È successo quasi vent’anni fa, ma ricordo ogni
dettaglio come se fossero passate solo poche ore. È stata la giornata più
importante dell’ultimo secolo, dell’ultimo millennio… ma che dico, la giornata
più importante da quando le prime creature unicellulari sono strisciate fuori
dal brodo primordiale!
Ogni volta che ripenso a quel giorno, cuore e mente
mi si illuminano e riesco a provare l’intera gamma di sensazioni avute allora…
paura, stupore, meraviglia e un profondo senso di simbiosi con l’intero
universo.
Sì, sto parlando del Primo Maggio del 2015, il
giorno in cui gli Ipkhiss decisero di mostrarsi all’umanità.
Voi all’epoca eravate piccoli, ed è probabile che
non ricordiate molto di quegli avvenimenti. Credo che la maggior parte di voi
abbiano passato quella giornata chiusi in qualche armadio, o in cantina, a
fianco dei propri genitori, incollati alla televisione per seguire gli ultimi
sviluppi.
Quando tutto è successo io mi trovavo davanti a casa
di un amico, e stavo aspettando che uscisse perché quel giorno saremmo dovuti
partire per un viaggio…
Come al solito,
Lil era in ritardo. Ero arrivato davanti a casa sua in perfetto orario, gli
avevo fatto squillare il cellulare, lui mi aveva risposto con un messaggio con
scritto “Arrivo”, ed ero rimasto lì fuori ad aspettarlo per interminabili
quindici minuti. Faceva così ogni santa volta, mai che lo trovassi fuori casa
ad aspettarmi, o almeno con le scarpe già infilate e pronto a uscire. Alcune
volte avevo persino provato ad arrivare in ritardo (e sono sempre stato una
persona molto puntuale, quindi arrivare in ritardo, anche se perfettamente
programmato, mi dava enormemente fastidio), ma non era cambiato niente. Dopo
quindici minuti di attesa usciva, si scusava per avermi fatto aspettare e la
volta dopo la situazione era identica.
Come se
aspettare di fronte a casa di una persona sia divertente. Non lo è per un
cazzo, ti sembra di stare sprecando la tua vita. Ti mette il malumore per il
resto della giornata.
O forse ero
solamente io ad avere dei seri problemi.
Finalmente Lil
uscì di casa, con un borsone sulle spalle, il sacco contenente la tenda da
campeggio in una mano e la bandiera della Svezia annodata intorno all’altra.
Tutte le volte
che andavamo in qualche posto, che fosse un concerto o, come in questo caso,
una festa celtica, Lil si portava dietro la bandiera della Svezia. Lui non era
nemmeno mai stato in Svezia, ma sapeva parlare lo svedese, ed eravamo convinti
che gli Svedesi fossero dei grandi. Il gelido nord, i vichinghi, l’idromele e i
miti Asgardiani, erano tutti argomenti che ci interessavano, e un po’ per
gioco, un po’ per passione, avevamo gli stati del Nord Europa sempre nel cuore.
“Bella, scusa
per il ritardo”, mi disse entrando in auto.
“Vai tranquillo
– risposi io, cercando di trattenere uno sbuffo – pronto per spaccare tutto?”
“Ci spaccheremo
noi, come al solito.”
“È proprio
questo il bello”, gli risposi io sogghignando.
Mettemmo su il
nuovo cd degli Alestorm e partimmo.
Dopo pochi metri, nella macchina si respirava già un’atmosfera goliardica.
Ogni anno in
quel periodo, si teneva una festa celtica della durata di tre giorni a poche
decine di chilometri dalla nostra città. Per tre giorni i druidi benedicevano i
campi, eseguivano rituali e tenevano simposi sulla religione e sul culto della
natura.
Per quelli come
me e Lin, la festa era un’occasione per piantare la tenda da qualche parte, comprare
diversi litri di birra e idromele e bere fino allo svenimento. Il tutto senza
essere disturbati da vigilanza, parenti e impegni per tre giorni consecutivi.
Alcuni probabilmente penseranno che sia squallido, ma in realtà non era così.
Prima di tutto, non eravamo solamente noi due: alla festa ci stavano già
aspettando diversi amici. Secondo, non eravamo i soli a comportarci così:
almeno quattro su cinque dei presenti avevano lo stesso obbiettivo. Terzo, non
eravamo degli stronzi. Non era nostra intenzione andare a disturbare i druidi,
combinare casini o far scattare risse.
Volevamo solo
ridere, scherzare, bere e divertirci intorno a un fuoco per tre giorni, senza
pensare a nulla. In un certo senso, quello che eravamo in procinto di fare era
un buon auspicio. Di lì a pochi anni tutti gli abitanti della Terra avrebbero
avuto la nostra stessa possibilità. Un’unica, eterna festa per tutti.
La realtà che
ora tutti conosciamo.
Vedete ragazzi, ogni tanto mi trovo a chiedermi dove
sarei ora se gli Ipkhiss non si fossero mai rivelati, o se i governi fossero
riusciti a insabbiare la loro venuta con qualche farsa.
Con tutta probabilità, sarei morto. Non penso che avrei
potuto sopportare la vita fino a questa età. Non mi ritenevo un depresso, avevo
i miei alti e bassi ma ero una persona abbastanza allegra. Ma più gli anni
passavano, più mi rendevo conto che alla mia vita mancava qualcosa. È una
sensazione tremenda, sapete? Capire che la tua vita non è completa, avere la
netta sensazione che quello che ti manca sia lì davanti a te, che stia solo
aspettando che tu lo afferri, ma non riuscire a distinguerlo dalla massa di ciò
che lo circonda. E a poco a poco, rendersi conto che quella cosa, qualsiasi
essa fosse, è scomparsa.
Per questo io tutti i giorni brindo a loro. So che
non sono dèi, ma il loro arrivo è stato molto più importante della venuta di
Gesù Cristo. Se non altro, ha fatto qualcosa di molto più concreto che portarci
duemila anni di oppressione da parte della Chiesa.
Eravamo partiti
solo da pochi minuti, quando Lil parlò.
“Devo comprare
le sigarette prima di andare.”
“E ricordartelo
prima? Il distributore è dall’altra parte della città.”
“Eddai, ci
mettiamo cinque minuti, se mi tocca scroccare sigarette per tre giorni
sbrocco.”
Sbuffando,
invertii la direzione e andai verso l’area abitata. Molti erano in procinto di
partire per il ponte del Primo Maggio e le strade erano trafficate. Il tempo,
inoltre, non prometteva bene, e probabilmente ci saremo beccati la pioggia.
Mentre attendevo
in coda a un semaforo stavo scrutando le nuvole, tentando di capire se fossero
solamente passeggere o ci aspettasse un bel temporale, vidi qualcosa lassù in
cielo. Sembrava la scintilla di un fuoco d’artificio, di un verde brillante, ma
era in alto, troppo in alto. E nel giro di un secondo era sparita, come se non
fosse mai esistita.
“Ehi, hai
visto?”, chiesi a Lil.
“Cosa?”
“Lassù. Mi è
sembrato di vedere qualcosa che volava… qualcosa di brillante.”
Lil scrutò in
cielo, ma fummo presi entrambi alla sprovvista quando l’autista del veicolo
dietro di noi clacsonò. Era scattato il verde. Silenziosamente ripartii, con la
musica dell’autoradio come nostra unica compagna. Il gruppo folk metal scozzese
stava cantando di una guerra contro dei calamari giganti che fanno surf.
Dopo una decina
di minuti arrivammo al distributore di sigarette, parcheggiai e attesi che Lil
uscisse per comprare la sua dose
giornaliera, come la chiamavo io.
Alzai di nuovo
lo sguardo al cielo, e vidi ancora la scintilla verde, questa volta seguita
immediatamente da un’altra. Se il cielo non fosse stato nuvoloso, probabilmente
non me ne sarei mai accorto. La scintilla era però più grande di prima, come se
qualunque cosa la stesse emettendo avesse perso quota… sì, perché ero
abbastanza sicuro di aver visto qualcosa davanti alla scia, come una meteora…
oppure un velivolo.
Eravamo vicini
all’aeroporto locale (anche se chiamarlo aeroporto era un complimento, era più
che altro un piccolo campo d’aviazione per gli amatori) e sentì un rombo. Due
elicotteri della polizia ci sorvolarono a bassa quota. Non avevo mai visto in
ventotto anni un elicottero della polizia nella nostra città, e ora ce n’erano
due contemporaneamente. Stava decisamente succedendo qualcosa di strano.
Quando Lil
rientrò in macchina, gli dissi cosa avevo visto. Lui, impegnato a trafficare
con il distributore, non si era accorto di nulla. Alla fine mi convinse che non
c’era nulla di strano, forse stavano facendo delle esercitazioni. Ripartimmo,
questa volta con l’intenzione di non fermarci fino a che non saremmo arrivati
alla festa.
Oltrepassammo un
paio di rotonde e ci fermammo a un semaforo.
E poi eccoli lì.
Ce li ritrovammo praticamente in faccia.
L’astronave di
metallo scuro passò sopra di noi a meno di venti metri, lasciando dietro di sé
una scia di fuoco verde. Aveva una struttura piatta e rotonda, e in qualche
modo mi ricordava il Millenium Falcon di Han Solo, ma era di dimensioni molto
più piccole, paragonabili a quelle di un aereo da ricognizione. Sulla parte
inferiore era presente una sorta di grande gancio ad uncino, composto dello
stesso metallo quasi nero dell’astronave. Glifi e rune in una lingua
incomprensibile decoravano completamente la fusoliera, e brillavano del colore
dell’oro.
L’astronave era
dannatamente veloce, e uno degli elicotteri della polizia che avevamo visto
poco prima gli stava dietro a fatica.
Andai a sbattere
contro l’automobile incolonnata davanti a me, che aveva inchiodato, e la cosa
dette inizio ad un tamponamento a catena. Nessuno si fece troppo male, dato che
stavamo percorrendo la strada a non più di trenta chilometri orari.
“Porca putt…!”,
urlai, ma il gridò mi si strozzò in gola.
Dal cielo ne
piombarono altre. Tutte simili, velocissime e con una scia verde emessa dalla
parte posteriore. Tutte avevano glifi tracciati sulla carlinga, ma di forme e
colori diversi, come se fossero dei marchi di riconoscimento.
Uscii dalla
macchina, e Lil fece lo stesso. Rimanemmo sbalorditi a guardare verso l’alto.
Molta gente
intorno a noi si mise ad urlare e si dette alla fuga, e per un attimo fui
tentato di fare lo stesso. Ma avevo visto un sacco di film sulle invasioni
aliene, ero praticamente cresciuto con Independence
Day, e di una cosa ero sicuro: quegli alieni non erano intenzionati ad
attaccarci. Ci sorvolavano, compivano evoluzioni nel cielo, volevano renderci
partecipi della loro presenza. Ma non ci volevano attaccare, altrimenti avremmo
già cominciato a sentire scoppi ed esplosioni tutt’intorno a noi.
Dallo stereo
ancora acceso nella macchina, i pirati di Perth smisero di cantare di navi, rum
e ammutinamenti, e provenne un suono crepitante, seguito da una serie di
ticchettii, schiocchi e fischi.
Poi una voce
umana, anche se chiaramente sintetizzata, parlò:
“Popolo della
Terra, è venuto il tempo che ci conosciate.”
Per le ore successive, i media ci bombardarono con
immagini fasulle di presunti attacchi delle creature extraterrestri, ma non era
vero niente. C’erano stati dei morti, quello sì, ma si trattava più che altro
di gente che aveva avuto un arresto cardiaco all’arrivo delle astronavi, oppure
che stava guidando ad una velocità eccessiva e quando aveva avvistato le
navette aliene aveva tirato dritto contro un muro.
Gli Ipkhiss non avevano alzato un dito contro la
popolazione terrestre, né l’avrebbero mai fatto in futuro. Durante l’evento io
e Lil ci eravamo persi di vista, e non sapevo che fine avesse fatto. Avevo
trovato solamente la bandiera della Svezia che svolazzava a pochi metri dalla
macchina. In seguito scoprii che era ritornato a casa a piedi. Io avevo fatto
lo stesso, e mi ero incollato davanti alla televisione. I miei genitori mi
avevano telefonato, ed erano nel panico. Cercai di mantenere il tono più calmo
possibile, ma ero eccitato. Alieni! Finalmente in questo mondo succedeva
qualcosa di eccitante!
Dopo alcune ore, i canali televisivi vennero
oscurati, e per la prima volta vedemmo come era fatto un Ipkhiss. Per voi è la
normalità, ragazzi miei, ma vi assicuro che la prima volta che me ne trovai uno
di fronte rimasi sconvolto.
La creatura aveva
una forma vagamente umanoide. Aveva due gambe, due braccia e una testa, ma le
similitudini con la specie umana si fermavano lì. La sua pelle era verde, e
quando me ne accorsi inconsciamente pensai che
alieno stereotipato. Era magrissima, tanto che si potevano vedere le sue costole,
alta molto più di un essere umano, e mi ricordava dannatamente una pianta.
In prossimità
delle ginocchia, dei gomiti e del fondo schiena aveva escrescenze carnose e
sottili, del tutto identiche alle foglie di una pianta tropicale, ma molto più
spesse, in qualche modo polpose. La sua testa aveva un aspetto del tutto
simile: delle escrescenze coniche, piuttosto regolari, ricoprivano la nuca e la
sommità del cranio. Aveva tre occhi, posizionati in maniera piramidale, e una
sorta di corta proboscide lì dove avrebbe dovuto trovarsi la bocca. Sui lati
del collo aveva delle sottili pieghe nella carne, simili alle branchie di un
pesce, che si muovevano assecondando il suo respiro.
La creatura non
indossava alcun vestito, ma era apparentemente priva di organi genitali.
Rimase a fissare
in camera per qualche istante, poi cominciò a parlare la sua strana lingua, che
era composta da schiocchi, fischi e soffi emessi dalle pieghe sul collo.
Fortunatamente, comparvero dei sottotitoli in lingua inglese e cinese.
“Salute a voi
terrestri, io sono il rappresentante del popolo degli Ipkhiss, e onde evitare
fraintendimenti o azioni che possano nuocere a entrambe le parti, vi comunico
che veniamo in pace.”
“Per poterci
conoscere meglio, prima di tutto vi parlerò della mia specie. Siamo organismi
molto simili a quelli che voi avete classificato come vegetali, ma siamo dotati
di un sistema nervoso e muscolare identico al vostro. Necessitiamo solamente di
acqua, particelle nutrienti e luce solare per sopravvivere, in quanto il nostro
corpo è in grado di praticare la fotosintesi. A differenza vostra non abbiamo
sesso, e ci riproduciamo tramite sporogenesi, in modo simile ai funghi che
vivono sul vostro pianeta.”
“Sono quasi
settanta anni terrestri che conosciamo la vostra specie. I primi contatti con i
rappresentati del vostri governi sono avvenuti poco dopo la fine della Seconda
Guerra Mondiale. Conosco questo, e molti altri avvenimenti riguardanti il
vostro pianeta, perché abbiamo studiato la vostra storia.”
“Vi abbiamo
scoperti per caso, mentre le nostre navi viaggiavano nello spazio profondo per
missioni di ricerca, e per trovare nuovi pianeti da popolare. Siamo rimasti molto
stupiti quando abbiamo scoperto che esistevano altre forme di vita organiche
evolute. Dapprima vi abbiamo studiato, abbiamo compreso cosa vi muove e cosa vi
rattrista, e siamo scesi a parlare con i vostri rappresentanti per farvi un
dono.”
“La mia razza è
sempre stata pacifica, e non ci sono mai stati conflitti nella nostra storia.
La ricerca è sempre stata il nostro scopo nella vita, e nel corso dei millenni
della nostra esistenza siamo stati in grado di sviluppare una tecnologia ancora
sconosciuta sul vostro pianeta. Una Tecnologia Metamorfica, in grado di
alterare il peso atomico degli elementi, in modo da trasformarli in
qualcos’altro.”
“Abbiamo fatto
dono di questa tecnologia ai maggiori rappresentanti dei vostri governi,
facendogli promettere che l’avrebbero diffusa e resa pubblica. Con il potere di
trasformare gli elementi, l’umanità avrebbe potuto finalmente vivere come noi:
in pace, prosperità, senza timore della morte, di fame, di guerra o di
malattia. Sarebbe stata una tecnologia alla portata di tutti, e tutti avrebbero
potuto raggiungere la felicità nella loro vita. Ma così non è stato.”
“I
rappresentanti dei vostri governi hanno tenuto tale tecnologia per loro, e
hanno nascosto la nostra esistenza per settant’anni. Noi abbiamo pazientemente
atteso, confidando nella loro saggezza, sperando che prima o poi i vostri capi
avrebbero compreso che l’umanità era pronta a fare un passo avanti. Così non è
stato, e ora abbiamo deciso di agire, rivelandoci a voi.”
“Siamo qui per
portarvi la Tecnologia Metamorfica, in modo che ogni uomo possa vivere una vita
felice. Non ci saranno più governi tirannici, oppressioni come il denaro o la
sete di potere. Tutti potranno avere tutto ciò che vorranno. Niente avrà più
valore, e allo stesso tempo tutto avrà un nuovo valore. Vivrete come noi
abbiamo vissuto per migliaia di anni: in pace, armonia e con una nuova speranza
per il futuro.”
“Vi porgo i miei
omaggi, abitanti della Terra. Molto presto sbarcheremo sulla superficie del
pianeta.”
L’immagine
scomparve, lo schermo tornò nero. Improvvisamente divenni euforico, e cominciai
a ridere come un pazzo.
Quello che successe dopo, lo sappiamo tutti. I
governi dapprima tentarono di giustificarsi, poi iniziarono a dire che queste
creature aliene volevano ridurci in schiavitù tramite i loro inganni. La
notizia venne ovviamente smentita quando, dopo solamente pochi giorni, gli
Ipkhiss iniziarono a distribuire i congegni basati sulla Tecnologia
Metamorfica. Erano impostati appositamente per dei principianti come noi, e non
si potevano trasformare grandi quantità di materiali in altri, oppure in
elementi pericolosi o radioattivi. Quando un Ipkhiss dalla carnagione color
sabbia e alto quasi tre metri mi dette uno di quegli strani braccialetti
gommosi e mi spiegò come trasformare un sasso in acqua, per poco non detti di
matto. Quella roba funzionava, funzionava davvero!
I governi mondiali caddero nel giro di pochi mesi.
Chi più, chi meno, avevano tutti taciuto sulla verità degli alieni, e nessuno
era più disposto a seguirli o dar loro credibilità. A cosa serviva avere dei
comandanti, quando ogni terrestre poteva prendere il suo destino tra le mani?
Il passaggio non fu indolore, non sto dicendo
questo. Ci furono scontri, manifestazioni anti-alieniste, e quant’altro. Ma fu
comunque meno dannoso di quanto ci si potesse aspettare.
Non c’era più necessità di denaro e lavoro. Ognuno
poteva vivere la sua vita come meglio credeva. Si ritornò nel giro di pochi
anni a una vita più pura, più vicina agli ideali del mondo della natura, a cui
gli Ipkhiss stessi furono ben lieti di riavvicinarci. Quando avevo detto che la
festa celtica a cui stavo andando quando comparvero fu quasi un presagio, non
stavo dicendo tanto per dire. I culti della natura si moltiplicarono, gli
Ipkhiss stessi si unirono alle nostre tradizioni, loro diventarono parte di
noi, e viceversa.
Più ci abituavamo alla loro presenza, più loro
imparavano ad apprezzare i terrestri. Lo sapete che gli Ipkhiss adorano la
musica metal? La prima volta che ho fatto sentire un album dei Finntroll a un
alieno di nome T’lakhg, per poco non mi ha spaccato metà della casa per quanto
era eccitato.
Sono diversi fisicamente da noi, ma non tanto nello
spirito. Anche loro vogliono conoscere ed apprezzare ciò che gli è, in qualche
modo, alieno.
Smisi di lavorare, mi concentrai sulla scrittura,
del tutto libero da preoccupazioni e impegni. L’intrattenimento era una delle
poche cose che ancora contava davvero, con tutto il tempo libero che avevamo
ottenuto. Non ottenni mai grande successo, ma a ripensarci adesso, sono
convinto di aver vissuto una vita soddisfacente.
In un certo senso, mi sento il protagonista dei
racconti che ho scritto fin da quando ero un ragazzo. Avevo sempre voluto che
un avvenimento eccitante mi cambiasse drasticamente la vita, e ora che gli
Ipkhiss hanno portato qui le loro navi madri e hanno concesso ad alcuni di noi
di visitare Sallal, il loro pianeta natale, mi sento eccitato come un bambino.
Sarò uno dei primi uomini a mettere piede nelle loro
foreste infinite, popolate da piante profumate e creature esotiche. Vivrò una
vera avventura, come mai mi sarei aspettato nella mia giovinezza, quando tutto
sembrava essere diretto verso un baratro.
Ci è voluta la realizzazione di un’utopia per
capirlo… ma forse l’umanità è migliore di quello che sembra.