. Ogni racconto ha la lunghezza che gli è più consona. Forzare la trama a proseguire o terminarla prima del tempo trasforma una buona idea in un brutto racconto.

- Se vuoi modificare o aggiungere qualcosa a quello che hai già scritto e che ritieni che migliori il racconto, non farti domande. Fallo.

- Gli appunti sono i migliori amici di ogni scrittore.

- Quando hai un’idea, anche se magari non c’entra nulla con quello che stai scrivendo, appuntala da qualche parte. Potrebbe servirti in futuro.

Nadar


Nelle terre di Nadar le nuvole formano cerchi dorati nel cielo, riflettendo la luce dei miliardi di soli dai mille colori e dagli spettri cromatici mai visti. I popoli di queste terre vivono per quelle che per i mortali sono ere e la loro anima non abbandona mai i corpi a meno che non siano loro a deciderlo. Le colture sono sempre ricche e profumate, specialmente quelle dei Khanar, grandi frutti dal colore azzurro e dal succoso nettare in grado di guarire da ogni male. Gli uomini, grandi dieci volte un comune mortale o dieci volte più piccoli, prosperano in queste terre assieme al popolo dei Sivui, grandi esseri dotati di braccia e gambe serpentine e aggroviglianti. Il Dio-Dragone Nero sorveglia il mondo dal grande palazzo delle nuvole conosciuto come la Balconata del Dragone, con ampie sale larghe più di dieci chilometri e completamente rivestite di oro, pietre preziose e fili intrecciati di capelli biondi. Il Dio-Dragone senza nome, dal corpo serpentino e dalla lunghezza infinita, si tuffa nelle nuvole con gioiosa grazia e provoca il terrore nei cuori di coloro che non credono. Le donne e gli uomini vestiti di stracci grigi, eletti per servire il Dio-Dragone, corrono per il palazzo praticando atti amorosi per risvegliare la sua felicità. La città dei bambini si trova esattamente ventimila metri sotto la balconata del dragone, dove i piccoli bambini giganti, alti svariati metri, imparano la magia da strane entità coniche. La caccia al Kama-thui, il grande rettile dal colore argentato, è la prova che serve per diventare adulti: nessuno la fallisce, tutti sono destinati a maturare. Nelle altre città di Nadar, tutte chiamate Yne, vi sono grandi torri d’argento e acciaio scintillante, che non può venir mai corroso dalle piogge che scendono forti solo quando è l’uomo a deciderlo. Nelle torri vengono costruiti oggetti di ere passate, come grandi macchine volanti formate interamente da cristallo rosa e quarzo bianco e guidate con la forza del pensiero. I mari della terra di Nadar hanno acque limpide e cristalline, popolate da tritoni e pesci dalla testa d’uomo, e si estendono all’infinito verso luoghi sconosciuti. Al di là di questi mari infiniti, le poche barche che sanno navigarli e utilizzare i nascosti sentieri marittimi guidati dalla luce del corallo, si trovano le terre boschive di Natha-Rey, dove millenni prima dominava il dio-burlone dai mille volti, ed esistevano enormi città dai palazzi alti fino a cinquemila metri, ma distrutte in seguito alla crescita improvvisa della natura. In tutte queste terre, quando i miliardi di soli calano (evento che si verifica solo una volta ogni quattrocentomila anni, poco meno di mezza giornata per un qualsiasi abitante di Nadar), la notte buia prende il sopravvento solo per pochi secondi e le orribili bestie di pietra si risvegliano nelle foreste. Gli uomini e il popolo dei Sivui le ricacciano nelle tenebre da cui sono venute. Coloro che falliscono diventano statue di pietra con diamanti in prossimità degli occhi, destinati a diventare supreme opere d’arte per il palazzo dei Dio-Dragone, evento che viene considerato un onore per tutti i popoli. Sotto la terra rigogliosa vive la grande maggioranza del popolo Sivui, il cui capitano, il supremo Aktan’adari, ha grandi braccia e gambe serpentine che si estendono per svariati chilometri nelle fosforescenti gallerie ricche di pietre preziose, partendo da un normale corpo umano dalla testa d’oro. Le biblioteche, grandi palazzi di diamante, hanno la risposta a tutti i misteri della vita mortale e del divino. Nessuno si pone domande nelle terre di Nadar, tutti sono già a conoscenza di tutto. Occasionalmente, una Yne decide di morire e rinascere, e allora si verifica un evento meraviglioso: tutti gli abitanti tornano ad essere bambini e la città scompare nel nulla. Deve essere ricostruita dal principio ed ogni volta il lavoro risulta più facile. Gli animali parlanti assistono i giganti-bambini nei lavori.
Nulla potrebbe turbare le terre di Nadar, forse solo la morte del Dio-Dragone. E manca poco prima che esso decida finalmente di morire per rinascere nuovamente sotto altra forma.

martedì 21 settembre 2010

Controllo di Routine


Alle ore 02.13 della notte del 23 dicembre 2007 Frank e Joe avevano appena distrutto a colpi di mazza da baseball il parabrezza di una BMW parcheggiata in un vicolo pulcioso. L’ultimo colpo glielo aveva tirato Frank, riducendo in minuscole schegge di vetroresina ciò che rimaneva di quella macchina. Joe, nel frattempo, aveva appena spaccato i due specchietti retrovisori con il manico di una pala da neve segato alle estremità. La mazza da baseball che maneggiava Frank non era sua, ma del fratello di Joe, ed era di un colore azzurro che sapeva di plastica. L’aveva rubata dalla sua camera prima di uscire di casa, mentre lui stava già dormendo.
“Tipo strano mio fratello – pensava Joe - non ha probabilmente mai visto una partita di baseball in vita sua ma tiene una mazza di quelle professionali appesa in camera. Buon per noi, non mi andava di segare un’altra pala da neve per fabbricarmene una scadente.”
La BMW era del padre di un loro compagno di classe, un secchione di nome Wilbur. Wilbur doveva ad entrambi un bel po’ di grana (qualcosa come un centinaio di dollari) per alcune piccole cose che gli avevano procurato, tipo un bel po’ di fumo tagliato pesantemente con del lucido da scarpe. Sembrava un tipo affidabile, ma alla fine si era rivelato essere un vero stronzo. Non aveva voluto pagare, sebbene Frank e Joe fossero stati piuttosto… “insistenti”. Così ora stavano preparando una bella sorpresa al suo paparino: si sarebbe ritrovato la macchina sfondata, con sulla fiancata un bellissimo graffito che gli avrebbe suggerito quanto piacesse al suo studiosissimo figlio la roba buona. Che grave colpo sarebbe stato per lui! La gioia della sua vita, la luce dei suoi occhi, il suo ragazzo che avrebbe presto frequentato Harvard, sarebbe stato per sempre marchiato come un tossicodipendente. Già, un gran brutto colpo.

“Muoviamo il culo – disse Frank – prima che arrivino gli sbirri.”
Joe non gli rispose neanche. Aveva appena bucato una camera d’aria della macchina con un cacciavite e stava ascoltando il sibilo dell’aria uscire con violenza. Si alzò da terra, con tutta la calma di cui disponeva (ben poca in effetti; Joe sembrava un duro ma queste situazioni non gli andavano particolarmente a genio), e prese a muoversi con passo veloce verso l’auto di Frank. L’avevano lasciata parcheggiata a qualche isolato di distanza, per non destare troppi sospetti. Infilò il manico della pala da neve e il cacciavite nello zaino che si era portato dietro.
“Gli ho disegnato un cazzo sulla fiancata – sghignazzò Frank – già mi immagino le risate. Peccato che non potremo vedere la faccia di Wilbur fino al ritorno a scuola.”
“Già, a proposito, che regalo hai chiesto a Babbo Natale?”, disse Joe.
“Che tu vada a farti fottere.” Rispose Frank.

Alle ore 02.29 avevano raggiunto la macchina di Frank. Entrarono entrambi nella piccola utilitaria blu e Frank mise in moto. Quando uscirono dal parcheggio e raggiunsero la strada, Joe, nonostante il freddo della notte invernale, abbassò il finestrino e si accese una sigaretta.
“Chiudi quella merda!”, sbraitò Frank.
Joe non si mosse e continuò a fumare in silenzio.
“Ti ho detto di chiudere quella merda!”, gli urlò nuovamente Frank girandosi con la testa verso di lui.
Joe si limitò a guardarlo negli occhi con la sigaretta accesa tra le labbra. Vedendo gli occhi di Frank però, decise che era il caso di fare come aveva detto. Gliel’aveva già visto quello sguardo, lo aveva chiamato “Lo Sguardo Omicida di Frank”. Quando lo faceva, era il caso di ascoltarlo se non si voleva essere pesantemente pestati.
Joe chiuse il finestrino.
“Bravo”, disse Frank con calma, e rivolse nuovamente lo sguardo davanti a sé.

Durante il viaggio in macchina, entrambi si dettero una calmata. L’adrenalina che gli aveva pervasi mentre stavano sfasciando la BMW del padre di Wilbur se ne stava lentamente andando. Entrambi ora si sentivano stanchi ma appagati, come poco dopo una bella scopata. Joe era sicuro che Frank fosse più soddisfatto di lui. Lui odiava le BMW. “Macchine da ricchi bastardi” le definiva. Il pensiero che esistessero centinaia di altre automobili più costose delle BMW non sembrava minimamente attraversarlo. Lui odiava le BMW, punto. Proprio mentre Joe, fumando, stava pensando a questo, Frank si cacciò in testa il suo cappello da cowboy. Andava fiero di quel cappello, nessuno glielo poteva toccare senza ricevere lo Sguardo Omicida di Frank. Nessuno aveva il coraggio di dirgli che con quel cappello era ridicolo. Joe lo guardò senza dire niente, aprì uno spiraglio nel finestrino e butto via il mozzicone di sigaretta.
“Che facciamo Joe? – chiese Frank – io comincio ad avere sonno.”
“Mh. Buona idea direi. Almeno possiamo anche avere un alibi, nel caso servisse”, gli rispose Joe.
“Che cazzo stai dicendo? – gridò – di che cazzo di alibi parli? Noi eravamo qui.”
“Lo so. Ma questo non deve saperlo nessun altro. Noi stasera siamo stati a casa, buoni come dei manichini”, disse Joe.
Frank sghignazzò. In effetti sghignazzò anche Joe. Il suono proveniente dall’interno della piccola utilitaria blu sarebbe risultato piuttosto inquietante per qualcuno proveniente da fuori. Nessuno dei due realizzò che la piccola conversazione che avevano avuto era totalmente priva di un qualsiasi significato logico.

La famiglia di Wilbur viveva in centro città. Frank e Joe invece più in periferia. Erano praticamente vicini di casa, da piccoli giocavano a palla assieme e si picchiavano spesso. Dopo una rissa furiosa in cui Joe era uscito con il naso sanguinante e Frank con un occhio nero, erano diventato amici per la pelle. Ad ogni modo, con il poco traffico della notte non era un viaggio lunghissimo, ma la poca adrenalina che ancora circolava dentro di loro gli imponeva di correre. Inoltre la macchina di Frank aveva il tachimetro rotto e segnava sempre le zero miglia orarie. Come diceva Frank “Sta incitandomi ad andare più veloce”.
Sorpassarono una macchina ad alta velocità, un fuoristrada che stava procedendo piuttosto lento.
“Levati dalla strada, coglione!”, urlò Joe.
Entrambi gemettero quando videro dallo specchietto retrovisore una luce intermittente blu accendersi all’interno del fuoristrada.
“Merda. Ci mancavano anche gli sbirri! – urlò Frank – Joe, che cazzo facciamo? Scappiamo?”
“Che cazzo dici imbecille, sei impazzito del tutto? – gli rispose Joe – quel tizio non può sapere che abbiamo appena sfasciato una macchina, non può saperlo e basta. Al limite ti affibbia una multa perché stai correndo troppo. Non sei neanche ubriaco stasera, non ti preoccupare. Accosta appena puoi.”
“Sei sicuro Joe?”, supplicò Frank.
“Sì che sono sicuro. Ora fermati”, disse Joe autoritario.
Il fuoristrada dietro di loro fece gli abbaglianti.

Trovarono un punto in cui accostare in un brutto quartiere della città. Era composto perlopiù da palazzi disabitati o in costruzione. Molti erano invasi da vagabondi o drogati. Bel posto, pensò Joe. Il fuoristrada della polizia si fermò un paio di metri dietro di loro. Frank e Joe rimasero ai loro posti e osservarono dagli specchietti l’uomo che era uscito. Aveva un abbigliamento da sceriffo, con un cappello da cowboy simile a quello di Frank e due pistole di grosso calibro legate alla cintura. La stella di latta era in bella mostra sulla camicia beige.
“Cristo – mormorò Joe – ci siamo pure beccati Walker Texas Ranger.”
Il poliziotto si fermò fuori dalla macchina, dal lato del guidatore, e Frank abbassò lentamente il finestrino. Nessuno dei due riuscì a guardarlo in faccia, perché subito l’uomo fece entrare nell’abitacolo il fascio di luce di una torcia, abbagliandoli. Li scrutò per qualche secondo, poi parlò.
“Stavate andando un po’ troppo veloce ragazzi”, disse.
“Signore… - mormorò Frank – è tardi… volevamo solo andare a casa e farci una dormita.”
“Sì, posso immaginare – rispose il poliziotto – a quest’ora tutte le brave persone dovrebbero essere a letto. Voi siete brave persone, ragazzi?”
“Sì signore”, rispose Frank.
“Allora che ci fate ancora in piedi? – disse con fare lugubre il poliziotto – Avete per caso bevuto?”
“No, no signore, non abbiamo bevuto”, disse Joe, con voce più sicura di quella di Frank.
Il poliziotto gli puntò il fascio di luce in faccia, e li scrutò per qualche secondo che ai due ragazzi parse interminabile.
“Uscite dalla macchina ragazzi – disse infine – vediamo subito se non avete bevuto.”
Frank e Joe uscirono dall’auto con fare piuttosto svogliato. Ora riuscirono a vedere bene in volto il poliziotto: era rugoso, ma non vecchio, e sembrava avere la pelle abbronzata. Proprio un Walker Texas Ranger. I due si misero davanti al poliziotto, attendendo qualche sua parola.
“Tu – disse il poliziotto rivolgendosi a Frank – cammina in linea retta.”
Frank, sbuffando, lo fece. Fortunatamente avevano deciso di non bere quella sera, altrimenti sarebbero stati nella merda fino al collo. Quando finì, Frank si voltò verso il poliziotto.
“Bene – disse il poliziotto – ora dì l’alfabeto.”
“A… B… C…”, iniziò Frank.
“Al contrario”, rispose il poliziotto.
“Z… Y… X…”, sbuffò Frank.
“Va bene – disse infine il poliziotto – abbiamo constatato che non siete ubriachi”.
Poi si rivolse a Joe.
“Tu – disse – apri il bagagliaio.”
“Signore… - gli disse Joe – siamo stanchi, vorremmo solo andare a casa…”
“Ti ho detto di aprire il bagagliaio, piccolo stronzo! – urlò il poliziotto, sfogando tutta la rabbia repressa fin’ora – sono io l’autorità qui! Apri quel cazzo di bagagliaio o passerai la notte peggiore della tua vita!”
Joe, terrorizzato, si diresse verso il bagagliaio e lo aprì senza neanche pensare a quello che conteneva: i loro zaini, che a loro volta contenevano le armi con cui avevano sfasciato una macchina. Il poliziotto ci puntò la torcia dentro.
“Che contengono quelli? – chiese – droga forse?”
“No signore, niente droga”, rispose terrorizzato Frank.
“No, non mi sembrate i tipi da droga voi. Non avete le facce da drogati – disse – avete semplicemente le facce da stronzi.”
Ficcò una mano dentro il bagagliaio e prese lo zaino di Joe. Dapprima lo soppesò solamente, poi lo aprì e ci guardò dentro sorridendo.
“Bene bene… - disse lui – credo che questa sia la mia notte fortunata.”
“Signore, non è come pensa…”, iniziò Joe.
“Salite sulla mia macchina”, rispose lui autoritario.
“Signore…”, disse Frank.
“SALITE-SULLA-MIA-MACCHINA-O-VI-AMMAZZO-LI-DOVE-SIETE!”, urlò estraendo uno dei due revolver e puntandolo addosso ai due.
Frank e Joe non poterono fare nient’altro. Con una pistola puntata addosso, salirono terrorizzati sul sedile posteriore del fuoristrada.

Il poliziotto guidava in silenzio. Frank e Joe erano anche loro in silenzio, separati dal poliziotto da una grata metallica. Il tutore della legge aveva preso entrambi i loro zaini e li aveva infilati nel bagagliaio del suo fuoristrada, poi aveva messo in moto.
Trascorsero diversi minuti silenziosi in cui Frank e Joe non riuscirono nemmeno a guardarsi negli occhi.
Infine Joe ebbe il coraggio di parlare.
“Signore… cosa ci succederà ora?”
Il poliziotto rimase in silenzio.
“Signore?”, bisbigliò Joe.
“Quando guido voglio silenzio”, disse il poliziotto. Nessuno disse più niente fino a che non arrivarono al commissariato.

O perlomeno, passarono davanti al commissariato. Il poliziotto, che aveva spento la sirena, ci passò davanti e proseguì oltre. Frank e Joe si guardarono terrorizzati.
“Signore… dove ci sta portando?”, disse Frank, che aveva improvvisamente perso tutta la sua grinta.
Il poliziotto non rispose e continuò a guidare muovendo la testa su e giù, come se stesse ascoltando una canzone nella sua mente.
“Signore? Abbiamo già oltrepassato il commissariato, dove ci sta portando?”, disse nuovamente Frank.
“Testa di cazzo, ho detto che mentre guido voglio SILENZIO. Riesci a comprendere questo termine? SILENZIO. Se ti sento fiatare una sola altra volta passerai una nottata peggiore di quella che già ti aspetta.”
Il terrore si impossessò di Frank e Joe.

Alle ore 03.16 i due ragazzi erano stati legati a due vecchie sedie da giardino ed imbavagliati. Il poliziotto li aveva portati fuori città, in una fattoria abbandonata che sembrava conoscere molto bene, e puntandogli le pistole addosso li aveva cortesemente invitati ad entrare in casa. Frank aveva provato a reagire voltandosi verso di lui, e come tutta risposta si era beccato il calcio della pistola sulla fronte. Joe era stato poi obbligato a trascinarlo in casa mentre perdeva sangue dalla fronte, sempre sotto lo sguardo vigile del poliziotto. Una volta dentro, il poliziotto gli aveva dato una corda e gli aveva detto di legare saldamente Frank ad una sedia. Joe l’aveva fatto e aveva usato i migliori nodi che aveva imparato a fare agli scout, terrorizzato dal fatto che il poliziotto avrebbe potuto sparargli da un momento all’altro. Finito il lavoro, il poliziotto aveva legato lui.
Ora l’uomo dalla faccia rugosa sedeva di fronte a loro, su un’altra sedia da giardino. Aveva rimesso entrambe le pistole nella fondina, ma aveva comunque un’aria minacciosa in volto. Frank era ora cosciente, leggermente stordito, ma cosciente. Perdeva ancora sangue da uno zigomo.
Il poliziotto li scrutò per qualche istante, poi si alzò e tolse il bavaglio di entrambi. Frank si lasciò sfuggire un gemito.
“Prima di tutto ragazzi – iniziò il poliziotto – vi informo che siamo in aperta campagna. La fattoria più vicina dista quasi un miglio, quindi è inutile che vi mettiate ad urlare. Non c’è nessuno a cui chiedere aiuto.”
I due lo fissarono. Joe non poteva vederlo, ma era sicuro che Frank si stesse esibendo nello Sguardo Omicida di Frank.
Il poliziotto prese lo zaino di Frank, lo aprì ed estrasse la mazza da baseball. La poggiò davanti a sé, a terra. Stessa cosa fece con quello di Joe, poggiando a terra il manico della pala da neve e il cacciavite. Li scrutò per qualche istante, poi andò verso Frank e gli sganciò il mazzo di chiavi dalla cintura. Esaminò una per una le varie chiavi che vi erano appese, poi quando ne vide una sorrise. In quel momento, Joe venne colto da una strana sensazione. Il poliziotto buttò a terra anche il mazzo di chiavi di Frank, poi si rimise a sedere.
“Che cosa avete fatto, ragazzi? – disse il poliziotto con voce calma – avete distrutto una macchina?”
Nessuno dei due rispose.
“Siete pregati di rispondermi”, disse con voce calma il poliziotto.
“Sì, l’abbiamo fatto – rispose Frank – il figlio del proprietario dell’auto ci doveva dei soldi ma non voleva darceli.”
“Sono perfettamente sicuro che poteva essere trovato un metodo migliore per farsi ridare questi soldi – disse il poliziotto – è illegale distruggere proprietà altrui senza permesso.”
“Lo sappiamo signore – disse Joe, con un barlume di speranza – abbiamo imparato la lezione signore, e ci prenderemo le nostre responsabilità. Ma per favore, la smetta con questo gioco sadico!”
“Gioco sadico? – sghignazzò il poliziotto – ma quale gioco sadico! Io sono qui per impartirvi la giusta punizione!”
Rise di gusto, e fu orribile. Sì alzò poi di fretta dalla sedia e rimise il bavaglio ad entrambi.
“Vediamo un po’ – disse, esaminando gli attrezzi con cui Frank e Joe avevano distrutto la BMW – come potreste averla ridotta? Beh, di sicuro l’avrete bastonata”, disse prendendo la mazza da baseball blu.
“Sì, certo, di sicuro… con colpi come questo”, colpì Frank con la mazza, in pieno stomaco. Frank ebbe un conato di vomito, Joe tentò di urlare. Il pestaggio di Frank proseguì, mentre entrambi i ragazzi mugugnavano per i bavagli che li tenevano stretti. Poi il poliziotto passò a Joe. Venne pestato anche lui, mentre Frank si riempiva di lividi violacei e il sangue che gli usciva dal naso e dalle orecchie colava sul pavimento. Svennero entrambi dopo pochi istanti.

Quando Joe riaprì gli occhi, non vide più Frank. La sedia al suo fianco era semplicemente vuota. Lui però era ancora legato e il poliziotto era ancora davanti a lui. I vari attrezzi erano appoggiati a terra. Il cacciavite era sporco di sangue. Joe tentò di urlare, il poliziotto gli rise in faccia.
“Se entrambi foste delle automobili, il tuo amico sarebbe un automobile di classe. Ci è voluto parecchio prima di rottamarla. Vedi, eravate entrambi svenuti, ma il tuo amico si è ripreso molto prima. Con lui ho già finito da un pezzo. Ora tocca a te, che sei solo un’utilitaria.”
Il volto di Joe era una maschera di orrore.
“Farò in fretta con te. Devo essere a casa all’alba, e manca davvero poco.”
Il poliziotto raccolse il mazzo di chiavi da terra.
“Vedi, se c’è qualcosa che non sopporto nei giovani, è quando rigano le macchine con le chiavi – disse con voce ferma – non capisco perché rovinare una macchina di uno sconosciuto in questo modo. Specialmente odio quelli che ci disegnano sopra, capisci? A nessuno fa piacere trovarsi un cazzo disegnato sulla macchina.”
Si alzò e strappò via la maglietta di Joe. Il ragazzo provò a dimenarsi, ma riuscì soltanto a far rovesciare la sedia per terra. Il poliziotto rise e gli strappò via i vestiti lasciandolo a torso nudo. Joe per poco non svenne per il terrore quando sentì premersi una chiave contro il torace. Dopo poco il dolore divenne insostenibile e Joe sentì che la sua carne veniva tagliata via. Tentò di imprecare, tentò di chiamare aiuto, ma in cuor suo sapeva perfettamente che era tutto inutile. Passarono più di dieci minuti, poi il poliziotto si tolse da sopra di lui e rialzò la sua sedia. Rise.
“Oh, ti ho rovinato la carrozzeria, ma che peccato – rise – ti conviene farti fare una riverniciatura.”
Joe aveva il disegno stilizzato di un cazzo inciso a fondo nel torace. Ormai non riusciva più neanche ad urlare.
“Sono sicuro che dopo gli avrete anche sgonfiato le gomme, a quel povero cristo. Come fa una macchina a camminare senza gomme?”
Estrasse uno dei due revolver e sparò alle gambe di Joe, all’altezza delle ginocchia. Joe emise delle urla potenti per qualche istante, ma poi si accasciò nuovamente. Era svenuto ancora.
“Tsk. Odio quando alle macchine finisce la batteria – disse il poliziotto – questa poi, non regge proprio. È da rottamare.”
Sollevò nuovamente la pistola e piantò una pallottola nella testa di Joe.

Alle ore 07.14, il poliziotto rincasò. La nottata era stata piuttosto stressante. Odiava avere a che fare con dei ragazzini. Quando rientrò in casa, suo figlio Wilbur gli corse incontro.
“Papà! Hai visto? Qualche bastardo ha sfasciato la tua macchina! L’ha ridotta a pezzi!”
“Non ti preoccupare Wilbur – disse il poliziotto – nella ronda di questa notte ho trovato i colpevoli. È tutto sistemato. Lo sai che la polizia aggiusta sempre le cose.”
Wilbur sorrise.
“Avanti Wilbur – disse il poliziotto – aiutami a scegliere una nuova auto.”