lunedì 26 settembre 2011

Ombre di un Diverso Passato


[Un altro racconto new weird la cui partecipazione ad un concorso non ha avuto buon fine. Peccato, lo trovo molto piacevole e pertanto lo lascio a voi.]

C’erano una volta, in un mondo antico e colmo di magia, due fratelli gemelli nati in una calda notte estiva. La loro madre, la regina degli elfi Eliema, li aveva tanto desiderati e la loro nascita aveva colto come l’improvviso barlume di una stella cadente l’intero regno: un evento meraviglioso e forse irripetibile. Sebbene fossero nati nello stesso momento dalla stessa madre, i due fratelli erano molto diversi tra di loro: la femmina, Piranka, era la bambina più bella che il già perfetto popolo degli elfi avesse mai visto. Aveva lunghissime orecchie appuntite, occhi che brillavano come i più perfetti smeraldi e capelli dello stesso colore del grano d’estate. Il maschio, Steno, aveva invece una corporatura massiccia già da neonato, molto inusuale per la sua razza. Aveva folti capelli neri, aria intelligente e occhi dello stesso colore della bianca sabbia del deserto.
Il loro primo anno di vita fu completamente privo di eventi che potessero intaccarne la felicità o la salute, compresa quella della loro famiglia e dei loro genitori. L’intero popolo degli elfi aveva proclamato la loro stessa esistenza come benedetta dal cielo.
Poi, un triste giorno di pioggia, il tempo morì. La sua non fu una lenta agonia, ma uno spegnersi rapido come il battito d’ali di una farfalla. Senza il tempo, niente aveva più significato. La frutta non giungeva più a maturazione, i campi non facevano nascere le messi e la stessa pioggia aveva deciso di non smettere più di cadere. Nel giro di pochi giorni, tutto venne sommerso dall’acqua putrida e gli elfi del regno provarono una profonda tristezza: la magia delle stagioni, ciò che dava gioia al loro popolo, non sarebbe più avvenuta. Niente sarebbe più cambiato.
Passò ben poco perché si rendessero conto del lato più tragico di tutta quella vicenda: i gemelli benedetti, Steno e Piranka, non sarebbero mai diventati adulti, intrappolati per sempre nel corpo di pargoli innocenti.
Presa dallo sconforto, la regina Eliema radunò tutti i grandi arcanisti del suo regno e ordinò di porre su Steno e Piranka il sonno eterno. In questo modo, avrebbero vagato per sempre nei sogni, che ancora avevano il potere di cambiare e mutarsi, e non avrebbero mai vissuto in quel corpo infantile una triste vita priva di cambiamento. Non appena si addormentarono, vennero posti in una grande culla di legno e seta e seppelliti nel terreno della foresta sacra.
Un luogo caldo, sicuro e confortevole, dove avrebbero potuto sognare per l’eternità.

La prima cosa che Piranka vide furono le larve. Centinaia, migliaia, milioni di microscopiche larve bianche che sciamavano sul suo corpo, proteggendola con un abbraccio caldo e solleticante. Sentiva accanto a sé la presenza di suo fratello gemello, a cui aveva stretto la mano per tutto il lungo periodo del loro sonno.
Anche se a malapena era consapevole, sapeva di essere sveglia, ne era sicura. La sensazione era troppo diversa, troppo reale. Il sapore delle larve che le zampettavano in bocca era troppo forte. La consapevolezza di esserne circondata, però, non la disturbava.
E c’era un’altra cosa: i capelli le facevano male. I suoi lunghi capelli dorati vibravano e tremavano come nervi accavallati, provocandole dei dolori lancinanti.
Anche Steno era sveglio. Erano rimasti vicini per così tanto tempo (tempo?) che la loro empatia, nata già forte a causa della loro nascita condivisa, si era ulteriormente amplificata. Steno però, a differenza sua, non soffriva. Steno non sentiva niente. Sapeva che qualcosa stava camminando sul suo corpo, ma la sensazione era lontana, come ridotta da uno spesso strato di terra e coperte.
Che fosse morto? No, era vivo, riusciva ancora a sentirlo. Ma c’era qualcosa, qualcosa che lo rendeva diverso…
Piranka tentò di respirare, ma non ci riuscì: le larve le strisciavano nel naso, sotto le palpebre, forse anche all’interno del cranio. Ma non aveva bisogno di respirare, o meglio, non ancora: il tempo era forse ancora fermo? Per quello i suoi polmoni non avevano bisogno di inalare aria?
Consapevolezze giunte come sogni di un passato lontano, senza che nessuno gliele avesse mai insegnate. L’unico ricordo che aveva oltre i sogni era quello del volto di una madre amorevole…
Qualcosa di duro e freddo la afferrò. Era una rete dalle maglie finissime, taglienti, che iniziarono a sollevarla assieme a suo fratello. Piranka si sentì un pesce preso all’amo.
Un pesce preso all’amo in un mare di larve candide.
L’impatto che i suoi occhi ebbero con il cielo fu qualcosa di più doloroso della terribile sensazione che continuava a provare ai capelli. Un viola così intenso non l’aveva mai visto nemmeno nei suoi sogni più vividi. Saette di colori impossibili da descrivere, tanto erano cangianti e spaventosi, lo attraversavano non producendo alcun rumore. Poi la rete li lasciò e cadde, ancora tenendo per mano il fratello, all’interno di una grande foglia verde.
La foglia era morbida, coperta da una sostanza dolciastra e appiccicosa. Le larve, ingolosite, iniziarono a strisciare via dal suo corpo dirigendosi verso il lauto banchetto che quell’impiastro rappresentava. Involontariamente, Piranka rise quando attraversarono i suoi organi interni producendogli una sensazione ancora più forte di solletico. Per la prima volta da quel risveglio, il forte dolore ai capelli si affievolì.
“Prk krp rrpkp prrkg rggkkr”, disse una voce poco distante (“Cos’è quella stranezza?”, capì Piranka).
“Krkrkr prrg grrpgk”, le rispose una voce simile (“Qualcosa di diverso”, capì Piranka).
“Krkk r grrpgk”, disse di nuovo la prima voce (“Il popolo non è diverso”, capì Piranka).
Finalmente le ultime larve uscirono dai suoi occhi, permettendole di vedere più accuratamente. Capì quasi subito di trovarsi non su una foglia, ma su una barca, una grande barca circondata da un mare bianco e tremolante. I due marinai che la conducevano erano la cosa più strana che la bambina elfa avesse mai visto: teste enormi e nere, antenne e occhi sporgenti, mandibole affilate.
Avevano tutta l’aria di grossi uomini-formica. Per quanto quelle creature sembrassero mostruose, lei non si spaventò: i sogni ogni tanto si trasformano anche in incubi, e lei aveva visto di molto peggio durante il lungo sonno.
Voltò la testa e con la coda dell’occhio vide i capelli, che ora pulsavano come una puntura di zanzara irritata. Rossi, dalla radice fino alla punta. Un rosso scuro, denso e oleoso, simile a quello del sangue. La paura incominciò a invadere il suo cuore di bimba. Cercò con lo sguardo il fratello, cercando i suoi occhi fieri e incoraggianti per scacciare l’orribile sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato. Quando lo vide, però, il coraggio le venne meno in maniera definitiva. Steno giaceva immobile, con la bocca spalancata e ancora parzialmente piena di larve. Il suo corpo era scheletrico, emaciato e coperto di escoriazioni. L’unica cosa che pareva avere vita in lui erano gli occhi, che schizzavano qua e là nelle orbite come una cicala impazzita dal terrore.
Non era morto, non era vivo. Semplicemente, per il suo corpo il tempo aveva smesso di scorrere definitivamente.
Piranka ritornò ad avere un solo anno di vita e scoppiò in un pianto dirotto e disperato, come solo i bambini sono in grado di fare.

I due fratelli vennero portati dagli uomini-formica al di fuori del mare di larve. Per tutta la traversata, il tempo e le sensazioni non cambiarono e l’avanzamento era scandito solamente dal lento sciabordio degli insetti che contorcendosi uno sull’altro facevano muovere l’imbarcazione. I due navigatori erano completamente insensibili agli strilli di sofferenza della bimba, tanto che dopo un po’ non ebbe più la forza di continuare e si accasciò stremata sullo scafo della barca-foglia.
Steno la guardava, agitando fremente gli occhi per comunicarle qualcosa.
“Piranka, stai bene?”, le chiese senza emettere un suono. Bastò un rapido movimento dei suoi occhi perché la sorella capisse cosa voleva dirgli.
“Sto bene, ma ho paura Steno. Cos’è questo mondo? Perché abbiamo smesso di dormire?”, rispose lei sottovoce. Gli uomini-formica non dettero segno di averla sentita.
“Non lo so. Credo che sia passato molto, sorellina. Cosa è successo ai tuoi capelli splendenti? Perché hanno il colore del sangue?”, occhieggiò Steno.
“Credo… credo che siano state le larve. Hanno divorato i miei capelli, che hanno sofferto molto e hanno iniziato a sanguinare. Quando sono stati completamente consumati, il sangue privo di tempo è rimasto a rappresentarli. Non ho più capelli, sono calva, la mia è una chioma di dolore!”
“Non riesco a muovermi, Piranka. Solo gli occhi, il resto è tutto paralizzato. Tutto fermo… Non percepisco sensazioni, non sento forza vitale, sento solo una morsa eterea che mi intrappola. Il mio corpo… il mio corpo si è fermato, proprio come il tempo. Sono un corpo che muove gli occhi.”
“I tuoi occhi sono sempre bellissimi, fratellino… eppure qualcosa è cambiato, lo sento. Il tempo… il tempo sta scorrendo di nuovo. Ha ripreso vita, non qui, non in questo strano mare, ma c’è… altrimenti non si spiegherebbero loro”, disse lei indicando con un cenno del capo i due uomini-formica.
Le larve, che avevano quasi finito di consumare il loro pasto dolciastro, ora scorrazzavano per tutta l’imbarcazione.
“Quanto tempo sarà passato, fratellino? – chiese Piranka – quanto abbiamo dormito?”
“Non lo so – occhieggiò lui – ere, credo.”
“Mi manca il nostro sonno… mi mancano già i nostri sogni”, disse lei.
Steno non rispose questa volta, rimanendo con gli occhi fissi nel vuoto. In lontananza, cominciava a delinearsi il profilo di una costa sormontata da una scogliera di pietra marrone e, sopra di questa, una gigantesca struttura bulbosa che si snodava in diramazioni grigiastre fino a superare le nubi cariche di elettricità.
E quando la barca toccò la sabbia umidiccia della spiaggia, qualcosa cambiò. Le larve iniziarono ad ingrandirsi e mutare, diventando sempre più simili ai due marinai-formica. Nel giro di pochi istanti, crebbero fino a diventare adulte e iniziarono una lenta adunata sulla spiaggia. La stessa cosa accadde ai due fratelli. Piranka sentì il proprio corpo ingigantirsi, mutare, fino a diventare quello di una ragazza elfa di quattordici anni, con solo una chioma di sangue scarlatto a ricoprire il suo corpo nudo. La stessa cosa accadde a Steno, che però non provò alcuna sensazione: il suo corpo ingrandì, divenne quello di un elfo della stessa età, ma rimase immobile e privo di sensazioni. Solo gli occhi continuavano ad agitarsi guardinghi, trasmettendo a Piranka parole di apprensione e paura. Egli rimase però scheletrico, la pelle si spaccò ancora di più, i muscoli atrofizzati divennero ancora più evidenti. Steno era solo l’ombra di ciò che era un tempo.
“Qui il tempo scorre”, occhieggiò Steno.
“Il tuo corpo, però, rimane morto”, osservò la sorella, coprendo le proprie nudità con i capelli insanguinati.
“Krk krrrkg grkrg!”, si rivolse a loro uno dei due marinai, che aveva fatto radunare tutte le altre formiche appena nate sulla spiaggia (“Radunatevi, formiche!”, capirono entrambi).
Piranka, non sapendo come comportarsi, sollevò il corpo del fratello e si diresse sulla spiaggia, circondandosi di altre formiche che facevano gocciolare fluidi acidi dalla bocca. Si stupì del peso del fratello, così leggero da sembrare ancora un neonato.
Quando furono in fila, i due marinai squadrarono tutti i nuovi nati e assunsero una posa marziale.
“Grk dkrk krrgrdkr! Krrdgkkr rrrk krrgdgrkr!”, disse (“Voi siete formiche! La vostra vita va al formicaio!”, capirono entrambi).
“Grgk rk krrgdgrkr!”, dissero tutte le formiche neonate in coro (“La mia vita al formicaio!”, capirono entrambi).
Loro non pronunciarono parola e tutte quelle creature aliene si voltarono a fissarle.
“Grrpgk!”, dissero in coro (“Diversi!”, capirono entrambi, percependo un tono di accusa nelle parole).
A questi toni minacciosi, i nervi di Piranka cedettero. Cercò di scappare lungo la spiaggia portando con sé il fratello, ma nonostante il suo peso fosse simile a quello di una piuma, le formiche riuscirono a raggiungerla e ad afferrarla. Venne stretta da mandibole d’acciaio, provando un dolore simile a quello che i capelli le avevano provocato quando si era svegliata.
Steno cadde per terra, inerme, e venne circondato anch’esso.
Le formiche iniziarono a parlare nuovamente in coro, come un esercito invincibile dotato di un’unica mente.
“Grrpgk crrkr Belzebù!”, dissero (“I diversi vanno portati a Belzebù!”, capirono entrambi).
I due fratelli non poterono fare altro che essere trascinati prima sulla scogliera e poi all’interno della colossale struttura, scivolando in corridoi oscuri e umidi. Durante tutto il tragitto, i loro occhi disperati non si persero di vista per un istante.

Una luce calda, mischiata all’odore di fieno, stalla e terra li accolse facendoli sentire un po’ meno alienati. Erano stati portati in una enorme stanza circolare, alta decine di metri e dalle pareti ricoperte da una tela sdrucita a strisce bianche e rosse. Tutt’intorno, la stanza aveva un alto camminamento di terra, mentre tutta la zona centrale era occupata da gabbie, catene e grandi anelli infuocati.
“Sembra un enorme circo”, occhieggiò Steno.
“Tutto questo è pazzesco”, gli rispose la sorella.
Nella zona centrale stavano diversi uomini-formica dall’aria smarrita. Alcuni girovagavano qua e là senza meta, altri facevano schioccare le mandibole senza dire niente di concreto. La maggior parte di loro aveva una o entrambe le antenne recise, rotte o in qualche modo rovinate. Quando il plotone di uomini-formica che li aveva presi prigionieri entrò nella stanza, si fece avanti un altro di essi che, in qualche modo, sembrava essere diverso.
Entrambe le sue antenne erano state recise alla base, gli mancava una zampa e, cosa ancora più sorprendente, indossava un enorme cappello a cilindro di velluto rosso, macchiato di terra e una sostanza giallastra non meglio identificata.
Il plotone di secondini non disse nulla e mollò semplicemente entrambi i fratelli all’interno dell’area, per poi girare sulle zampe e andarsene. L’uomo-formica con il cilindro venne loro incontro.
“Io sono Belzebù, diversi”, disse con voce ronzante.
Piranka non gli rispose, preoccupata per il fratello paralizzato. Si diresse verso di lui e lo drizzò a sedere. La sua testa priva di sostegno muscolare crollò all’indietro, lasciando spalancata la bocca.
“Perché parla come noi?”, occhieggiò Steno.
La ragazza alzò lo sguardo verso Belzebù e lo scrutò con attenzione, prima di iniziare a parlare.
“Non sembri come gli altri”, gli disse.
“Neanche voi sembrate come gli altri”, rispose per nulla stupito.
“Veniamo da un passato molto lontano… noi siamo elfi. Voi cosa siete?”
“Mai sentito parlare di elfi – rispose lui – ma se per “voi” intendi la mia specie di appartenenza, sappi che siamo formicidae sapiens. Se per “voi” intendi chi siamo, sappi che loro sono il popolo, con cui tutti i rappresentanti della mia specie presenti in questa stanza non hanno più nulla a che fare. Il nostro collegamento con la collettività è stato reciso”, disse lui, prima di toccarsi le antenne tagliate.
“Come è accaduto?”, chiese l’elfa.
“A causa di un incidente, per la maggior parte di noi. La caduta di un masso mi ha strappato le antenne e un braccio. Non facciamo più parte del popolo, né del formicaio. Noi siamo i diversi. Abbiamo un nome proprio e non abbiamo nessuno scopo, se non far divertire il popolo.”
“Perché ci hanno portato qui? È evidente che noi non siamo formicidae sapiens, come le hai chiamate tu. Siamo prigionieri?”
“Non proprio – rispose lui – diciamo che non avete alternative. Non esiste niente là fuori, se non il mare di incubazione. E laggiù il tempo non scorre, per il bene della nostra prole. Per quanto riguarda la vostra evidente diversità… il popolo non la comprende, né mai lo farà. Per loro siete diversi, perché siete esseri viventi non collegati alla collettività. Per questo vi hanno portati qui. Non hanno concezione della vostra natura… e, per la regina, non ne ho neanche io. Che diavolo è un elfo?”
“Abbiamo dormito a lungo – rispose Piranka, sollevando la testa del fratello, che assunse una posizione più composta – apparteniamo ad un’era passata, dove io e il mio gemello Steno eravamo solamente neona… larve. Eravamo solamente larve.”
“Questo non ha importanza – rispose Belzebù – dovrete stare qui per fare divertire la collettività. È il vostro scopo privo di scopo.”
“Farli divertire… perché?”, chiese l’elfa insanguinata.
“È una tradizione. La collettività si è sempre presa gioco del diverso.”

Belzebù li portò in una piccola celletta costituita da umida terra. Non vennero rinchiusi, ma quando se ne andò approfittarono dell’ambiente angusto e solitario per stare un po’ da soli.
“Saremo i pagliacci di questi mostri”, disse con gli occhi Steno.
“Lo so – rispose Piranka – ma abbiamo scelta? Ci siamo risvegliati in un mondo lontano, senza scopo e ragione… dove il tempo è rinato ma si comporta come un neonato urlante. Un neonato urlante! Quello che eravamo noi solo fino a poche ore fa! Fratellino, è successo troppo, troppo in fretta… non so come affrontare tutto questo.”
“I sogni… i sogni avevano tante cose che ora mi mancano. Molto spesso ho sognato di svegliarmi, di vivere il mondo là fuori, un mondo dove il tempo aveva ricominciato a scorrere e io divenivo un grande condottiero della mia gente, il più forte tra i guerrieri degli elfi… e ora sorellina, guardami. La realtà non mi da neanche la possibilità di muovermi.”
“Staremo insieme fratellino. Staremo insieme, come abbiamo sempre fatto. Fino all’eternità.”
Piranka abbracciò il fratello scheletrico e gli diede un bacio sulla fronte, coccolandolo dolcemente tra le sue braccia. I macabri capelli dell’elfa macchiarono di sangue il corpo del fratello, unico caldo conforto per un corpo freddo come un cadavere.

Il tempo in quel luogo scorreva, così Piranka iniziò ben presto a provare fame. Belzebù porto per entrambi dell’umida melassa dolciastra, molto simile a quella divorata dalle larve sull’imbarcazione. Steno non aveva fame e disse con gli occhi che probabilmente non l’avrebbe mai avuta, così lasciò il suo pasto alla sorella. Quando ebbero finito di mangiare, un diverso venne nella loro cella e fece cenno di seguirli nella pista centrale del circo.
Qui trovarono tutti gli uomini-formica mutilati radunati intorno a Belzebù, che si muoveva e parlava come il conduttore del circo.
“Fra poco arriveranno per assistere allo spettacolo, voglio che sia tutto perfetto. Riguarda anche voi due, nuovi arrivati.”
“Cosa dobbiamo fare?”, chiese Piranka tenendo tra le braccia il fratello.
“Ciò che vi viene naturale. Per loro sarà comunque qualcosa da deridere.”
Gli altri uomini-formica si dispersero per la pista principale e iniziarono a muoversi di nuovo in maniera convulsa: c’era chi correva in tondo, chi si picchiava sulla testa, chi stava semplicemente fermo a fissare il vuoto.
“Non ci hai ancora spiegato perché sai parlare la nostra lingua. Loro li capisco, ma… hanno una lingua diversa”, chiese Piranka.
“Parlare è sempre il miglior modo per farsi capire”, disse semplicemente Belzebù, poi corse al suo posto in cima ad una pedana al centro della pista.
Entro pochi istanti iniziarono a entrare le formiche della collettività. Camminavano ritte, una dietro l’altra, soffermandosi solo pochi secondi sulla balconata di terra per poi proseguire nel loro cammino. Non sembrava che ridessero, ma qualcosa nella mente di Piranka le suggerì che, nella loro mente, li stavano denigrando.
D’istinto lasciò andare suo fratello, che rimase steso a terra con lo sguardo puntato verso l’alto.
“Che fai, Piranka?”, occhieggiò.
“Quello che mi viene naturale”, rispose lei.
L’elfa iniziò a danzare per la pista in maniera convulsa, facendo roteare la sua chioma sanguinante e mettendo in mostra tutte le sue grazie. I suoi passi erano delicati e allo stesso tempo violenti, le sue acrobazie e i giochi compiuti perfetti. Gocce di sangue iniziarono a schizzare qua e là, lordando di un rosso cupo le zone bianche della tenda del circo. Loro iniziarono ad essere sempre più rapiti dalla vicenda, tanto che alcuni si fermarono per osservarla pochi secondi più del necessario.
Ben presto, all’interno del circo iniziarono a formarsi code di uomini-formica, che si accalcavano una sopra l’altra per vedere e deridere la straordinaria esibizione.
“Fallo anche tu, fratellino. Fa ciò che ti viene naturale. Sogna!”, gridò Piranka.
Steno spalancò gli occhi e iniziò a immaginare di essere un lucente guerriero corazzato, il più feroce e temibile di tutti i più feroci e temibili. Alzò le spade e con grazia divina fece calare la sua furia sul campo di battaglia. I nemici, i temibili orchi dalla pelle verde che più di una volta avevano invaso le terre del suo popolo, caddero uno dopo l’altro coperti di mortali ferite. Per quanto sangue sgorgasse, l’armatura di Steno era sempre intonsa e di una lucentezza sempre maggiore, che poteva competere con quella del sole che un tempo aveva fatto splendere i suoi raggi su quella stessa terra.
Quando l’esibizione finì, Piranka si accasciò a terra stremata, mentre Steno chiuse gli occhi. Il circo si era riempito, la collettività era giunta solo per osservare loro. Per assistere angosciati a qualcosa che non credevano possibile.
Ci volle un po’ di tempo prima che gli uomini-formica si ritirassero, lasciando unicamente i diversi all’interno del tendone.
Belzebù si diresse verso i due fratelli con passo tremante. Anche lui sembrava essere scosso.
“Cosa avete fatto?”, chiese.
“Quello che ci hai chiesto. Ci siamo comportati secondo la nostra natura”, rispose Piranka.
“Li avete spaventati. Hanno visto qualcosa che non sono in grado di comprendere. Hanno visto la vera diversità e ciò li ha distrutti. La collettività è sconvolta.”
“Passione, creatività e immaginazione. Basta così poco per sconvolgere il formicaio?”
“Loro non sanno nemmeno che quelle parole esistano. E nemmeno io. Accadrà qualcosa. Tutto ciò li farà impazzire. Impazziremo, anche noi diversi. Voi siete oltre la nostra concezione”, disse serio Belzebù.
“Lo faremo ancora e ancora e ancora, se ciò servirà a portare un po’ di luce in questo mondo”, disse seria Piranka. Steno annuì con lo sguardo.
“Tutto questo potrebbe distruggere questo mondo”, rispose Belzebù.

In quel luogo non era possibile misurare i giorni, così i due misurarono il tempo contando le esibizioni. Sempre più formiche accorsero a vederli, a saggiare le loro abilità, a stupirsene e a rimanerne terrorizzati. I due fratelli contarono almeno trenta esibizioni, ed ogni volta che era loro possibile aggiungevano qualche ritocco allo spettacolo, per renderlo ancora più unico e indimenticabile. La danza insanguinata di Piranka si faceva più irrefrenabile ogni volta e i sogni di Steno sempre più vividi e fantasiosi.
Venne infine quello che entrambi sapevano sarebbe stato l’ultimo spettacolo. Tutto sulla pista era pronto, loro avevano già cominciato ad accalcarsi uno sopra l’altro per poter osservare con attenzione.
“Lo faremo assieme”, disse Piranka.
“Insieme, come sempre”, occhieggiò Steno con i suoi occhi ocra.
Quando Piranka iniziò a danzare e a spargere il suo sangue per la pista del circo, Steno sognò. Sognò stelle cadenti, paesaggi mozzafiato, cigni e altri animali meravigliosi che circondavano la sorella, fornendole un adeguato scenario per il suo ballo. Grandi alberi, foreste, palazzi lussuosi, pianeti. Sognò la luce del sole, la fredda solitudine del deserto, la maestosità del mare. Sognò gli elfi, sognò la regina Eliema. Sognò la vita e la morte danzare a braccetto con la sorella.
Quando, con un passo trionfale e il sogno di una melodia di flauto da tempo dimenticata l’esibizione cessò, la collettività impazzì.
Si strapparono le antenne, si morsicarono a vicenda. Diventarono diversi.
“Io non sono una formica che augura lunga vita al formicaio!”, urlò Piranka prendendo in braccio il fratello e preparandosi ad una corsa a perdifiato.
Attraversarono i condotti della struttura in lungo e in largo e in ogni luogo le scene che si presentavano erano pazzesche ma mai identiche: le formiche sembravano essere state catturate dal demone della creatività, da quella cosa che ti fa dire io e non noi.
Attirati dalle scariche elettriche colorate provenienti dall’esterno, riuscirono a rintracciare la via d’uscita, ma quando vi giunsero davanti furono bloccati da una figura famigliare. Era Belzebù.
“Ve ne andrete?”, chiese.
“Sì. Vuoi fermarci?”, chiese Piranka con tono fermo.
Belzebù rimase fermo per qualche istante, massaggiandosi il moncherino della zampa.
“Avete portato il caos nella collettività, distrutto il formicaio, cancellato qualsiasi idea di ordine, organizzazione e scopo. Avete cancellato la vita di questo mondo. Io vi ringrazio. Non potrei mai impedirvi di andarvene. Ma là fuori non c’è nulla. Nulla, se non le larve.”
“Procuraci una barca, Belzebù – occhieggiò Steno – là fuori ci sono i sogni. E forse, tra qualche era, un mondo più ospitale per noi due.”
Belzebù annuì.

I due fratelli andarono al largo, nel mare di larve. Man mano che si allontanavano dal formicaio e dalla collettività, il tempo ritornava ad essere morto e immortale allo stesso tempo. Fermarono la barca quando furono abbastanza lontani da vedere solamente il cielo in ogni direzione.
“Qui andrà bene”, disse Piranka.
“Torneremo a sognare, finalmente – occhieggiò Steno – finalmente ci sentiremo a casa.”
“Casa non sono i sogni, purtroppo. Casa non la vedremo mai più. Anche se è morto, quel tempo è passato da un pezzo. Possiamo solo continuare ad andare avanti, aspettare un mondo migliore per me e per te. Il tempo rinascerà, prima o poi ci sveglieremo di nuovo. Fino ad allora, staremo insieme, come sempre.”
“Come sempre”, disse con gli occhi Steno.
Piranka prese in braccio suo fratello, poi osservò lo strano mare che si contorceva sotto di loro.
“Anche se può sembrare una favola, non lo è. Non vivremo per sempre felici e contenti. Vivremo per sempre, punto e basta”.
Poi si tuffò.