domenica 16 dicembre 2012

Una Notte sul Monte Daruga

Dal trattato “Attraversare i Cancelli – Riflessioni Teoriche sull’Andata e il Ritorno” di Lucy Meister, viaggiatrice di mondi

Quanto è infinitesimale la probabilità che una coincidenza si verifichi? Probabilmente si tratta di un numero talmente piccolo da non poter essere neanche calcolato, altrimenti non si inizierebbe nemmeno a parlare di coincidenza, ma di evento improbabile, fino ad arrivare ai grandi numeri delle possibilità e delle certezze.
Eppure è la coincidenza stessa che definisce questa realtà. Senza una sequela infinita di eventi, tutti dotati della stessa possibilità di riuscita, non si sarebbe giunti alla realtà che conosciamo. Si potrebbe dire che il mondo, e ogni mondo conosciuto, non si tratti altro che di una grandissima e infinitesimale coincidenza. Ma come noi viviamo serenamente nella realtà che conosciamo, in altri luoghi esistono creature, forse simili e forse completamente diverse da noi, che proseguono nella loro vita ignari di tutto ciò.
È stato dimostrato dall’eminente professor Jordan Michael Velles che è possibile varcare i cancelli della realtà tramite l’ausilio di alcuni semplici oggetti di uso quotidiano, che fungano da casualizzatori, veri e propri creatori automatici di coincidenze. Per la scelta di questi oggetti possono essere attuate diverse scelte, ma per quanto mi riguarda ho sempre trovato l’utilizzo di una televisione e quella di un computer dotato di una connessione a Internet le più congeniali e di facile utilizzo.
È sufficiente piazzare i due oggetti in una stanza chiusa, senza stimoli o influenze esterne (non è necessario possedere una stanza insonorizzata e asettica, una semplice camera da letto con le imposte delle finestre chiuse e la porta sbarrata è sufficiente), accenderli e far partire sul computer un semplice programma di randomizzazione di siti Internet, con un nuovo caricamento ogni circa venti secondi. Questo tipo di programma fa sì che il proprio browser Internet visualizzi una nuova pagina scelta casualmente tra i miliardi presenti sul web a intervalli di tempo regolari (una marea di siti porno a dire la verità, ma è comunque un metodo accettabile). Allo stesso modo la televisione deve essere accesa e modificata in modo tale che cambi canale automaticamente ad ogni intervallo di tempo (non deve essere necessariamente lo stesso impostato sul computer, anzi, è consigliabile selezionare un tempo diverso, più corto o più lungo).
Una volta fatto ciò, è sufficiente sedersi in un punto della stanza che offra una perfetta visuale sui due schermi e attendere.
L’attesa può essere lunga e snervante, ed è consigliabile portare nella stanza provviste di cibo e acqua sufficienti per almeno tre o quattro giorni. È altresì consigliabile avere nella stanza un letto comodo dove poter riposare per qualche ora, anche se è stato dimostrato che il sonno fa sì che l’effetto di coincidenza si blocchi. Non potendo visualizzare i due schermi e quindi rendere le coincidenze visibili al cervello, l’effetto di cancello voluto non si verifica. Stimolanti e caffè possono far sì di annullare questa condizione, ma non consiglio di farne abuso. Se avete sonno, mettetevi a dormire e riprendete con calma il giorno successivo. Le probabilità che si verifichi l’evento quella notte sono le stesse che avreste avuto dopo una buona notte di sonno, quindi non fatevi problemi.
Se siete costanti, comunque, prima o poi la coincidenza accadrà: sullo schermo del computer e sulla televisione verranno visualizzate le stesse cose nello stesso momento. Non deve esserci necessariamente una perfetta identicità: basta che si parli dello stesso argomento, dello stesso oggetto, dello stesso cartone animato.
Argomenti di attualità, come fatti importanti accaduti in quei giorni nel resto del mondo, purtroppo, non sortiscono l’effetto sperato: che compaiano gli stessi argomenti importanti su due canali di informazione diversi è una possibilità, certamente non una coincidenza.
Ad ogni modo, quando il vostro cervello si renderà conto dell’avvenimento, dovrete chiudere gli occhi e rilassarvi. Se sarete adeguatamente calmi, percepirete una strana sensazione nell’ambiente circostante, che può essere diversa da persona a persona: alcuni la descrivono come un tremolio nell’aria, altri come una sensazione di freddo o calore intenso, in alcuni e rarissimi casi si potrà avere la percezione che il proprio corpo venga scomposto a livello molecolare e poi ricomposto in un millesimo di secondo, oppure ancora la sensazione di essere divenuti bidimensionali per pochi, brevissimi istanti.
Quando il momento sarà terminato, prendete un bel respiro e aprite gli occhi: sarete giunti in un altro mondo!
Questa pratica, che consiglio solo a individui attentamente preparati, ha però i suoi difetti: non potrete mai sapere in che mondo finirete, e alcuni di essi sono decisamente ostili. Non parlo solo di creature indigene e violente, ma anche ambienti completamente composti da fuoco, privi di ossigeno o dove l’atmosfera per noi è velenosa. Consiglio quindi di dotarsi di equipaggiamento atto a resistere in ogni situazione e di una bella dose di coraggio: ricordate sempre, inoltre, che ogni corpo appartiene al proprio mondo e che basterà un semplice pensiero del proprio mondo nativo per ritornare indietro! Questa è l’arma di difesa più grande per coloro che, come me, decideranno di intraprendere la vita di viaggiatori di mondi. Non importa in quale orribile situazione finirete, basterà solo un pensiero fugace per riportarvi a casa.

[…]

Sembra quindi essere dimostrato che è la coincidenza, lo scontrarsi di due particelle di dimensioni infinitesimali che vagano con una traiettoria casuale nello spazio vuoto, l’evento che scatena l’apertura dei cancelli.
Eppure, per quanto su ciò siano state riempite pagine e pagine, il mio modesto parere pratico di viaggiatrice sostiene che questa non è la vera realtà dei fatti.
Riassumere la mia teoria in una singola frase non sortirebbe l’effetto voluto, mi è necessario descrivervi un avvenimento realmente accadutomi anni fa per spiegarvi tutto con accuratezza.
Ero pronta per un nuovo viaggio esplorativo, equipaggiata con una scintillante tuta carbonica atta a resistere a temperature e pressioni notevoli anche per diversi minuti, cibo a sufficienza per dei giorni e un’arma. Ma erano ormai sei giorni che aspettavo che l’apertura del cancello si verificasse, imbambolata davanti a due schermi che mostravano riprese casuali e pagine internet di tutti i tipi. L’improvviso cambiamento del canale televisivo fece apparire un documentario sull’accoppiamento di un non so quale passero americano e, pochi secondi prima che l’apparecchio cambiasse automaticamente frequenza, sulla schermata del computer comparve una pagina di una nota enciclopedia online sullo stesso animale.
Sentii un gran calore provenire dall’interno. Chiusi gli occhi e li mantenni serrati per qualche secondo, mentre mi si riempiva il corpo di una sensazione di piacevole vittoria. Sentii in lontananza rumore di tamburi e di corni, canti allegri e festosi, odore di zolfo misto ad un penetrante profumo di alcolici portato dal vento.
Quando aprii gli occhi mi resi conto che mi trovavo su di un promontorio roccioso, ed era notte. Stelle luminosissime brillavano nel firmamento e due lune, una grande e bianca e una più piccola e di un tenue colore verde, facevano capolino da dietro una massiccia catena montuosa che si spandeva a perdita d’occhio in ogni direzione. Mi resi immediatamente conto che una gigantesca cresta rocciosa poco distante brillava intensamente, come se fosse completamente avvolta dalle fiamme! Bastò un attimo per rendermi conto che altro non era che un vulcano fumante prossimo all’eruzione, sebbene il terreno non fosse sconquassato da tremori ed eruzioni di geyser solforosi.
Sentii chiaramente che il suono di festa proveniva da quella direzione, così mi incamminai seguendo un largo sentiero lastricato, evidentemente costruito da un qualche tipo di forma di vita intelligente. Decisi di proseguire verso quella direzione.
Non passò molto che vidi giungere in mia direzione un gruppo di strane creature: si muovevano strisciando sul ventre delle loro lunghe code serpentine, ma la parte superiore del corpo era indubbiamente quella di uomo. La loro pelle tendeva ai toni caldi dell’arancione, del rosso e del luminoso fuoco bianco, e i loro occhi scintillavano come braci incandescenti. Tra le mani tenevano clavicembali e corni di ottone, e li suonavano con gioia festante. Quando mi videro, strisciarono nella mia direzione e mi circondarono.
Per qualche istante temetti per la mia incolumità, ma poi notai che nessuno di loro portava armi. Una di queste creature, di queste salamandre di fiamme, mi sorrise con aria bonaria e mi disse qualcosa in una lingua sconosciuta, più simile al suono crepitante delle fiamme che ad un vero e proprio linguaggio intelligibile. Io mi limitai ad annuire, e lui mi indicò il vulcano, facendomi cenno di seguirli.
La voglia di scoprire cosa stava accadendo era tale che accettai senza timore. Arrivammo in breve ad un grande tempio di pietra nera costruito su di una pianura rocciosa a pochi metri dalla bocca sbuffante vapore del vulcano. Sul gigantesco portale di ingresso era incisa una scritta nel nostro alfabeto, ma dal significato sconosciuto: “DARUGA”. Ebbi modo di intuire in seguito che quello era il nome del vulcano, ma non ne ebbi mai la certezza. Era dall’interno del tempio che provenivano i rumori di festa e gli schiamazzi, così varcai la soglia.
All’interno mi si presentò uno scenario sorprendente: centinaia di creature stavano banchettando, suonando e giocando nello scenario di una grandiosa festa dedicata allo stesso vulcano. Tutte le creature, appartenenti a tre tipi completamente diversi, sembravano essere figli stessi del vulcano e delle sue fiamme incandescenti: c’erano decine di salamandre, così splendide con i loro busti muscolosi e i vestiti di ottone scintillante, poi delle creature umanoidi alte poco più di tre metri, con barbe color rosso acceso e occhi della stessa tenebra del carbone, che quando ridevano o gridavano emettevano sbuffi di caldo vapore dalle bocche e dai nasi, la maggior parte intenti a destreggiarsi in ordalie e prove di forza, e infine altre creature dalle forme più disparate (sebbene la maggior parte ricordassero comuni animali, come scimmie, tori e leoni) completamente fatte di fuoco.
Le salamandre mi condussero verso la tavola imbandita e mi fecero sedere ad uno dei posti d’onore, proprio di fianco ad un’imponente gigante vaporoso. Era forse il più grosso di tutti, perché con la testa sfiorava il soffitto dell’immenso tempio, e portava sul volto una maschera d’oro rappresentante un ariete che ne nascondeva buona parte dei lineamenti, ad eccezione della rigogliosa barba fulva che spuntava da sotto.
Il gigante mi disse qualche parola, ma non la compresi. Era però evidente che dovevano avermi preso per qualcuno di importante, forse una maga, comparsa dal nulla nel suo abito scintillante per assistere alla festa in onore del dio vulcano.
Due giganti a petto nudo si scontrarono in una virile (ma non violenta) prova di forza, il cui scopo era buttare a terra l’avversario servendosi solamente delle proprie braccia e solo tramite l’utilizzo di prese. Quando uno dei due riuscì nell’impresa, tutti gli ospiti del tempio esultarono all’unisono.
Uno scarabeo fatto di lava indurita giunse da me trasportando sulla schiena un vassoio d’ottone colmo di frutta freschissima e bevande fermentate dal sapore zuccherino. Per quanto fosse pieno di creature legate al fuoco in quell’edificio, l’aria era fresca e respirabile e gli stessi cibi serviti avevano le stesse qualità.
Iniziai a bere, e persi il senso del tempo. Ricordo vagamente il proseguimento della festa, di quando il gigante dalla maschera d’oro, alzando le braccia, fece calare il silenzio. Venne portato un pupazzo fatto di sterpi intrecciati, simile ad un gigantesco spaventapasseri, e dopo che il signore del fuoco lo ebbe benedetto, venne gettato della piscina incandescente del Monte Daruga.
Con le ore che passavano e l’alcol che intorpidiva le menti, molte furono le creature che decisero di abbandonarsi ad atti amorosi in pubblico, senza alcun pudore. Osservai con curiosità due creature fatte di fiamme viventi avvicinarsi e fondere i loro bagliori fino a divenire un’unica creatura più grande, in una compenetrazione così perfetta e allo stesso tempo così triste, perché impossibile per gli esseri fatti unicamente di carne.
La festa andò avanti per tutta la notte, ma sarebbe inutile continuare a descriverla, perché penso di aver raggiunto l’effetto voluto.
Tu, mio caro lettore, in questo momento stai provando meraviglia.
Ebbene, è la stessa cosa che provai io allora e che provo tutte le volte che, fissando i due schermi elettronici, l’evento si verifica. La coincidenza provoca meraviglia, non c’è nulla di strano in questo. Il nostro cervello non se la aspetta, e quando questa arriva ne è sorpreso.
Perché secondo me è davvero la meraviglia che ci spinge al di là del nostro universo, in mondi immaginabili ma allo stesso tempo così reali. La stessa meraviglia che si prova leggendo un libro fantastico, che ti faccia andare altrove con la mente, che ti renda un tuttuno con la storia.
Solo che qui non c’è una storia già scritta. Questa è pura immaginazione, è speranza, è voglia di separarsi da questa realtà e scoprire cose che non si sarebbe mai stati in grado di immaginare.
È voglia di evadere da questo mondo.
E sono sicura che voi tutti, almeno una volta, vorreste vivere una notte sul Monte Daruga.

mercoledì 3 ottobre 2012

50

Una piccola esultanza. "Cieli di fuoco, giorni di buio" è arrivato a 50 (51, in realtà) copie cartacee vendute. Non male per una prima autoproduzione e autodistribuzione. Molto contento.

mercoledì 1 agosto 2012

Il Cacciatore e il Burattino


Quando il cacciatore giunse al trotto a Villasola era quasi sera. Il paese, abitato da meno di venti anime e consistente di una semplice piazza centrale circondata da un paio di casolari, tra cui la casa del borgomastro, appariva deserto. Al centro della piazza era posizionata una forca in legno alta cinque metri, a cui un cadavere era appeso per il collo. Doveva essere una donna, ma il volto, quasi completamente sfigurato dai corvi e da altri uccelli necrofagi, era irriconoscibile.
Quello ovviamente non era il luogo dove viveva tutta la popolazione. Buona parte di essa abitava in alcune cascine distanti pochi chilometri. Il cacciatore le vide riflettersi nell’acqua stagnante delle risaie, che al tramonto riluceva di una particolare bellezza.
“C’è nessuno?”, chiese a voce alta, ma non ottenne risposta.
Il suo cavallo sbuffò, stanco per il lungo viaggio. Da quando erano partiti, quattro ore prima, non gli aveva ancora concesso una sosta. Era estate e la temperatura che si percepiva era molto alta a causa dell’umidità delle risaie.
Il cacciatore smontò e condusse la bestia tenendola per le redini ad un vicino abbeveratoio, dove immerse la testa avidamente. Anche il cacciatore lo imitò e mise la testa dentro l’acqua per rinfrescarsi e liberarsi del sudore. Quando si rialzò sentì il rumore di una porta aprirsi e alcuni lenti passi avvicinarsi a lui.
Si voltò e vide un uomo giovane e robusto, dall’apparenza di un contadino, che teneva minacciosamente un forcone tra le mani. L’uomo era evidentemente spaventato e probabilmente non lo avrebbe attaccato, ma il cacciatore avvicinò la mano all’elsa della spada.
Chi t’è ti, stranier?”, chiese utilizzando il dialetto tipico della gente delle campagne.
“Eusebio Grandi, cacciatore al servizio del conte Gregorio di Vercelli. Sono qui per risolvere i vostri problemi.”
“Par fortűna che t’è rivà! – gridò il contadino, visibilmente sollevato – chi a Villasola l’è capità de tűt, ci son dei morti… l’è la maledisiun da la strega!
“Fermati un momento, di quale strega parli?”, chiese Eusebio.
Il contadino alzò un dito e indicò il cadavere impiccato, che un leggero venticello stava facendo oscillare macabramente.
“L’è cűla strega lì, l’è nen purtà aut che guai… lei e i sé bűratin!”
Eusebio alzò la mano per far fermare il contadino, che sembrava stesse per aggiungere altro nel suo dialetto che, alle orecchie di Eusebio, era quasi incomprensibile.
“Forse è meglio che parli della cosa con il borgomastro… puoi portarmi da lui?”
“Al burgumastar l’è mort… Semo rimast sulament in dudas persűn in tűt’al vilagi”, disse il contadino alzando le spalle.
“C’è qualcuno che parli la mia lingua?”
“Sì, al mè mat. Ven dent, chi t’a fè parlè con lű.”
Il contadino fece dietro-front e fece cenno ad Eusebio di entrare in casa. L’uomo lo seguì, alzando lo sguardo solo una volta per fissare il cadavere della donna.

La casa dell’uomo, il cui nome era Giovanni, era spaziosa e accogliente, per quanto l’arredamento fosse spartano. Eusebio si accomodò su una sedia e si tolse l’ampio cappello di cuoio, appoggiandolo su un tavolaccio di legno posizionato lì accanto.
Giovanni gli indicò un cesto contenente alcune mele con fare amichevole.
“Pija pur dei pűm. Mi va a ciamè Ilario.”
Eusebio afferrò una mela e inizio a masticarla lentamente. Era dolce e succosa.
Non aveva capito molto di ciò che gli aveva detto l’uomo, ma l’aveva sentito dire chiaramente la parola “burattini”. Ilario sperava che non si trattasse di loro. Avrebbe preferito affrontare un intero branco di cani selvatici che un singolo burattino. Quelle cose gli facevano paura. Istintivamente allungò la mano verso la sacca di cuoio oblunga che portava sulle spalle, contenente un oggetto che gli sarebbe servito molto più della spada nel caso avesse dovuto affrontarne uno.
Dopo pochi istanti Giovanni tornò accompagnato da un ragazzino sporco di terra che poteva avere non più di nove anni.
“Cűs chi l’è Ilario – disse Giovani – l’è l’me matoch. Lű parla pű ben che mia.”
Eusebio annuì. Pur non essendo perfettamente sicuro di cosa significasse “matoch”, il cacciatore dedusse che doveva trattarsi di suo figlio. Eusebio era arrivato dalle terre più a sud solo da pochi anni e non aveva ancora preso dimestichezza con quella strana lingua, ma avrebbe dovuto farlo, prima o poi.
Giovanni andò a sedersi e Ilario fece la stessa cosa posizionandosi su uno sgabello vicino. Il ragazzino fissò Eusebio con un’aria ammirata, come se si fosse trovato davanti una leggenda o un eroe.
“Mio padre ha detto che sei un cacciatore e che hai bisogno del mio aiuto”, disse lui.
“Sono vere entrambe le cose – gli rispose sorridendo Eusebio – non parlo molto bene la lingua delle campagne, così ho bisogno che tu mi spieghi cosa sta succedendo qui. Dove hai imparato così bene la mia lingua?”
“Mia nonna materna mi ha lasciato in eredità alcuni libri… è lì che ho imparato.”
“Roba preziosa – commentò Eusebio con tono solenne – avanti, spiegami cosa è successo qui. Il messaggero che ci avete inviato ha detto solo che alcune persone erano scomparse e si temeva che fossero stati degli animali… ma a quanto ho capito da tuo padre la situazione si è evoluta. Mi ha parlato di una strega… la donna impiccata là fuori.”
Il ragazzino abbassò la testa e Eusebio notò che si era fatto scuro in volto.
“È così infatti – iniziò il ragazzino – quella donna si chiamava Maria Espegnac. È arrivata al villaggio circa due settimane fa portando con sé una gran quantità di mercanzia. Vendeva libri, erbe mediche, utensili, vestiti… insomma, di tutto e di più. Anche se si vedeva che buona parte della roba era usata, si è comunque trattenuta in città per qualche giorno, sembrava che gli affari le stessero andando bene. Dopotutto non sono molti i mercanti che si spingono in questo paesino infestato dalle zanzare, la maggior parte tirano dritti fino a Vercelli e a noi non ci vedono neanche…”
“Quindi si è trattenuta qui per qualche giorno. Dove è stata e poi cos’è successo?”
“Sì, ci sto arrivando. Il borgomastro le ha concesso di stabilirsi nella vecchia cascina dei Bordignon, che sta a un paio di chilometri da qui, in mezzo alla risaia. Ci si arriva tramite una stradina. La prima notte è andato tutto bene, non c’è stato alcun problema, mentre la seconda notte… l’ho vista compiere dei riti di magia.”
“Tu di persona? – chiese Eusebio, visibilmente sorpreso – come mai ti trovavi lì?”
Ilario si fece rosso in viso.
“La donna vendeva anche dei giocattoli, tra le sue cianfrusaglie. Vecchie bamboli, pupazzi, soldatini di legno. Avevo visto un piccolo cavaliere in armatura che mi piaceva molto… ma quando le ho chiesto quanto costava, ha detto una cifra troppo alta per le mie tasche. Così… ecco, io… l’ho seguita fino alla casina dei Bordignon. Speravo in un suo momento di distrazione di riuscire a rubarle il pupazzo.”
Giovanni assunse un’espressione dura ascoltando le parole di suo figlio. Anche se non parlava la loro lingua, sembrava capirla. Ilario lo guardò di sottecchi e abbassò di nuovo lo sguardo, mentre Giovanni grugnì una bestemmia incomprensibile.
“Quello che hai fatto è sbagliato, ragazzino, ma non sono qui per giudicarti, sono qui per capire cosa sta succedendo. Avanti, prosegui, cosa hai visto quella notte? Cerca di essere il più preciso possibile.”
“Maria ha sistemato il carro con la mercanzia e il suo cavallo nella vecchia stalla, poi è entrata nella cascina. I piani superiori erano pericolanti, così è rimasta al piano terra, dove aveva sistemato una branda di fortuna. Io sono entrato nella stalla e ho cercato sul carro, ma non ho trovato il cavaliere in armatura. Assieme ai libri e alle altre cose che avrebbero potuto danneggiarsi rimanendo lì, l’aveva portato dentro. Così, zitto zitto, sono entrato all’interno dell’edificio. Era molto polveroso, ma ci sono abituato. Sentivo dei movimenti provenire dalla cucina, dove si era sistemata la donna. A giudicare dal rumore, stava mangiando qualcosa. Per un attimo mi era parso di sentire una voce con lei… una vocetta stridula, ma sul subito ho creduto che si trattasse dei topi, così ho aspettato che si mettesse a dormire. È passata una mezz’ora, poi non ho più sentito nessun rumore e mi sono avvicinato. Vedevo la luce del fuoco provenire dalla cucina, ma ce n’era anche un’altra, più chiara e brillante… poi ho iniziato a sentire un frastuono.”
“Un frastuono di che tipo?”
“Non so dire, sembravano delle voci… ma erano strane, un incrocio tra il rumore delle foglie secche che vengono calpestate e il sibilo di un serpente. Un rumore molto forte, comunque.”
“Poi che è successo?”
“Beh, non mi sono spaventato e ho deciso di approfittare del rumore per farmi avanti… sono un tipo coraggioso io. Ma quando sono arrivato in cucina… beh, ho avuto troppa paura.”
“Cosa c’era?”
“La donna teneva in mano un oggetto, uno specchio magico. Era sottile e grosso così, più o meno – disse il ragazzino mostrando le mani aperta a una quarantina di centimetri di distanza l’una dall’altra – ma lo specchio non rifletteva la sua immagine. Si vedevano all’interno due uomini vestiti di scuro. Le stavano parlando, era da quello specchio che usciva il rumore forte che dicevo prima. Sono fuggito. Non credo che la strega mi abbia visto uscire, ma di sicuro mi ha sentito… e lui mi ha visto.”
“Lui chi?”, chiese Eusebio.
“Uno dei suoi giocattoli. Era un piccolo pagliaccio alto trenta centimetri e dall’aria simpatica. Ma i suoi occhi brillavano di luce azzurra e mi ha fissato da sopra lo stipite della porta, prima che fuggissi… l’ho visto, ne sono sicuro, non dico bugie. Sono tornato qui e ho raccontato tutto a papà. Lui me le ha date di santa ragione per aver tentato di rubare e poi è andato a informare il borgomastro. Quella stessa notte sono andati a prendere Maria e all’alba del mattino successivo l’hanno impiccata con l’accusa di stregoneria.”
“E la sua merce? Il pagliaccio con gli occhi azzurri?”
“Tutta la sua mercanzia è stata recuperata e bruciata, tranne lo specchio magico e il pagliaccio… loro sono spariti.”

Nel frattempo era calata la notte e Giovanni aveva offerto ad Eusebio di riposare nella stalla. Le innumerevoli zanzare sarebbero state un bel fastidio, ma Eusebio ci aveva quasi fatto l’abitudine: bastava non grattare i morsi ed evitare di accendere luci. Accompagnò dentro la stalla il suo cavallo e, a parte un paio di galline addormentate, si trovò completamente solo.
Rifletté su cos’altro gli aveva detto il ragazzino: dal giorno in cui Maria era stata impiccata, la gente di Villasola aveva cominciato a sparire. La prima vittima era stata una giovane mondina di nome Elisa, ma si era pensato che fosse stata morsa da una biscia d’acqua o fosse affogata dentro una risaia. Quando le sparizioni diventarono tre, cominciarono a dare la colpa ad un branco di cani selvatici. Alla quarta, dopo aver constatato che nessuno aveva sentito ululati nelle vicinanze, avevano iniziato a dare la colpa ad una maledizione della strega. Nessuno tranne Giovanni aveva creduto alla storia del pagliaccio raccontata da Ilario: credevano se lo fosse semplicemente inventato, oppure che nel momento di panico avesse visto cose che in realtà non c’erano.
Eusebio era sicuro che il ragazzino aveva detto la verità, perché in passato era stato costretto ad affrontare altre marionette assassine, impazzite e assetate di vendetta per la morte del loro padrone.
Ilario gli aveva anche detto che, per sicurezza, la vecchia cascina dei Bordignon, dove aveva alloggiato la strega, era stata data alle fiamme. Ciò non era bastato per fermare la serie di omicidi, la cui ultima vittima era stata il borgomastro, ritrovato quella stessa mattina con la gola tagliata nel letto di casa sua.
Giovanni e Ilario si erano chiusi in casa e così avevano fatto tutti gli altri abitanti di Villasola: era molto probabile che durante la sua caccia, Eusebio non avrebbe trovato nessuno a lavorare nei campi. Il miglior modo per cacciare i burattini era attirarli con un’esca, esattamente ciò che avrebbe fatto quella notte.

Il cacciatore si svegliò di soprassalto. Si era posizionato nel soppalco sopra la stalla e stava dormendo della grossa già da qualche ora, ma il rumore dei nitriti di terrore del suo cavallo gli fece scrollare di dosso la sonnolenza in un batter d’occhio. Strisciò silenziosamente fino alla balaustra e osservò al piano inferiore. La bestia stava scalciando mentre tentava di liberarsi di una piccola figura umanoide che gli si stava arrampicando su una zampa. Era alta circa trenta centimetri e aveva un costume bianco da clown macchiato di terra e fango, un cappello a punta con un pon pon azzurro sulla cima, naso rosso a palla e un sorriso divertito. I suoi occhi, però brillavano di una terribile luce azzurra. Tra le mani teneva un grosso coltello da macellaio, che utilizzò per ferire il cavallo alle zampe. Si arrampicò con la grazia di un ragno sulla sua schiena e gli piantò il coltello nel collo possente. Il cavallo si imbizzarrì e dopo pochi istanti crollò al suolo in un lago di sangue.
Dannazione alla vecchiaia, come ho fatto ad addormentarmi?, imprecò mentalmente l’uomo.
Eusebio strisciò fino alla sacca di cuoio che aveva posizionato poco lontano, ma il soppalco scricchiolò rumorosamente. Eusebio strinse i denti.
Il pagliaccio alzò la testa e i loro sguardi si incrociarono. Emise un suono gracchiante, poi corse fuori dalla stalla ad una velocità impossibile per le sue corte gambe.
“Dannazione!”, imprecò il cacciatore. Afferrò la sacca di cuoio e la spada e saltò giù dal soppalco. Osservò per qualche istante il cavallo ammazzato e strinse i denti con rabbia. Ora era una questione di principio, doveva prendere quell’affare. Il conte l’avrebbe pagato con moneta sonante, così non solo avrebbe comprato un cavallo nuovo, ma avrebbe avuto di che vivere per almeno un paio di mesi.
Una volta uscito nella piazza del paese si guardò intorno. Il terreno era fangoso e percorso da piccole orme che la luce della luna rendeva perfettamente visibili ai suoi occhi. Si mise a seguirle lungo alcuni sentieri, fino a che non scomparvero ai margini di una risaia allagata. Probabilmente la creatura si era immersa nell’acqua.
Eusebio però aveva imparato a non sottovalutare l’intelligenza di quegli esseri. Si guardò intorno, cercando i suoi occhi luminosi che non promettevano altro che odio, ma fortunatamente non li vide.
Quegli affari hanno bisogno di sostentamento, ragionò Eusebio, ma dove può trovare una cosa del genere qui in giro?
In lontananza vide i ruderi della vecchia cascina dei Bordignon, ormai ridotta ad uno scheletro carbonizzato. Aveva intenzione di setacciarla l’indomani mattina nel caso il burattino non si fosse presentato, ma ormai si era svegliato, così si incamminò in quella direzione. Decise di passare in mezzo alle risaie, strisciando nell’acqua fangosa che gli arrivava fino alle ginocchia, circondato dal gracidio delle rane.
Se non altro, il burattino avrebbe fatto fatica a sentirlo arrivare.
Eusebio sperò che non ce ne fosse più di uno, ma subito dopo scosse la testa, ritenendolo improbabile: da quello che aveva visto quando il pagliaccio aveva assalito il suo cavallo, era completamente impazzito. Se ci fosse stato un altro burattino, probabilmente si sarebbero distrutti a vicenda.
Strisciò nel fango fino a che non giunse ai margini del cortile della cascina. Nell’aria c’era ancora un forte odore di legno e mattoni bruciati.
“Dove ti sei cacciato, piccolo bastardo?”, sussurrò il cacciatore estraendo la spada. Vide per un attimo due occhi luminosi fissarlo da sotto le macerie, poi il pagliaccio sbucò e gli corse incontro emettendo un verso stridulo. Eusebio portò la spada davanti a sé e colpì con un fendente, ma il burattino fu più veloce e riuscì a schivarlo. Si avvicinò quel tanto che bastava per ferirlo alla caviglia con il coltello da macellaio.
Eusebio calò di nuovo l’arma e lo colpì alla testa, ma quell’affare era dannatamente duro e l’attacco non sortì alcun effetto fisico, anche se sicuramente bastò a spaventarlo. Il pagliaccio corse verso le macerie della cascina e si nascose al loro interno.
Il cacciatore esaminò la ferita alla gamba: fortunatamente si trattava di un graffio, le pezze di cuoio  bollito che portava sotto le braghe avevano fatto in modo che quel mostro non gli recidesse un tendine.
Si mosse lentamente fino alla cascina: gli occhi luminosi erano spariti, ma era sicuro che quello fosse il rifugio del burattino. Spostò alcune assi di legno bruciato fino a che non riuscì a liberarsi la via fino ad una piccola botola che era situata sul pavimento.
Una cantina, pensò, come supponevo.
Aprì la botola e puntò la spada nell’oscuro condotto. C’era una vecchia scala a pioli che portava al livello inferiore. Eusebio aprì la sacca, estrasse una lanterna ad olio e la accese, poi scese lentamente le scale, saggiando la resistenza di ogni singola asse.
La cantina puzzava di chiuso e umidità. Al suo interno, Eusebio vide alcune scatole fradice, un paio di vecchie botti e poco altro. Si guardò intorno con circospezione, cercando di individuare il burattino.
Sentì un verso stridulo provenire da dietro una botte: si stava nascondendo. Con il colpo alla testa che gli aveva rifilato pochi minuti prima doveva averlo ferito molto più gravemente di quanto credesse.
Eusebio rinfoderò la spada e afferrò un secchio impolverato poco distante. Era vuoto, proprio quello che gli serviva.
Si avvicinò fino ad arrivare nei pressi del rumore ronzante e per un attimo vide lo scintillio degli occhi del pagliaccio. L’aveva in pugno.
Con un calcio spostò la botte dietro cui la creatura si era nascosta e con uno scatto di entrambe le mani la intrappolò all’interno del secchio. La creatura si dimenò tentando di uscire, Eusebio la sentì tirare coltellate alla parete di legno che lo imprigionava per tentare di aprirsi la via. A meno di mezzo metro da lui, era appoggiato a terra il luminoso specchio magico della strega, la cui immagine che vi veniva riflessa era un meraviglioso paesaggio di colline verdeggianti.
“Non mi scappi più, bello”, ghignò Eusebio, che si rialzò appoggiando un piede sopra la gabbia del suo nemico.
Il cacciatore aprì la sacca di cuoio ed estrasse lo IEM-4356, un fucile a impulsi elettromagnetici. Quel tipo di armi, costruite nel lontano 2023, non danneggiavano le creature viventi ma emettevano impulsi in grado di distruggere qualsiasi circuito elettronico.
“Come si diceva nei vecchi videogiochi, burattino? – disse Eusebio puntando il fucile – Game Over.”
Sparò con il fucile in direzione del secchio. L’onda elettromagnetica emise una luce bluastra e a Eusebio si rizzarono i capelli in testa, poi il secchio smise di muoversi.
Il cacciatore lo rimosse con cautela. Quel tipo di armi era necessaria per disfarsi dei burattini, ma aveva un difetto: per ricaricarsi richiedeva almeno 24 ore attaccata ad una presa di corrente. Eusebio non avrebbe avuto a disposizione un secondo colpo.
Il piccolo pagliaccio giaceva immobile e i suoi occhi avevano smesso di scintillare definitivamente. Il cacciatore lo afferrò con delicatezza, esaminò il taglio che il colpo di spada gli aveva inflitto sulla testa e gli strappò di dosso il vestito cucito per farlo sembrare un comune pupazzo. Si trovò tra le mani un piccolo robot di acciaio e gomma nera, sul cui torso era stampigliata la scritta ISAAC04.
Dannati modelli difettosi, è colpa vostra se la gente ha paura della tecnologia, pensò Eusebio.
L’uomo aveva studiato la storia su alcuni libri, ma la maggior parte delle persone non era a conoscenza di ciò che era successo meno di cent’anni prima: dopo la crisi economica mondiale del 2013, c’era stato un nuovo periodo di crescita basato sull’innovazione tecnologica, che era culminato con una nuova guerra mondiale per la conquista delle ultime fonti di petrolio e delle riserve di minerali preziosi in Africa. La guerra aveva fatto miliardi di morti e interi continenti si erano distrutti a vicenda. Dopo trent’anni di lotta senza quartiere, la tecnologia era semplicemente stata bandita per favorire la nascita di un nuovo di ritorno al passato. Un’era di stampo medioevale, senza dubbio più pura e semplice rispetto all’oscuro periodo di monopolio economico da parte delle superpotenze mondiali.
Sfortunatamente alcuni antichi reperti tecnologici esistevano ancora ed era compito dei cacciatori come lui recuperarli e, se ritenuti pericolosi, distruggerli. Proprio come quel piccolo robot, un modello che poteva essere impostato per servire un singolo padrone ma i cui programmi di routine generavano decine di conflitti che sfociavano in una furia omicida se questi passava a miglior vita. La maggior parte delle persone credevano che quegli oggetti fossero magici, mentre le streghe e gli stregoni altri non erano che quei rari individui che avevano recuperato vecchia tecnologia ed erano in grado di farla funzionare.
Eusebio osservò lo “specchio magico” da cui il robot stava per trarre nutrimento tramite un apposito cavo, un vecchio notebook dei primi anni del 2010, un vero pezzo d’antiquariato, a sua volta collegato ad una presa di corrente sul muro della cantina, che riceveva ancora energia per chissà quale miracolo.
Il cacciatore prese il notebook e aprì un file sul desktop. Partì un vecchio filmato di due persone che parlavano. I riproduttori audio erano danneggiati e ciò che dicevano era incomprensibile, ma di sicuro il conte Gregorio l’avrebbe pagato bene per quella rarità.
Eusebio lo spense e lo mise nella sua sacca di cuoio, contenente decine di altri oggetti preziosi rubati ad un passato che non c’era più, poi uscì dalla cantina per tornare alla stalla e godersi il meritato riposo del cacciatore.

mercoledì 20 giugno 2012

Giustizia Superiore


“Come sono le condizioni del prigioniero?”
“Ottimali. Attualmente si trova in stato di animazione sospesa. Potete fare ciò che volete di lui… anche se fosse per me l’avrei già fatto uccidere.”
“Non ti trovi qui per esprimere pareri, colonnello Immer’nok. Ora, fallo tornare cosciente. Voglio parlare con lui.”
“Gerarca Okox, le sconsiglio vivamente…”
“Ho già detto che non sei qui per esprimere pareri. So che avete sondato la sua mente e non avete trovato traccia della Parola Zero. Come nostro ex-commilitone, è giusto che Halikan abbia diritto ad un interrogatorio per verificare il suo stato mentale. Liberalo, non lo ripeterò un’altra volta.”
“Sissignore”, disse il colonnello Immer’nok, poi ruppe le righe e si diresse a passo svelto verso l’unità di sospensione riservata ai prigionieri appena deportati nella dimensione Omega-8. Era un congegno grande quanto un armadio a due ante, completamente costituito di acciaio istoriato di rune brillanti di energia magica che avrebbero mantenuto un individuo rinchiuso al suo interno in uno stato permanente di coma e gli avrebbe anche impedito di fare scherzi, come tentare di liberarsi, grazie alle rune di interdizione poste lungo tutta la sua superficie.
Immer’nok era un th-ya della dimensione Kishogy, una creatura umanoide gobba e dalla pelle di un malsano colorito verdastro, dotata di due arti inferiori e quattro arti superiori che finivano in micidiali artigli. Il suo volto era serpentiforme e aveva occhi dalla pupilla color blu notte. I th-ya erano creature rinomate per la grande disciplina e la capacità bellica, anche se Immer’nok dimostrava spesso di avere più iniziativa e capacità di pensare di quella che normalmente viene accreditata ad un comune soldato, ed era quello il motivo per cui il Gerarca Okox l’aveva voluto tra i cacciatori della dimensione Omega-8.
Immer’nok tracciò con le dita artigliate alcuni simboli sulla superficie dell’unità di sospensione, che  subito emesse una leggera vibrazione, mentre la luminosità di alcuni glifi iniziò a perdere di intensità. Il portellone principale si aprì con uno sbuffo di fumo, rivelando la sagoma di chi vi era contenuto.
Halikan era un umano, una creatura imponente alta quasi due metri e dall’apparenza taurina. Era completamente nudo, eccezion fatta per un medaglione d’oro rappresentante una bilancia con i piatti i perfetto equilibrio. Buona parte del suo corpo era tatuata con simboli tribali, ma il tatuaggio più interessante era quello che gli marchiava il lato destro del cranio rasato, una serie di simboli arcani e numeri rossi che indicavano il suo numero e il suo grado tra i cacciatori di Omega-8.
Okox si alzò dalla comoda poltrona in pelle su cui era seduto reggendosi ad un bastone d’argento. Il gerarca era un umano avvizzito, con il volto duro come la corteccia di un albero e la pelle cianotica. Portava una tunica nera di pelle traslucida e alcuni bracciali d’osso e argento troppo larghi che gli traballavano sulle braccia rinsecchite. Come Halikan, anche Okox era rasato e aveva una simile sigla tatuata sul lato destro del cranio. Immer’nok, pur essendo un cacciatore, aveva solo un marchio di riconoscimento sui vestiti: la pelle della sua razza mal sopportava l’inchiostro sottocutaneo.
Halikan aprì lentamente gli occhi e si guardò intorno senza dire niente. Tentò di liberarsi dall’unità di sospensione, ma legami d’acciaio gli stringevano polsi e caviglie. Guardò in direzione di Okox attendendo che il direttore di Omega-8 dicesse qualcosa.
“Fisicamente sembri stare bene. Vediamo se anche il tuo cervello è a posto. Rispondimi, come ti chiami?”
“Halikan”, rispose lui con tono neutro.
“Bene, Halikan, sai dirmi chi sei?”
“Sono un servitore del Feanah’ir, la giustizia, e uno dei cacciatori di Omega-8.”
“Ti ricordi di me? Sai dove ti trovi?”, lo incalzò il gerarca.
“Gerarca Okox, mio diretto superiore, direttore di Omega-8, dove credo di trovarmi ora. Nel particolare, credo di essere nella sala di controllo generale.”
“La memoria episodica sembra che ti sia rimasta. Ora controllerò se hai subito danni alla memoria semantica.”
“Normali procedure”, commentò freddo Halikan.
Okox annuì con soddisfazione e accennò un lieve sorriso.
“Sai cos’è il multiverso? E cos’è Omega-8?”
“L’universo dove ci trovavano è solamente uno tra migliaia e migliaia di dimensioni che insieme formavano il multiverso, uno spazio di grandezza inimmaginabile dove le leggi della fisica e del tempo non sono sempre concordanti. Omega-8 è una terra di cenere grigia che non conosce alcun confine, adibita a dimensione-prigione per soggetti estremamente pericolosi. Alcuni incantesimi infusi nelle stesse particelle di stabilità fanno sì che niente e nessuno possa compiere viaggi dimensionali dall’interno verso l’esterno della dimensione se non tramite l’ausilio di apposite chiavi, ma i prigionieri sono liberi di vagare all’interno e fare ciò che più gli aggrada. Anche uccidersi tra di loro. Tra i soggetti più pericolosi si annoverano Adeo, un organismo di fibra ottica e fasci nervosi delle dimensioni di un piccolo sole, responsabile dell’assorbimento psichico di duecentodiciotto mondi abitabili in novantaquattro diverse dimensioni, Evshoon, creatore di malattie e mente alveare di tutte le bestie che strisciano, Sekhemib l’Immortale, nella sua dodicimilaquattrocentoventiquattresima reincarnazione a partire da Sekhemib il Distruttore, e…”
Okox alzò una mano e, istantaneamente, Halikan obbedì all’ordine e tacque. Il cacciatore si era sempre dimostrato molto obbediente in passato, anche se quel modo di parlare simile a quello di una creatura sintetica aveva sempre messo in soggezione il vecchio gerarca.
“Hai superato appieno il test. Ora non parliamo più come graduati, ma come amici di vecchia data. Come stai, Halikan?”, chiese Okox. Il colonnello Immer’nok, che rimaneva in attesa di ordini di fianco all’unità di sospensione, emise un sibilo che sembrava un sussurro.
“Fisicamente e mentalmente bene, ma ho un gran mal di testa. Inoltre queste costrizioni mi stanno rendendo nervoso. Puoi liberarmi?”
Okox annuì e fece un cenno a Immer’nok, che eseguì l’ordine di controvoglia. Halikan uscì dall’unità di sospensione massaggiandosi i polsi indolenziti.
“Mi devi delle spiegazioni, vecchio mio. Hai servito come cacciatore di entità per questa prigione per diversi cicli, hai contribuito personalmente a rinchiudere qui alcuni dei suoi ospiti più pericolosi. Tutto questo per il senso del dovere e della giustizia più puro e integerrimo che abbia mai visto. Poi scompari per due interi cicli senza dire una parola e senza lasciare nemmeno una lettera di dimissioni. E poi, quando finalmente riusciamo a capire dove sei finito, ti raggiungiamo credendo di trovare un cucciolo smarrito e piangente e invece… scopriamo ciò che hai fatto.”
“Me ne assumo tutte le responsabilità del caso. So di essere un individuo pericoloso e so che sarò rinchiuso per ciò che ho fatto.”
“Tutte le creature viventi della dimensione Naalothorh cancellate dall’esistenza. Non sono state uccise, nemmeno disintegrate. Semplicemente, è come se non fossero mai esistite. Nel momento in cui ciò è successo tutti i libri di storia si sono automaticamente riscritti, i ricordi di chiunque conoscesse viaggiatori provenienti da quella dimensione ancora vivi si sono cancellati, così come tutte le azioni da loro compiute. Ti sembra una cosa divertente?”, chiese Okox, furioso.
“No, non è affatto divertente – rispose Halikan – ma come ho detto me ne assumo tutte le responsabilità. Ho una domanda: se con l’annullamento di tutte le forme vitali l’intera storia del multiverso che riguardava quella dimensione è stata riscritta, come avete fatto ad accorgervene?”
“Non è stato facile. I dati indicavano che di punto in bianco, diverse centinaia di anni fa, tutte le forme di vita di Naalothorh si sono estinte. Nessuna creatura ha più generato figli, nessuna forma vegetale ha fatto più attecchire delle spore sul suolo. È stato pane per gli storici, che hanno tentato di scoprirne la causa. Alcuni calcolatori probabilistici in nostro possesso hanno ventilato la possibilità di un paradosso, così abbiamo fatto analizzare la dimensione ad alcuni kheperer.”
“Gli scarabei magici che si nutrono del paradosso e al contempo lo generano.”
“Esattamente. Ti posso assicurare che hanno trovato Naalothorh una vera e propria prelibatezza. Abbiamo sondato la dimensione per rilevare le possibili minacce, e così ti abbiamo trovato e prelevato. Ricordi cosa è successo poco prima del tuo arresto?”
“Sì, me lo ricordo. Tu mi hai chiesto se fossi stato io, e io ti ho risposto di sì. Tu mi hai chiesto come e io ti ho detto della Parola Zero.”
Okox annuì con fare solenne.
“Conosci la leggenda delle Parole di Potere?”, chiese Halikan.
“Molto vagamente. Miti e leggende di quando ero un ragazzino. Rinfrescami la memoria, vecchio mio.”
“Si dice che nascoste nel multiverso esistano diverse Parole di Potere. Sono parole ancestrali, antiche, che racchiudono in loro un singolo significato profondo. Chiunque senta pronunciare una Parola di Potere subisce immediatamente il suo significato. Le leggende più incredibili parlano di parole in grado di uccidere chi le sente, di trasformarlo in un animale o di farlo innamorare perdutamente di chi le pronuncia. Ebbene, io ho trovato una parola ancora più potente. Quella che viene chiamata Parola Zero, oppure Parola di Non-Esistenza.”
“Chi la sente cessa di esistere?”
“Sì, ma non solo. Chi la sente pronunciare è come se non fosse mai esistito. La parola stessa genera un paradosso che cancella tutta la storia passata dell’individuo e le azioni che ha compiuto, comprese le reazioni che la sua vita ha generato. Questa parola, letteralmente, cambia la storia del multiverso.”
“Come hai fatto ad entrarne in possesso?”, chiese Okox.
“Okox, io sono colui che ha catturato da solo Baelarha, il collezionista di anime, che ha sconfitto in combattimento Ekathon, il titano dalle mille braccia, e che ha consegnato a questo luogo più creature di qualsiasi altro cacciatore che la storia ricordi. Credi davvero che ci sia qualcosa che io non sia in grado di fare? Ho compiuto una cerca che ha richiesto ben due cicli di tempo, ho svolto delle indagini e ho vissuto orrori inimmaginabili. Ma alla fine l’ho trovata e ciò è quanto ti è dato sapere”, disse Halikan con voce solenne, che lasciava appena trasparire una punta di vanagloria.
“Ora però non l’hai più, ed è per questo motivo che ho deciso di parlare con te. Ti abbiamo sondato la mente tramite la magia e non abbiamo trovato traccia della Parola Zero. Non solo, tu stesso sei convinto di non esserne a conoscenza”, disse Okox.
“È vero. Poco prima che tu e gli altri cacciatori veniste a prelevarmi ho consegnato la parola a due compagni che mi hanno aiutato nella cerca. Ho dato loro metà parola ciascuno, in modo che non fossero vittima del suo potere e nemmeno fossero in grado di utilizzarla, poi ho utilizzato un eliminatore di memoria selettiva per cancellarmi completamente il ricordo della Parola Zero.”
“Questi due chi sono? Puoi dirmi i loro nomi?”
“Si chiamano Noctibula e Creodes. Non sono mai andati molto d’accordo, ragion per cui posso fidarmi di loro. Non confideranno la loro parte di segreto l’uno all’altro. Se ne sono andati prima che voi poteste raggiungermi e non credo che li troverete. Sanno nascondersi molto bene. Inoltre, garantisco per loro: non hanno alcuna responsabilità per ciò che è successo nella dimensione di Naalothorh.”
“Questo è tutto da vedere, Halikan. Hai lavorato per me per molto tempo e dovresti sapere che questo luogo non è una prigione dove vengono detenuti i criminali. Questo è un luogo dove vengono detenuti degli individui pericolosi, che abbiano compiuto crimini o meno. Il semplice fatto di conoscere una parte della Parola Zero rende i tuoi amici delle persone da rinchiudere. Lo capisci questo?”
Halikan toccò il medaglione a forma di bilancia che portava sul petto muscoloso e assunse un’espressione mesta.
“Lo capisco, ma non condivido. Non ho mai condiviso, Okox. Le persone dovrebbero essere punite per dei crimini commessi. Questa è giustizia, non quella che proponi tu. È questo il motivo per cui due cicli fa me ne sono andato. Sicuramente in questo luogo ci sono anche dei veri e propri criminali, che sono tutte le creature che ti ho consegnato io personalmente. Ma il potere personale di un individuo non indica la sua propensione al caos. Io stesso sto per essere rinchiuso in questa dimensione e lo accetterò, anche se non ho commesso alcun crimine.”
“Cancellare dall’esistenza tutti gli esseri viventi di un’intera dimensione non è un crimine, Halikan?”, tuonò Okox.
“No, non lo è. Quegli esseri viventi non sono mai esistiti, io non ho mai nuociuto a nessuno. Ho abusato del mio potere, forse questo è vero, ma dal punto di vista di Feanah’ir, la giustizia, io non ho crimini sulla coscienza.”
Il gerarca Okox si portò una mano al volto, stremato. Quella conversazione lo aveva messo in agitazione. Il punto di vista di Halikan era sicuramente corretto. Non lo condivideva, ma era perfettamente logico. Tuttavia continuava a sfuggirgli un dettaglio, forse il più importante in tutta quella vicenda.
“Sarai rinchiuso Halikan, ormai la decisione è stata presa. Sarai circondato da tutte quegli individui che tu stesso hai contribuito a rinchiudere. Tu sei un eroe e un guerriero formidabile, ma anche gli eroi hanno dei limiti. Non sei in grado di affrontarli tutti assieme, prima o poi riusciranno a sopraffarti e allora morirai. Sapevi che saresti andato incontro a questo destino, vero? Allora spiegami, perché l’hai fatto? Perché hai ritenuto una cosa giusta cancellare dall’esistenza tutti gli esseri viventi di una dimensione solo per essere portato qui?”
“Perché, come ti ho già detto, mio vecchio amico, io credo in Feanah’ir. Molte creature sono qui dentro per un crimine e meritano ciò che stanno vivendo, ma le altre? Tutte quelle altre che sono qui perché ritenute troppo potenti. Non meritano un destino simile, così sono venuto a portare rimedio. Una cura che non li farà più soffrire e al tempo stesso permetterà al multiverso di essere al sicuro dai loro poteri. Io sono venuto qui per portare loro la Parola Zero.”
Okox si alzò dalla poltrona con uno scatto nervoso e le sue vecchie ossa scricchiolarono per lo sforzo, ma il gerarca era talmente teso che non sentì alcun dolore.
“Tutto ciò che hai fatto… era un metodo per farti portare qui dentro? La tua ricerca della Parola Zero, nient’altro che…”
“Un modo per farmi rinchiudere in questa dimensione senza compiere atti che avrebbero portato vergogna a Feanah’ir. La giustizia non è mai stata violata, né la violerò mai”, disse Halikan con tono ostinato.
“Ma tu non conosci più la Parola Zero. L’hai data ai tuoi compagni, tu ne hai perso la conoscenza, ne siamo sicuri.”
“Il multiverso è grande, Okox. Talmente grande che può portare un uomo alla follia, specie se mosso da un’ostinata sete di giustizia e spinto verso una cerca che pare infinita. Noctibula e Creodes… sono qui con me. Non devo fare altro che porre loro una domanda e mi sveleranno il loro segreto.”
Okox trasalì e rimase ad osservare Halikan per qualche istante, poi all’improvviso capì e per poco il cuore non gli cedette.
“I tuoi compagni… non sono mai esistiti. Sei tu. Sono delle tue altre personalità.”
“Noctibula e Creodes, grazia e forza, i motori che muovono Feanah’ir. Loro esistono, ma solo nella mia mente, e sono dotati di una propria memoria. E proprio mentre stavamo parlando, io sono nuovamente venuto a conoscenza della Parola Zero.”
Immer’nok si mosse verso Halikan con l’intenzione di aggredirlo, ma il colosso si voltò verso di lui.
“Mi basterebbe pronunciarla, cacciatore.”
Il colonnello si fermò e lo osservò con aria terrorizzata. Non sapeva come comportarsi.
“Sei un folle, Halikan”, disse Okox digrignando i denti.
“Ammetto le mie responsabilità. Ora hai due scelte, Okox. Puoi mandarmi là sotto e imprigionarmi come creatura pericolosa, dove io farò ciò che devo, oppure puoi ascoltare la parola e non essere mai esistito. Tu sei stato il primo cacciatore, senza di te questo luogo non sarebbe mai nato. Se tu non fossi esistito, tutte le creature rinchiuse sarebbero ancora in libertà.”
“Stai bluffando – disse Okox – non lo farai.”
“Nulla può fermare la giustizia quando questa deve fare il suo corso. Nulla può fermarmi.”
Okox rifletté per qualche istante, chiudendo gli occhi. Nella stanza, la tensione era palpabile.
“Rinchiudilo con gli altri, colonnello.”
“Ma signore!”, si lamentò il th-ya.
“Obbedisci o tutta la nostra esistenza sarà stata sprecata!”
Immer’nok abbassò lo sguardo e toccò Halikan sulla spalla, che annuì in direzione del gerarca e camminò in direzione dell’uscita dalla sala di comando e del portale che l’avrebbe portato sul suolo di Omega-8.
Okox rimase da solo nella stanza di comando, ad osservare un libro mastro di migliaia di pagine che racchiudeva i dati di tutte le creature rinchiuse nella dimensione. Osservò lo scaffale contenente oltre trenta libri mastri simili a quello, poi intinse la penna d’oca nel calamaio e trascrisse i dati dell’ultimo arrivato. Il pesante tomo era giunto al completo.
Okox aspettò che l’inchiostro si asciugasse, poi richiuse il tomo e lo posizionò sullo scaffale. Omega-8 aveva appena raggiunto il decimo tomo di prigionieri rinchiusi al suo interno.
Il Gerarca Okox annuì con soddisfazione.

martedì 19 giugno 2012

Viola Scuro


Tsc’yich divenne bianco quando la selce affilata colpì il suo avambraccio affondando con profondità nelle carni grigiastre. Il bianco sfumò fino a diventare screziato di nero. I molteplici occhi del fattucchiere fremettero per quello che stava provando, ma il ruolo che si era assunto all’interno della tribù gli imponeva di proseguire. Colpì un’altra volta nello stesso punto di prima e gli altri membri della tribù, che gli stavano intorno per sostenerlo, sentirono chiaramente il rumore delle ossa che si spezzavano. Nuovamente, il fattucchiere provò il bianco, e subito dopo il nero divenne molto più consistente.
Stava per perdere i sensi, ma sarebbe sopravvissuto anche questa volta. Ndhi-ysth sapeva che se avesse assunto in futuro il ruolo di fattucchiere della tribù, l’automutilazione rituale sarebbe spettata anche a lui. Ma l’avrebbe fatto, avrebbe fatto tutto per il bene della comunità.
Tra gli ogunruhe, la comunità era la cosa più importante.
In quella piccola tribù erano in quattro: lui, il suo genitore Krthuskra, il cacciatore Zsogotel e Tsc’yich. Ndhi-ysth era il più giovane, nato solamente dodici anni prima. Oltre i membri della tribù, non aveva mai conosciuto altri ogunruhe, né era speranzoso di averne la possibilità in futuro: per qualche ragione che non gli era mai stata del tutto chiara, i membri della sua razza venivano uccisi a vista da altre creature che il fattucchiere Tsc’yich considerava senzienti, ma che mai avevano dato prova di un’intelligenza poco più che animale al giovane. Erano esseri piccoli ma temibili, ben più bassi degli ogunruhe. Il loro corpo era spesso ricoperto di disgustosi filamenti sporchi, così simili alla pelliccia degli animali, nella regione della testa e del volto, mentre nel resto del corpo erano quasi glabri come la razza di Ndhi’ysth. Come loro avevano due braccia e due gambe. Come loro avevano occhi (solo due, e non la corona di occhi che circondava la testa bulbosa degli ogunruhe permettendo la visione in ogni direzione). Non avevano un becco affusolato e pulito, ma una bocca piena di denti molto spesso infetti, che si staccavano prematuramente. Non avevano arti membranosi posizionati sulla schiena, simili alle ali degli uccelli ma adatti unicamente per nuotare a gran velocità. Non avevano nemmeno un doppio organo respiratore, che gli permettesse di respirare indifferentemente aria o acqua, ma Ndhi’ysth continuava a pensare che quelle creature, quegli esseri chiamati umani (o nani, nome che indicava dei loro simili molto più bassi e pelosi) non erano così diversi da loro.
Tsc’yich finì di amputarsi il braccio e in quel momento divenne nero, perdendo definitivamente i sensi. Krthuskra si avvicinò con della neve fresca tra le mani artigliate e la posizionò sul moncherino, facendo cessare il getto di sangue che ne fuoriusciva. Il fattucchiere si era già amputato entrambe le gambe in passato, come sacrificio necessario per poter eseguire le sue divinazioni. Era sopravvissuto fino a quel momento, e sarebbe sopravvissuto anche questa volta. Ndhi-ysth non vide traccia di viola scuro nella sua aura.
I tre membri della tribù lasciarono il fattucchiere riposare e uscirono dall’umida caverna naturale parzialmente invasa dalle acque situata a ridosso di una palude ghiacciata e si immersero completamente, congiungendosi al freddo fango che fungeva loro da ambiente naturale.
Krthuskra gli aveva detto che i motivi per cui gli umanoidi li odiavano erano principalmente due. Il primo è che prima che Ndhi-ysth nascesse, in un periodo talmente lontano che persino l’anziano Tsc’yich faceva fatica a ricordarselo, gli umanoidi erano stati schiavizzati dagli ibotha-oshab, una razza proveniente da un mondo lontano, oltre le stelle. Queste creature li avevano utilizzati come animali da soma per edificare le loro città sotterranee e, quando necessario, come cibo per sostenere i propri corpi immortali. Poi gli ibotha-oshab erano stati sconfitti dagli umanoidi, che si erano guadagnati la propria libertà. Gli ogunruhe provenivano dallo stesso passato di schiavitù, ma gli umanoidi credevano che la loro “strana” razza di creature magre e dalla pelle grigia fossero alleati degli ibotha-oshab.
Il secondo motivo è che gli ogunruhe possedevano un senso che era completamente estraneo agli umanoidi: la percezione dell’aura. I loro otto occhi erano in grado di vedere le sfumature colorate che circondavano tutti gli esseri viventi, sfumature che cambiavano colore a seconda delle emozioni provate. Gli ogunruhe non avevano bisogno di dimostrare fisicamente le proprie emozioni con gestualità o toni di voce, semplicemente perché erano in grado di vederle con i loro occhi. Possedevano anche diversi altri poteri come una poco potente capacità telecinetica e la possibilità di generare negli altri incubi e illusioni in grado di uccidere, estrapolati direttamente dalle paure della vittima. Era una capacità temibile, la più potente della razza ogunruhe e pressoché sconosciuta tra gli umanoidi. Una capacità derivata dalla loro grande comprensione delle emozioni.
Questi poteri rendevano gli ogunruhe una razza da temere. Il loro non era odio, non era cremisi, ma era verde scuro, era pura e semplice paura.
Gli ogunruhe avevano rischiato lo sterminio in passato e avevano dovuto premunirsi. Le loro tribù non erano mai numerose, tanto che se nascevano troppi figli, il fattucchiere poteva decretare di eliminarne alcuni appena usciti dall’uovo, per evitare di crescere troppo e attirare umanoidi ostili.
Ed era proprio quello il rischio che la tribù di Ndhi-ysth stava correndo in quei giorni. Andando a caccia di orsi, Zsogotel aveva avvistato una colonia di umanoidi che si era accampata a solo qualche vallata innevata di distanza. Per lo più nani e qualche umano, vestiti di pelliccia e armati di asce d’osso e clave di pietra. Ma la cosa più pericolosa era che loro avevano visto lui.
Era tornato alla palude bruciante di rosso, anche se l’arguto Ndhi-ysth era stato in grado di percepire delle punte di verde scuro dentro di lui.
Quando il cacciatore aveva comunicato agli altri la notizia, Ndhi-ysth era diventato di un verde scuro così profondo che per poco non era diventato nero. Temeva che prima o poi quel pericolo sarebbe giunto e aveva il terrore che la sua tribù venisse distrutta e lui fosse l’unico superstite. Non aveva mai avuto molta compagnia, ma non era mai stato veramente solo. Era ancora troppo giovane per essere in grado di creare delle uova e fecondarle, sarebbero passati ancora diversi anni prima che il suo corpo fosse stato in grado di generare gli organi riproduttivi necessari a far nascere un’altra generazione di ogunruhe.
Temeva di perdere il suo genitore Krthuskra, che aveva ancora tanto da insegnargli. Come di consuetudine, non disse nulla. Agli altri bastò lanciargli un’occhiata per comprendere le sue paura.
Così il vecchio fattucchiere aveva deciso di compiere una divinazione sul futuro, ricevere una profezia dagli stessi spiriti della terra che lo avrebbe consigliato sul da farsi, ma prima di compiere la magia aveva bisogno che le sue ferite guarissero. Non ci sarebbero voluti più di un paio di giorni. Ndhi-ysth nuotò fino al fondo della palude e si ricoprì di zolle di fango e ghiaia, decidendo di ingannare l’attesa riposando.

Alcuni giorni dopo, i membri della tribù fuoriuscirono dalle fredde acque e si posizionarono su un isolotto di terreno innevato. Zsogotel aiutò il mutilato Tsc’yich a issarsi sul terreno, poi si sedettero in cerchio. Tsc’yich posizionò al centro del cerchio formato dai loro corpi il suo braccio amputato, a cui il freddo della palude non aveva ancora fatto iniziare il processo di decomposizione. Il fattucchiere alzò l’unico braccio rimastogli ed entrambe le ali membranose al cielo, intonando un canto vibrante e profondo. Quella lingua, un insieme di gorgoglii, versi striduli e parole inarticolate era la lingua degli ibotha-oshab, che gli ogunruhe avevano ereditato. Era un gergo odiato dagli umanoidi, ma che era necessario utilizzare per invocare l’aiuto degli spiriti. Tsc’yich continuò a salmodiare fino a che non divenne di tutti i colori, un misto di emozioni incomprensibile anche agli ogunruhe che si verificava solo quando un individuo utilizzava poteri ultraterreni.
Il suo braccio amputato venne avvolto in un fuoco mistico e cominciò a consumarsi, mentre il fattucchiere assorbiva le conoscenze del futuro dall’aria stessa. Per agevolarlo, gli altri membri della sua tribù iniziarono a emettere lo stesso lugubre canto, divenendo arancio come quando ci si sente in armonia con il tutto. Ndhi-ysth sperò con tutta la forza di cui disponeva che gli spiriti non gli dessero brutte notizie, che la sua tribù poteva essere salvata e che se dovevano essere distrutti voleva morire con gli altri.
Diventava troppo verde scuro al solo pensiero di rimanere solo.
Ci vollero diversi minuti prima di completare l’invocazione, poi Tsc’yich assunse nuovamente un colore comprensibile. Era azzurro, con delle striature verde scuro. Simili rituali erano pericolosi, mettevano a repentaglio la propria vita, ma Ndhi-ysth non vide alcune macchia di viola scuro.
Tsc’yich alzò lo sguardo verso Ndhi-ysth e divenne completamente azzurro, segno della volontà ineluttabile. Aveva preso la sua decisione.

Ndhi-ysth osservò la palude dall’alto della collina coperta di pini innevati su cui si era nascosto. Vide chiaramente Zsogotel e Krthuskra seduti su alcune rocce, con delle lance d’osso strette tra le mani. Il vecchio Tsc’yich doveva essere lì da qualche parte, magari nascosto tra alcuni cumuli di fango o appena sotto il pelo dell’acqua, pronto a utilizzare la sua letale magia quando gli umanoidi avessero deciso di attaccare.
Era ormai questione di ore, Ndhi-ysth lo sapeva bene. Tsc’yich era venuto a sapere dagli spiriti che entro tre giorni avrebbero portato morte sulla tribù. Per lui, Zsogotel e Krthuskra non ci sarebbe stato scampo, nemmeno nel caso avessero tentato la fuga. Solo Ndhi-ysth avrebbe potuto salvarsi, ma solamente se gli altri membri della tribù gli avessero coperto le spalle combattendo e morendo per lui.
Il più grande incubo di Ndhi-ysth era giunto e lui non aveva potuto fare nulla per opporsi a quella sorte.
Durante quegli ultimi tre giorni, il genitore gli aveva fatto proseguire la sua formazione spiegandogli tutte le cose che avrebbe dovuto fare per sopravvivere, svelandogli i segreti della riproduzione, dicendogli come avrebbe dovuto fare per congiungersi agli spiriti come il loro fattucchiere.
Ndhi-ysth sapeva che avrebbe avuto ancora molto da imparare, ma non c’era stato tempo. Sarebbe andato la fuori, sarebbero dovuti passare ancora trent’anni prima di diventare in grado di generare delle uova. Per i prossimi trent’anni sarebbe stato solo.
Trascorse quei tre giorni nel verde scuro più assoluto e disperato, mentre il suo genitore e gli altri due ogunruhe univano rosso e azzurro, animati dalla volontà di combattere fino alla fine per proteggersi dall’estinzione.
Sarebbe dovuto andarsene già da ore, ma non ce l’aveva fatta. Voleva vederli fino alla fine, voleva vedere le loro aure tingersi di viola scuro. Quei pochi minuti l’avrebbero accompagnato per gli anni a venire, sarebbero stati minuti preziosi trascorsi con loro. Minuti che avrebbe ricordato in eterno nella solitudine che lo attendeva. Minuti in cui la sua aura avrebbe potuto tingersi di rosa, il colore dell’affetto e della devozione che provava per loro, un’ultima volta.
Li vide arrivare dalla valle antistante la palude: erano venti umanoidi dall’aspetto brutale, armati di lance affilate e temibili asce dalla lama di pietra. Nei loro capelli erano intrecciate decorazioni in osso e sassi, usanza che gli ogunruhe, così candidi e magnifici nei loro corpi glabri e nudi, ritenevano brutali. Un alone rosso avvolgeva l’intero gruppo di umanoidi, decisi a marciare e a uccidere qualsiasi creatura diversa da loro avessero incontrato sulla strada.
Zsogotel e Krthuskra si alzarono e si posizionarono in difesa con le lance. Tsc’yich strisciò sulla neve e iniziò a salmodiare gli spiriti con la sua voce vibrante. Essi risposero e la neve iniziò a scendere dalle colline circostanti seppellendo alcuni umanoidi.
I bruti si spaventarono, ma continuarono la loro avanzata. Ora nei loro cuori non albergava più solo il rosso, ma un sentimento ancora più temibile, il blu notte, la vendetta.
Quando i primi furono a portata delle lance dei due ogunruhe, essi colpirono dilaniando le loro carni. Zsogotel lacerò la giugulare di un umano vestito di pelle di mammut facendo scattare il becco, poi venne ferito alla gamba da un colpo d’ascia.
Tsc’yich invocò nuovamente gli spiriti, che modellarono l’acqua della palude in fredde braccia tentacolari che afferrarono due nani stritolandoli.
Il suo genitore Krthuskra venne colpito dai giavellotti scagliati da alcuni umani e venne trafitto. Il suo continuo cambiamento di colore, da bianco a nero, da rosso a viola scuro, rese nera anche l’aura di Ndhi-ysth, che però si fece forza e si costrinse a non perdere i sensi.
Voleva stare con loro fino alla fine. Doveva farlo.
Un nano armato di una gigantesca ascia di pietra raggiunse Tsc’yich, che stava rannicchiato tra alcune rocce, e iniziò a mutilarlo a colpi di ascia. Il viola scuro sopraggiunse quasi istantaneamente. Il vecchio fattucchiere era stato il primo a cadere.
Krthuskra durò solamente qualche secondo di più. Riuscì a trafiggere un umano al petto e poi un giavellotto scagliato da un nano a poche decine di metri di distanza gli si conficcò nel cranio bulboso, facendoglielo esplodere. Fu viola scuro anche lui, poi la sua aura si dissipò.
Perdere un genitore era doloroso, ma nella tribù tutti erano stati genitori per Ndhi-ysth in egual modo. Di nuovo, il giovane rischiò di divenire nero.
Zsogotel riuscì a uccidere altri cinque uomini prima di cadere. Dovettero circondarlo, recidergli le ali con dei colpi di ascia ben assestati e trafiggerlo con le lance diverse decine di volte prima che il suo corpo scheletrico ma straordinariamente resistente smettesse di muoversi.
Viola scuro. Ndhi-ysth aveva visto abbastanza. Si voltò, scappò nei boschi lasciando tutta quella morte alle spalle.
Avrebbe dovuto vivere senza di loro.
Corse per ore, procurandosi numerosi graffi a causa dei rami taglienti e carichi di neve.
Verde scuro.
Sarebbero passati trent’anni prima che fosse stato in grado di generare un altro ogunruhe.
Verde scuro.
Avrebbe dovuto cacciare, dormire, mangiare solo con la compagnia di sé stesso. Forse avrebbe potuto non farcela.
Verde scuro.
Tanto sarebbe valso morire direttamente.
Il verde era così scuro che Ndhi-ysth non aveva mai visto l’eguale.
Continuò a correre fino a che il suo apparato respiratorio fu in fiamme, i suoi due cuori battevano all’impazzata, le aure degli alberi si mescolavano a quelle degli animali in tinte di nero.
Il verde scuro di Ndhi-ysth si tramutò in viola scuro.
Capì.

Stava fissando negli occhi Tsc’yich. Era seduto in cerchio con i membri della sua tribù, il vecchio fattucchiere aveva appena finito di compiere la sua divinazione, dopodiché, mosso da una volontà incrollabile di far sopravvivere la sua razza, l’aveva ucciso facendogli vivere il suo incubo più terribile.
Ndhi-ysth si portò una mano al petto. I suoi due cuori avevano smesso di battere. Gli spiriti avevano dato a Tsc’yich la comprensione degli eventi futuri, tale per cui lui aveva deciso che l’unico modo per far sopravvivere la specie era di liberarsi dell’anello più debole della loro catena. Forse gli spiriti gli avevano rivelato che avrebbero potuto salvarsi solamente in questo modo. Ndhi-ysth non riuscì mai a comprendere il perché, ma non lo biasimava, sapeva che la specie era più importante del singolo individuo. Per gli ogunruhe la comunità era tutto e riuscì finalmente a provarlo divenendo viola scuro.
Era grato per ciò che il fattucchiere aveva fatto. Gli aveva permesso di vivere, anche se solo nella sua mente, gli ultimi giorni con la sua tribù. Gli aveva permesso di imparare cose che non avrebbe mai imparato, anche se non gli sarebbero mai servite a nulla.
Gli aveva permesso di non rimanere solo.
Ndhi-ysth osservò con attenzione Zsogotel e Krthuskra. Anche loro avevano capito e le loro aure si erano tinte di rosa in un ultimo, disperato abbraccio ad un compagno perduto.
Poi si accasciò e tutto quanto si fece viola scuro, definitivamente.
Viola scuro non era morte. Viola scuro era gratitudine.

domenica 6 maggio 2012

Cieli di Fuoco, Giorni di Buio

Il mio primo romanzo, "Cieli di Fuoco, Giorni di Buio", è uscito.

La speranza è persa.

Gli Dèi sono morti.

Il mondo è in mano a loro.

I popoli dell’ex-impero Durkod, dilaniato dalla pioggia infuocata e dall’arrivo delle infernali creature chiamate Esseri, sono in continua lotta per la sopravvivenza. La disperazione giunge anche nel piccolo villaggio di taglialegna di Charad, quando nei boschi viene ritrovata una strana creatura, le cui strillanti parole-significato non preannunciano altro che morte imminente. Il giovane Marcus, un miliziano del villaggio, tenterà il tutto per tutto per salvare ciò che ama, accompagnato da individui che come lui cercheranno disperatamente di sopravvivere un giorno in più. Il destino li porterà ad affrontare un lungo viaggio alla ricerca del potere, della redenzione e, forse, della salvezza.

La pietà è svanita.

Le tradizioni sono distrutte.

Il mondo è in mano a chi sarà abbastanza crudele.

***

Disponibile su lulu in formato cartaceo
E in formato eBook

martedì 3 aprile 2012

Per Mary



Detroit, Anno 2097, Uno
“Ti ho… ti ho già detto… non so di cosa stai parlando…”, rantolò Bill Mulliflex mentre la sua gola veniva serrata da una presa forte come l’acciaio. Bill era un uomo dall’aspetto comune, un metro e ottanta scarso, capelli castani sfumati da qualche punta di grigio, occhi a mandorla ereditati da qualche avo asiatico e fisico da quarantenne dedito all’uso di quella schifezza sintetica che nel duemilanovantasette spacciavano come duro e puro bourbon del Kentucky. In volto aveva qualche cicatrice, sottili strisce bianche che gli solcavano la pelle divenuta prematuramente rugosa, causate più probabilmente da unghie affilate che dalla lama di un coltello. Incontrato per la strada, con indosso la sua divisa nera da operaio corporativo della Microsystem Brocken Enterprise, il palmare collegato allo spinotto AKV impiantato dietro l’orecchio destro e la pistola automatica sotto la fondina ascellare avrebbe potuto anche sembrare un individuo minaccioso, ma in quel momento, con una mano guantata di PVC nero potenziata da impianti sottocutanei e un’altra del tutto simile a stringergli le palle tenendolo sollevato a mezzo metro da terra, aveva lo stesso aspetto minaccioso di una merda di cane.
“Tu dici un sacco di stronzate, Mulliflex. O forse dovrei chiamarti Fratello Superiore Mullin? Forse questo nome servirà a rinfrescarti la memoria”, disse l’altro uomo con voce gelida.
Bill venne scagliato dall’altra parte del piccolo monolocale ingombro di lattine di birra vuote e andò a schiantarsi contro il televisore a 52 pollici che la MBE gli aveva donato come gratifica per i risultati conseguiti solo tre mesi prima. Il vetro a cristalli liquidi andò in frantumi assumendo un colorito cangiante ed emettendo qualche scintilla.
L’altro uomo, anch’esso di corporatura media e vestito con una tuta antiproiettile integrale di un colore nero lucente si avvicinò a Bill, che si contorceva sulla moquette in preda ai dolori.
“Urla pure – disse abbassandosi verso di lui – gli appartamenti di questo condominio sono tutti insonorizzati.”
Bill riuscì a girarsi verso il suo assalitore e, sebbene avesse la vista annebbiata, riuscì a guardarlo in volto. Portava un visore notturno del tutto simile ad un paio di vecchi occhiali da sole di inizio secolo su di un viso tondo e regolare, con capelli neri tagliati corti e un pizzetto lungo solo pochi millimetri. Il volto, così perfetto da poter essere stato ottenuto solo grazie a diversi interventi chirurgici, non aveva alcuna espressione in particolare. Bill sapeva che molti sicari a pagamento si facevano cambiare abitudinariamente i connotati, oltre che le retine, per non essere individuati dalle autorità. Quest’uomo ne aveva tutta l’aria.
Il sicario afferrò Bill per il braccio destro e lo strinse lentamente. Con un ronzio i suoi impianti sottocutanei si attivarono e a Bill sembrò di avere il braccio stretto in una morsa d’acciaio, pronta a spezzarglielo al minimo movimento falso.
“Cosa vuoi da me?”, chiese al sicario.
“Che mi racconti una storia. Non chiedo molto, non ti pare? Voglio che mi racconti di Mary Grabowski, una povera e sfortunata ragazza che hai conosciuto giusto un paio di anni fa. Era bisognosa d’aiuto, tu ti sei offerto di darglielo e lei ci ha creduto davvero… Sei stato un verme ad approfittarti di lei e sei stato ancora più schifoso quando c’è stato quel processo. Tutti i seguaci della setta sono finiti in galera, dove le attività più sacre che svolgeranno per i prossimi quindici anni saranno servizietti a delle guardie carcerarie arrapate. Tutti tranne te, il Fratello Superiore, il guru illuminato della Luddism Nirvana. Ti sembra giusto?”
“Ti ho già detto che non mi ricordo di nessuna Mary Grabowski. Hai sbagliato persona, non so niente di nessuna setta!”
Con uno scatto fulmineo il sicario afferrò le falangi della mano destra di Bill e le piegò fino a che non emisero un sonoro schiocco. Bill urlò di dolore, ma l’uomo gli premette il palmo sulla bocca.
“Ti conviene schiarirti la memoria. Alla prossima bugia ti strappo tutta la mano.”
“Me ne compro una nuova, bastardo!”, sbraitò Bill dopo che il sicario gli tolse la mano dal volto.
“Già, come no. Sei così pieno di soldi da poterti permettere tutto un corpo nuovo, di vera carne, è per questo che vivi in questa merda di monolocale.”
Bill si guardò intorno, come se si fosse reso conto solo in quel momento dello schifo di posto in cui viveva e tacque.
“Di Mary ce ne sono state tante…”, iniziò, ma il sicario lo interruppe.
“A me ne interessa una in particolare, te la ricorderai sicuramente. Capelli rossi e giallo fluorescente, un bel fisico, viveva giù alla periferia sud. Spinotti AKV dietro entrambe le orecchie, ma non quella roba di lusso che hai addosso tu, il vecchio modello. Mary era povera e quei pochi soldi che guadagnava se li spendeva per farsi di Cybermeth 1.7. È proprio per quel motivo che è venuta da te per la prima volta. Non riusciva più a vivere, voleva che la facessi smettere con quella merda che le aveva quasi fritto i neuroni. E tu la accolsi a braccia aperte…”
Bill non seppe dire se furono le parole del sicario o il dolore a farlo ricordare, ma improvvisamente si ricordò di Mary. Non riuscì a visualizzare il suo viso, ma ricordò molto bene l’entrata nella setta della ragazza.
“Cosa vuoi sapere?”, chiese al sicario mentre si osservava le dita rotte.
“Voglio che mi racconti per filo e per segno ciò che ha fatto nella setta. Che cosa le avete fatto tu e quei mangiamerda dei tuoi fratelli. Voglio che mi racconti la verità, tutta quanta, senza omettere nulla. Il tuo corpo ha tante cose che posso strappare per farti parlare.”
“Va bene… come ti devo chiamare?”, gli chiese Bill. Era la paura a farlo straparlare, altrimenti quella domanda non si sarebbe spiegata.
“Puoi chiamarmi Mordred. Avanti Bill, comincia a cantare.”

Il Racconto di Bill Mulliflex, Anno 2095
La sede della Luddism Nirvana era situata in un monastero eretto nel 1901 nei pressi dell’allora centro di Detroit. Era un grande edificio di mattoni di tre piani, dotato di un tetto spiovente e un ampio giardino nel chiostro interno.
La setta, formatasi solamente tre anni prima, si era insediata nell’edificio da poco tempo, in seguito ad una grande donazione in denaro ottenuta tramite una maratona televisiva. Il Fratello Superiore Mullin, fondatore della setta, aveva colpito l’attenzione dei media e nel giro di pochi anni aveva raggiunto il successo, venendo reputato un uomo carismatico e convincente. Il dogma della Luddism Nirvana predicava l’astensione dall’utilizzo di qualsiasi tecnologia prodotta dopo il 2027, anno dello scoppio della terza guerra mondiale per il controllo degli ultimi giacimenti di petrolio, dopo il quale furono le banche e le grandi multinazionali a dirigere apertamente l’orchestra. Le nuove meraviglie hi-tech prodotte dopo quel periodo, come la NGNW (New Global Neural Web) e gli impianti cibernetici costituivano un pericolo per la salvezza dell’intelletto e dell’animo umano. Sebbene il Fratello Superiore Mullin avesse attirato l’ira di molte grandi imprese con le sue evangelizzazioni televisive, si vociferava avesse un santo protettore in qualche piano alto di una multinazionale, ragion per cui la Luddism Nirvana non aveva ancora subito sabotaggi di rilievo.
Il Fratello Superiore Mullin, il cui vero nome era Bill Mulliflex, si trovava nel suo ufficio al terzo piano dell’edificio, una stanza arredata secondo gli standard della moda del secondo decennio del ventunesimo secolo. Portava indosso solo una semplice tunica di lino bianco, immacolata come la purificazione tecnologica che egli aveva raggiunto. Sulla sua scrivania in mogano, oltre che alcune vecchie fotografie d’epoca, era posizionato un computer portatile del 2026 perfettamente funzionante, un vero pezzo d’antiquariato.
Bill stava esaminando alcuni grafici sull’andamento economico della setta dell’ultimo trimestre quando qualcuno bussò alla porta.
“Chi è? Avanti”, disse pacatamente.
Un uomo vestito con una tunica del tutto simile, ma di un grigio ceruleo, si fece avanti. Sopra la tunica portava solamente una cintura con la fondina di un vecchio revolver.
“Una nuova adepta, fratello. Ha espresso il desiderio di entrare nella setta.”
“Spero per te che questa pivella costituisca un valido motivo per disturbarmi, Seymour. Come si chiama?”
“Mary Grabowski, fratello. La faccio accomodare?”
“Sì, sì, falla entrare – rispose Bill chiudendo il portatile – ma rimani fuori dalla porta.”
Seymour uscì e dalla porta fece capolino il viso di Mary. Era una ragazza di media altezza, con capelli tenuti legati in diverse trecce di colore rosso fuoco e giallo fluorescente. Tra i capelli, come ornamento, portava diversi tubi colorati in plastica, che si mischiavano alle trecce dando l’impressione che la sua cute fosse molto più folta di quello che in realtà era. Aveva vestiti aderenti color blu elettrico, una nanotuta integrale in fibra di carbonio che rallentava l’invecchiamento della pelle e metteva in mostra le forme minute ma provocanti del suo corpo.
Non appena la vide, Bill le sorrise con dolcezza.
“Fatti avanti, Mary. Non essere intimorita.”
Lei si fece avanti mantenendo lo sguardo basso. Aveva un’espressione triste e stanca, sebbene gli occhi si muovessero come impazziti nelle orbite, segno di una qualche alterazione neurale.
Bill si alzò e le andò incontro, stringendole la mano guantata.
“Piacere di conoscerti, sono il Fratello Superiore Mullin. Accomodati, non farti pregare. Desideri qualcosa da bere?”
Mullin la accompagnò fino ad una comoda poltrona posizionata davanti alla scrivania tenendole una mano sulla schiena.
“Si, grazie”, disse lei quasi sussurrando.
“Vuoi del caffè, del tè? Ho un ottimo whiskey del 2018, è delizioso. Ne gradisci?”
“Sì, signor Mullin. Cioè, no, anche del caffè andrà benissimo, grazie.”
“Non chiamarmi signor Mullin, chiamami semplicemente fratello. Sei venuta qui per chiedere il mio aiuto, ma non sentirti obbligata a trattarmi come se fossi il tuo capo. Parla pure liberamente.”
Mary annuì e attese che Bill le servisse il caffè. L’uomo preparò tutto con una macchinetta d’epoca, utilizzando una mistura di caffè che non contenesse chicchi sintetici. Servì la tazza alla ragazza, che la strinse con entrambe le mani e ne bevve avidamente un sorso, poi andò a sedersi alla sua poltrona dall’altro lato della scrivania.
“So che hai espresso il desiderio di entrare nella setta, Mary, e non posso che esserne felice. Ma io devo sapere se c’è qualcosa che ti turba, qual è il desiderio che ti spinge ad abbandonare questo mondo. Parlami francamente, non ho intenzione di giudicarti, ma solamente di porgerti una mano amichevole”, disse Bill con voce melliflua.
Mary alzò lo sguardo, lo osservò dritto negli occhi e Bill poté osservare meglio i suoi: un verde così brillante che poteva essere stato ottenuto solo con la chirurgia oculare, e talmente nervosi che la ragazza sembrava essere impazzita.
“Sono una drogata”, disse lei con un tono di voce duro.
“Mi dispiace, Mary. Sono molti i giovani che al giorno d’oggi hanno problemi con la droga. Là fuori il mondo è impazzito e sono tanti quelli che, non avendo il coraggio di fare nulla per cambiare, si perdono d’animo. Ma tu, Mary, hai fatto il primo passo venendo qui e so che è stato quello più difficile. Rispondimi di nuovo sinceramente, di quale droga fai uso?”
“Cybermeth, versione 1.7. Vaffanculo, tra tutte le droghe che c’erano dovevo beccarmi pure quella buggata.”
“Non sono molto informato sulle nuove droghe, dovrai parlarmene. Di cosa si tratta, una nuova anfetamina sintetica?”
“Più o meno, ma è completamente diversa. È un drug-software. Gli spacciatori vendono dei piccoli banchi di memoria che possono essere collegati ad una porta AKV neurale – disse Mary, spostando una ciocca di capelli per mettere in mostra la presa innestata dietro l’orecchio destro – quando ciò avviene, la porta scarica il software e lo fa partire direttamente nel cervello, mandandoti in corto circuito i neuroni. Il programma gira per circa un’ora e fa lo stesso effetto di un trip di acido. All’inizio sembrava essere una roba buona. Causa dipendenza come le altre droghe, ma non essendo polvere o roba da ingerire non ti fotte polmoni e fegato. Poi si è scoperto che le porte AKV non reggono bene il programma e alla lunga questo ti ammazza i neuroni. È quello che mi sta succedendo, i miei occhi non sono sempre stati… così.”
“È terribile ciò che questo mondo può fare ai giovani. Va bene Mary, voglio aiutarti – disse Bill aprendo le braccia in un gesto comprensivo – ma dovrai essere tu a fare i primi passi. La Luddism Nirvana predica l’astensione da ogni forma di tecnologia moderna. Non voglio mentirti, non sarà facile, ormai niente viene più prodotto allo stesso modo di quasi settant’anni fa. Non le automobili, non il cibo e nemmeno… i vestiti.”
Bill indicò con un gesto esplicativo la nanotuta in carbonio di Mary, che abbassò lo sguardo in silenzio.
“La setta ti aiuterà a gestire le tue necessità, ma il primo passo dovrai farlo tu sbarazzandoti da ogni forma di tecnologia che porti con te.”
“Devo… devo spogliarmi?”, chiese Mary con tono intimorito.
“Non ti chiederei mai di farlo davanti a me, ma dovrai comunque farlo. Ti verranno forniti degli abiti consoni e finché rimarrai tra queste mura dovrai indossare la tunica, come noi. Più questa è di colore chiaro, più indica un alto raggiungimento spirituale negli ideali del nostro credo. Quella sarà la prima operazione. La seconda sarà la rimozione dei tuoi innesti. So che simili operazioni costano, ma la Luddism Nirvana possiede una sala ambulatoria servita da esperti cybermedici. Rimuovere quegli spinotti AKV per sempre sarà la miglior cura possibile alla tua dipendenza. Possiedi altri innesti?”
“No, fratello… non me li sono mai potuti permettere.”
“Credo che questo sia un bene. Ora vai pure, una sorella dell’ordine ti scorterà fino ad camerino dove potrai cambiarti. Ci rivedremo molto presto”, disse Bill alzandosi dalla poltrona e porgendo amichevolmente la mano a Mary. La ragazza la strinse, si alzò e uscì dalla stanza.
Seymour fece la sua ricomparsa dopo alcuni minuti.
“È di tuo gusto, Fratello Superiore?”
“È perfetta – rispose lui leccandosi le labbra – trattatela bene fino a che non sarà pronta.”

Erano passati quasi tre mesi da quando Bill aveva visto Mary per la prima volta. Il Fratello Superiore della Luddism Nirvana si trovava al di là di un vetro a specchio, intento a scrutare sulla sala operatoria situata nei sotterranei del vecchio monastero. Era un luogo ampio e dall’aspetto asettico, dotato di un tavolo operatorio d’acciaio e alcuni macchinari computerizzati per la rimozione di impianti, l’unica tecnologia post-2027 che la setta approvava. Un cybermedico esterno alla setta e alcuni infermieri stavano allestendo la sala per l’operazione di rimozione di impianti neurali AKV che Mary Grabowski avrebbe dovuto affrontare.
Bill rimase in attesa per qualche minuto, dopodiché Mary venne portata nella sala su di una barella spinta da un infermiere. La ragazza indossava solamente una veste medica verde scuro e aveva rimosso tutti i tubi di plastica colorata dai capelli, che ricadevano sul lettino in una tonalità bicromatica abbagliante. Dietro le orecchie, dove si trovavano i due spinotti, era stata rasata. Era sveglia e i suoi occhi impazziti scrutavano di qua e di là.
Il cybermedico, che calzava un abito di plastica asettica bianco, si avvicinò alla ragazza.
“Mary Grabowski, dico bene? – chiese, retorico – stai per subire un operazione al cervello. Dovrò agire direttamente sul tuo sistema nervoso per rimuovere gli spinotti, ragion per cui non potrò usare l’anestesia per troppo tempo, il tuo corpo potrebbe subire un collasso. Collegherò al tuo cervello un programma che ti indurrà in uno stato di falso coma. Non sentirai e non vedrai niente, ma il tuo corpo manterrà le stesse funzioni che mantiene abitualmente durante la veglia. Dovrai solamente stare calma, intesi?”
“Ho capito dottore”, rispose lei.
Collegarono un cavo allo spinotto destro di Mary e uno degli infermieri maneggiò per qualche istante con un computer. Quasi subito il corpo della ragazza si paralizzò e le pupille, che fino ad allora erano state in perenne movimento, si fermarono.
Bill entrò nella sala operatoria con un’espressione sorridente.
“Tutto a posto, dottore?”
“La paziente è sveglia, ma il suo sistema nervoso è paralizzato. Non può ricevere sensazioni esterne, né muoversi”, comunicò il dottore.
“Molto bene dottore. Potrete svolgere l’operazione non appena avrò finito con la mia adepta. Andate pure, vi farò chiamare io.”
Il dottore e i suoi collaboratori annuirono e, come da accordi, lasciarono la sala.
Bill estrasse una ricetrasmittente dalla tasca e la accese.
“Seymour, puoi scendere. Porta i novizi che hai radunato.”
Il Fratello Superiore si avvicinò al volto di Mary e iniziò a carezzarlo languidamente, poi si chinò e le baciò le labbra calde e immobili.
La porta della sala operatoria si aprì e il fratello Seymour, accompagnato da altri cinque fratelli dalle tuniche nere, fece il loro ingresso nella sala.
“Lieto di avervi qui – disse Bill voltandosi verso di loro, sorridendo come sempre – oggi avrete la possibilità di passare ad un rango superiore della setta, di trascendere il metallo e l’elettricità per dedicarvi unicamente alla carne e alla mente. L’unica cosa che dovrete fare è comprendere con i vostri stessi occhi cosa la tecnologia è capace di fare alla mente umana. Essa ci rende burattini e schiavi, incapaci di eseguire i nostri voleri. Schiavi del sistema, servi di qualcosa di materiale, incapaci di seguire i nostri istinti, le nostre voglie e le nostre paure. Osservate questa donna corrotta!”
Bill strappò con violenza la veste medica a Mary, lasciandola completamente nuda sul tavolo operatorio.
“Fratello Seymour, ti prego, mostraci come è in grado di corromperci la tecnologia.”
Seymour si accomodò al computer collegato al cervello di Mary e iniziò a digitare sulla tastiera. Dopo pochi istanti Mary si alzò e si mise a sedere sul tavolo. I suoi occhi erano ancora immobili, il suo sistema nervoso sotto il completo controllo del fratello in grigio ceruleo. I novizi in abito nero osservarono la scena con sguardo voglioso.
“Sono una puttana drogata – disse Mary con voce atona – farei di tutto per potermi fare ancora una volta. Qualsiasi cosa possa fare per guadagnare un po’ di soldi, la farò.”
“Qualsiasi cosa, avete sentito? Questa donna farebbe qualsiasi cosa per potersi fare con la sua merda software uploadata direttamente nel cervello! Venderesti il tuo corpo, donna? Lo faresti?”
Seymour digitò altri comandi sulla tastiera e Mary rispose.
“Sì, lo farei.”
“Hai qui davanti cinque giovani aitanti, Mary – le disse Bill aiutandola a tirarsi in piedi – oggi mi sento generoso, pagherò io tutte le prestazioni che ti chiederanno. Così potrai comprarti tutta la roba che vorrai. Come si dice, Mary?”
“Grazie, padrone”, rispose lei.
Seymour digitò altri comandi sulla tastiera, facendo partire alcuni programmi. Mary si diresse con aria lasciva verso i cinque novizi, lo sguardo immobile davanti a sé.
“Fatemi tutto ciò che volete”, disse.
“Purificate questa puttana tecnologica con la vostra filosofia immacolata e ascenderete ad un nuovo livello del nostro Nirvana!”, esclamò Bill.
I cinque adepti iniziarono a toccarla. Il Fratello Superiore osservò tutto, senza perdersi il minimo dettaglio.

Quando fratello Seymour e i cinque novizi, ora ascesi alla tunica color grigio scuro, se ne furono andati, Bill aiutò il corpo inerte di Mary a indossare l’abito medico e chiamò il dottore e i suoi assistenti con la ricetrasmittente. Gli esperti di cyberimpianti si misero al lavoro senza fare domande, abituati e ben pagati per tacere su qualsiasi cosa fosse successa lì dentro ed ignorare i lividi della ragazza. Bill rimase nella sala operatoria per tutta l’operazione, ad osservare la dolce Mary e il suo grande passo verso una nuova vita immacolata. Quando fu il momento di rimuovere lo spinotto di destra, il dottore somministrò a Mary una piccola dose di sedativo e si affrettò a completare l’operazione prima che il sistema nervoso collassasse.
Furono necessarie alcune ore, ma tutto andò a buon fine.
“È andato tutto bene?”, chiese Bill.
“L’operazione è riuscita perfettamente – rispose il dottore asciugandosi le mani – la paziente è in ottima forma.”
“Entro quanto sarà sveglia?”
“Un paio d’ore, ed entro dopodomani potrà già muoversi dal letto. L’operazione non è stata particolarmente invasiva. Ma come ben sa, lavori del genere sono parecchio costosi.”
“Mary oggi ha guadagnato… molto denaro. Potrà pagare l’operazione, non dovrete preoccuparvi. Riaccompagnatela alla sua stanza”.

Detroit, Anno 2097, Due
“E poi?”, chiese Mordred.
“E poi niente – disse Bill, tenendosi la mano dolorante – è stata l’ultima volta che l’ho vista. Mi fu riferito che appena gli effetti del sedativo cessarono, si svegliò e iniziò ad urlare. Ha dato fuori di matto, ha quasi squarciato la gola ad un’infermiera con un bisturi ed è fuggita dal monastero. Non ho mai saputo che fine abbia fatto.”
“Poi, qualche mese dopo, alcuni agenti di polizia si sono infiltrati nella vostra setta e hanno scoperto che non eravate altro che una fottuta gang di stupratori. Sono finiti tutti in galera, gli adepti, fratello Seymour, i cybermedici che coprivano le vostre fantasie sessuali… tutti tranne te. Comodo avere uno zio all’interno della MBE, vero? Sono pronto a scommettere che è lo stesso che ha fatto così tante donazioni alla Nirvana Luddism e che ti ha dato questo lavoro dopo averti fatto cambiare leggermente l’aspetto grazie ad un po’ di chirurgia. Quando si dice che la famiglia è sacra…”
“Ti ho raccontato tutto quello che sapevo, non ho mai più rivisto quella Mary Grabowski! Cos’altro vuoi da me?”, urlò Bill in preda alla disperazione.
“Sei stato un buon narratore, ma ora voglio che tu sia un ascoltatore. Voglio raccontarti la storia di Mary, ciò che le successe dopo quella notte. Non richiederà molto se tu sarai silenzioso e attento.”
Bill rimase in silenzio e cercò di mettersi in posizione più comoda su ciò che rimaneva del suo televisore, ma le braccia d’acciaio di Mordred lo inchiodarono nuovamente al suolo facendogli lanciare un urlo di dolore.
“Sai qual è il vero problema della Cybermeth 1.7? Oltre a fotterti i neuroni, certo. Quella roba è talmente buggata che manda a puttane anche i contatti degli AKV neurali. Quelli di Mary, per esempio. Funzionavano ancora, ma ogni tanto avevano qualche problema ad accettare nuovi programmi. Il software di blocco neurale che le è stato uploadato poco prima dell’operazione funzionò solamente a metà: fece di Mary un burattino controllato da un computer, ma non le bloccò la percezione del mondo esterno. Quella ragazza ha visto e sentito tutto quanto e al momento del suo risveglio… se lo ricordava bene.”
“Oh, cazzo”, disse sottovoce Bill. Mordred gli tirò un calcio nelle palle e il dolore fu tale che l’uomo non riuscì nemmeno ad urlare. Dalla forza con cui gliel’aveva tirato, doveva avere degli innesti di potenziamento anche negli arti inferiori.
“Proprio quello. Ora ascoltami, figlio di puttana. Non ci metterò molto.”

Il Racconto di Mordred, Anno 2095
Durante quella notte d’autunno, a Detroit pioveva. La pioggia era gelida e appiccicosa, per nulla in grado di lavare via il tanfo che si propagava dalla spazzatura marcescente e dai rifiuti metallici abbandonati per strada.
Mary, impazzita dalla paura e dal dolore, era riuscita a correre fino all’unico luogo che aveva mai chiamato casa: il Loomy Device & Hardware, un negozio di innesti usati e, in generale, “pezzi di ricambio” dove fino a pochi mesi prima lavorava come commessa. Il proprietario, il vecchio Jackson Colt, era stato per lei come un padre adottivo.
Mary non aveva famiglia, non l’aveva più avuta da quando i suoi genitori erano stati uccisi durante una guerra tra le bande dello sprawl a causa di alcune pallottole vaganti. All’epoca lavorava già al negozio di Jackson e quando aveva comunicato la terribile notizia all’uomo, il burbero cinquantenne dalla barba bianca le aveva offerto di trasferirsi lì a tempo indeterminato. Non si sarebbe mai aspettata una gentilezza simile da parte sua, ma Mary sapeva che, sotto sotto, il vecchio Colt era un uomo di buon cuore, anche se la vita era stata dura con lui, portandogli via due figli e il braccio sinistro, sostituito da un vecchio braccio cibernetico multifunzioni, un arnese sferragliante che causava più problemi di quanti ne risolvesse.
Poi Mary aveva iniziato a frequentare le compagnie sbagliate e a fare uso di droghe, una storia semplice e sentita più e più volte, che può capitare a chiunque. Non aveva mai rivelato la cosa a Jackson, che però aveva subito notato i tic nervosi agli occhi dovuti all’abuso di drug-software. Temendo la sua reazioni, Mary era scappata per rivolgersi alla Luddism Nirvana e da allora non aveva più rivisto il vecchio burbero, ragion per cui l’uomo rimase molto sorpreso quando aprì la porta e la ragazza disperata gli si scagliò contro.
“Mary, che ti è successo? Dove sei stata! Entra, sei tutta bagnata… merda, vieni al caldo, qua fuori si gela!”, disse l’uomo portandola all’interno del negozio, una stanza angusta piena di pezzi di ricambio e parti di impianti cibernetici ammassati disordinatamente sopra decine e decine di scaffali.
Jackson le portò un asciugamano e una coperta, oltre che un tè sintetico caldo. La ragazza pareva essersi calmata, ma da quando era entrata non aveva ancora pronunciato una parola. Il vecchio le si sedette di fronte e le strinse le piccole mani con la sua unica mano di carne.
“Sei gelida. Mary, ero in pena per te. Ho creduto che fossi morta. Cosa ti è successo, perché hai indosso questo abito da paziente di ospedale?”
“Sono stata… presa”, rispose lei, le pupille impazzite che non smettevano un attimo di vibrare.
“Sono stati i trafficanti di organi? La yakuza? Dimmi chi ti ha fatto del male.”
Mary gli raccontò tutto, fino all’ultimo dettaglio. Della sua dipendenza, della setta, dello stupro subito. Poi scoppiò di nuovo a piangere e Jackson la strinse tra le braccia. Per quanto il braccio cibernetico dell’uomo fosse di gelido metallo, Mary provò una sensazione di calore.

Mary stava guardando alla televisione un servizio del TG di Detroit che informava che gli adepti della Luddism Nirvana erano stati condannati al carcere con l’accusa di rapimento, circonduzione d’incapaci e stupro di gruppo. Erano passati alcuni mesi da quella notte e Mary si era rimessa fisicamente, ma non mentalmente.
“È finita, Mary. Quello più fortunato si è beccato trent’anni di galera”, disse Jackson, intento a sistemare alcune scatole sugli scaffali.
“Quello più fortunato. Quello col culo più parato è fuori e non si farà nemmeno un’ora di carcere. Fratello Superiore Mullin.”
“Le accuse su di lui sono cadute. È finita.”
“Non è finita! – esclamò Mary scattando in piedi – deve pagare per quello che ha fatto a me e a decine, centinaia di altre ragazze come me! Hai sentito? I poliziotti infiltrati hanno assistito a sedici stupri! Sedici stupri in tre mesi! Quella setta esiste da quasi quattro anni, fatti due conti Jackson! Quell’animale deve morire per quello che ha fatto… e io, come una cretina, mi sono fidata di uno sconosciuto…”
Mary si mise le mani tra i capelli, sull’orlo del pianto. Jackson le andò vicino, mettendole una mano sulla spalla.
“Cosa vorresti fare, Mary? Dimmelo e ti aiuterò, se è in mio potere. Odio anch’io quell’uomo per quello che ti ha fatto.”
“Assoldiamo un sicario”, disse lei con voce atona.
“Costa troppo. Non potremmo mai permettercelo.”
“Allora inventiamocelo”, rispose Mary. Per un istante, Jackson credette di aver capito male.
“Che stai dicendo?”
“Questo negozio è pieno di roba. Vecchi innesti di potenziamento, pezzi di armi da fuoco. Dobbiamo solamente trovare qualcuno che mi attacchi addosso tutta questa roba senza chiedere troppi soldi. Poi a quell’uomo ci penso io.”
Jackson rimase pensieroso per qualche istante, stringendo la spalla di Mary.
“Sarà pericoloso. Credi che sia un giusto prezzo per questa vendetta?”
“Sì”, rispose decisa lei.

Jackson aveva tra i suoi amici Wally Dawson, un tecnomedico a cui avevano revocato la licenza, un poco di buono che sbarcava il lunario estraendo proiettili dal corpo dei membri delle gang di strada e impiantava hardware illegale. Chiedeva poco per compiere un operazione, purché gli impianti fossero a carico del paziente. Per Jackson non fu un problema recuperare nel suo magazzino tutto il necessario.
Mary si trovava sul tavolo operatorio. La sensazione del piano di metallo gelido le trasmise sensazioni orribili, ma questa volta c’era Jackson con lei.
“Posso iniziare?”, chiese il medico.
“Un momento – rispose Jackson – Mary, sei perfettamente sicura? Questi impianti sono vecchi, c’è la possibilità che l’operazione non vada a buon fine.”
“Non mi interessa. Devo farlo. Proceda pure, dottor Dawson.”
Wally le mise una maschera di gomma e aprì la bombola del gas anestetizzante.
“Se dovessi rimanere sotto i ferri, Jackson – disse Mary mentre cominciava a inalare il gas – trova qualcun altro che elimini quel pezzo di merda.”
“Va bene, Mary. Ho preso contatto con un sicario, dovessi cambiare idea, anche se non sarà facile trovare i soldi. Si chiama Mor…”
Mary non sentì finire la frase, perché il gas fece effetto e si addormentò.
La ragazza non si svegliò più.

Detroit, Anno 2097, Tre
“E così la ragazza ci è rimasta e tu sei stato mandato a fare il lavoro sporco al posto suo? Che figlio di puttana – esclamò Bill – che cazzo di bisogno c’era di farmi ricordare tutta questa storia? Tanto stai per farmi un buco in fronte, giusto?”
L’ex-Fratello Superiore sputò ai piedi di Mordred, che gli rifilò un altro calcio nello stomaco.
“Dovevo fartelo ricordare, bastardo. Non sarebbe stata una vendetta vera, goduriosa, piacevole, se non l’avessi fatto.”
“Che cazzo te ne frega a te della vendetta? – gemette Bill - tu sei pagato per fare questo lavoro. Anche non ci fosse stata di mezzo la vendetta l’avresti fatto lo stesso, ti saresti intascato i tuoi soldi e avresti eseguito senza fiatare. So come ragionate voi sicari del cazzo.”
“Non sono un sicario comune, Fratello Superiore Mullin.”
“Piantala di chiamarmi così! Il Fratello Superiore Mullin è morto, non esiste più!”
“Così come è morta Mary”, gli disse Mordred, e si tolse il visore notturno.
“Oh cazzo”, esclamò Bill, spaventato come non mai.
“No, stavolta hai sbagliato”, rispose Mordred osservandolo con i suoi tremolanti occhi verdi.
“Tu sei… lei?”, chiese lui.
“No, Mary è morta quella notte, quando il gas anestetizzante ha fatto effetto. È stato Mordred a risvegliarsi. Sebbene avessi ancora un corpo inadatto, con gli innesti appena effettuati ho svolto un paio di lavori sporchi, ho guadagnato dei soldi e mi sono potuto permettere… tutto questo – disse Mordred indicandosi il corpo con un plateale gesto delle mani – hai idea di quanto costi una plastica facciale? Credo di sì, a giudicare dal tuo bel faccino rifatto.Però ti assicuro che tutto il resto, la cura di testosterone, la rimozione dei seni, per non parlare dell’innesto di un cazzo sintetico perfettamente funzionante… è roba costosa. Per questo ci ho messo così tanto a raggiungerti. Ho voluto mantenere gli occhi di Mary… perché tu potessi guardarli nel momento in cui ti ammazzerò.”
“Cazzo, cazzo – disse Bill buttandosi ai piedi di Mordred – ti prego, perdonami, non era mia intenzione…”
“Ne avevi tutte le intenzioni, verme schifoso. Ma cos’hai lì? – chiese Mordred indicando lo spinotto AKV innestato dietro l’orecchio destro di Bill – il Fratello Superiore Mullin con degli innesti cibernetici? Questo non viola il dogma della tua setta?”
Bill piagnucolò qualcosa di incomprensibile osservando il pavimento.
“Ma devo renderti atto di una cosa, Bill. Avevi ragione, dalla notte in cui la facesti stuprare, Mary non si è più drogata.”
Mordred estrasse da una tasca della tuta un sottile banco di memoria rosso con una presa AKV.
“Ricordi quando ti parlò della Cybermeth 1.7? Ne ho in abbondanza qui con me e ho tutta la notte e tutti i giorni a venire per farti provare i suoi effetti. Questa roba impiega un po’ a mandarti in pappa il cervello, specie da quando hanno messo in commercio le nuove AKV. Causano meno bug di sistema, sei fortunato. Forse morirai di sete prima che ti collassino i neuroni.”