Tsc’yich divenne bianco quando
la selce affilata colpì il suo avambraccio affondando con profondità nelle
carni grigiastre. Il bianco sfumò fino a diventare screziato di nero.
I molteplici occhi del fattucchiere fremettero per quello che stava provando,
ma il ruolo che si era assunto all’interno della tribù gli imponeva di
proseguire. Colpì un’altra volta nello stesso punto di prima e gli altri membri
della tribù, che gli stavano intorno per sostenerlo, sentirono chiaramente il
rumore delle ossa che si spezzavano. Nuovamente, il fattucchiere provò il bianco,
e subito dopo il nero divenne molto più consistente.
Stava per perdere i sensi, ma
sarebbe sopravvissuto anche questa volta. Ndhi-ysth sapeva che se avesse
assunto in futuro il ruolo di fattucchiere della tribù, l’automutilazione
rituale sarebbe spettata anche a lui. Ma l’avrebbe fatto, avrebbe fatto tutto
per il bene della comunità.
Tra gli ogunruhe, la comunità era
la cosa più importante.
In quella piccola tribù erano in
quattro: lui, il suo genitore Krthuskra, il cacciatore Zsogotel e Tsc’yich.
Ndhi-ysth era il più giovane, nato solamente dodici anni prima. Oltre i membri
della tribù, non aveva mai conosciuto altri ogunruhe, né era speranzoso di
averne la possibilità in futuro: per qualche ragione che non gli era mai stata
del tutto chiara, i membri della sua razza venivano uccisi a vista da altre
creature che il fattucchiere Tsc’yich considerava senzienti, ma che mai avevano
dato prova di un’intelligenza poco più che animale al giovane. Erano esseri
piccoli ma temibili, ben più bassi degli ogunruhe. Il loro corpo era spesso
ricoperto di disgustosi filamenti sporchi, così simili alla pelliccia degli
animali, nella regione della testa e del volto, mentre nel resto del corpo
erano quasi glabri come la razza di Ndhi’ysth. Come loro avevano due braccia e
due gambe. Come loro avevano occhi (solo due, e non la corona di occhi che
circondava la testa bulbosa degli ogunruhe permettendo la visione in ogni
direzione). Non avevano un becco affusolato e pulito, ma una bocca piena di
denti molto spesso infetti, che si staccavano prematuramente. Non avevano arti
membranosi posizionati sulla schiena, simili alle ali degli uccelli ma adatti
unicamente per nuotare a gran velocità. Non avevano nemmeno un doppio organo
respiratore, che gli permettesse di respirare indifferentemente aria o acqua,
ma Ndhi’ysth continuava a pensare che quelle creature, quegli esseri chiamati
umani (o nani, nome che indicava dei loro simili molto più bassi e pelosi) non
erano così diversi da loro.
Tsc’yich finì di amputarsi il
braccio e in quel momento divenne nero, perdendo definitivamente i
sensi. Krthuskra si avvicinò con della neve fresca tra le mani artigliate e la
posizionò sul moncherino, facendo cessare il getto di sangue che ne
fuoriusciva. Il fattucchiere si era già amputato entrambe le gambe in passato,
come sacrificio necessario per poter eseguire le sue divinazioni. Era
sopravvissuto fino a quel momento, e sarebbe sopravvissuto anche questa volta.
Ndhi-ysth non vide traccia di viola scuro nella sua aura.
I tre membri della tribù
lasciarono il fattucchiere riposare e uscirono dall’umida caverna naturale
parzialmente invasa dalle acque situata a ridosso di una palude ghiacciata e si
immersero completamente, congiungendosi al freddo fango che fungeva loro da
ambiente naturale.
Krthuskra gli aveva detto che i
motivi per cui gli umanoidi li odiavano erano principalmente due. Il primo è
che prima che Ndhi-ysth nascesse, in un periodo talmente lontano che persino
l’anziano Tsc’yich faceva fatica a ricordarselo, gli umanoidi erano stati
schiavizzati dagli ibotha-oshab, una razza proveniente da un mondo lontano,
oltre le stelle. Queste creature li avevano utilizzati come animali da soma per
edificare le loro città sotterranee e, quando necessario, come cibo per
sostenere i propri corpi immortali. Poi gli ibotha-oshab erano stati sconfitti
dagli umanoidi, che si erano guadagnati la propria libertà. Gli ogunruhe
provenivano dallo stesso passato di schiavitù, ma gli umanoidi credevano che la
loro “strana” razza di creature magre e dalla pelle grigia fossero alleati
degli ibotha-oshab.
Il secondo motivo è che gli
ogunruhe possedevano un senso che era completamente estraneo agli umanoidi: la
percezione dell’aura. I loro otto occhi erano in grado di vedere le sfumature
colorate che circondavano tutti gli esseri viventi, sfumature che cambiavano
colore a seconda delle emozioni provate. Gli ogunruhe non avevano bisogno di
dimostrare fisicamente le proprie emozioni con gestualità o toni di voce, semplicemente
perché erano in grado di vederle con i loro occhi. Possedevano anche diversi
altri poteri come una poco potente capacità telecinetica e la possibilità di
generare negli altri incubi e illusioni in grado di uccidere, estrapolati
direttamente dalle paure della vittima. Era una capacità temibile, la più
potente della razza ogunruhe e pressoché sconosciuta tra gli umanoidi. Una
capacità derivata dalla loro grande comprensione delle emozioni.
Questi poteri rendevano gli
ogunruhe una razza da temere. Il loro non era odio, non era cremisi, ma
era verde scuro, era pura e semplice paura.
Gli ogunruhe avevano rischiato lo
sterminio in passato e avevano dovuto premunirsi. Le loro tribù non erano mai
numerose, tanto che se nascevano troppi figli, il fattucchiere poteva decretare
di eliminarne alcuni appena usciti dall’uovo, per evitare di crescere troppo e
attirare umanoidi ostili.
Ed era proprio quello il rischio
che la tribù di Ndhi-ysth stava correndo in quei giorni. Andando a caccia di
orsi, Zsogotel aveva avvistato una colonia di umanoidi che si era accampata a
solo qualche vallata innevata di distanza. Per lo più nani e qualche umano,
vestiti di pelliccia e armati di asce d’osso e clave di pietra. Ma la cosa più
pericolosa era che loro avevano visto lui.
Era tornato alla palude bruciante
di rosso, anche se l’arguto Ndhi-ysth era stato in grado di percepire
delle punte di verde scuro dentro di lui.
Quando il cacciatore aveva
comunicato agli altri la notizia, Ndhi-ysth era diventato di un verde scuro così
profondo che per poco non era diventato nero. Temeva che prima o poi
quel pericolo sarebbe giunto e aveva il terrore che la sua tribù venisse
distrutta e lui fosse l’unico superstite. Non aveva mai avuto molta compagnia,
ma non era mai stato veramente solo. Era ancora troppo giovane per essere in
grado di creare delle uova e fecondarle, sarebbero passati ancora diversi anni
prima che il suo corpo fosse stato in grado di generare gli organi riproduttivi
necessari a far nascere un’altra generazione di ogunruhe.
Temeva di perdere il suo genitore
Krthuskra, che aveva ancora tanto da insegnargli. Come di consuetudine, non
disse nulla. Agli altri bastò lanciargli un’occhiata per comprendere le sue
paura.
Così il vecchio fattucchiere
aveva deciso di compiere una divinazione sul futuro, ricevere una profezia
dagli stessi spiriti della terra che lo avrebbe consigliato sul da farsi, ma
prima di compiere la magia aveva bisogno che le sue ferite guarissero. Non ci
sarebbero voluti più di un paio di giorni. Ndhi-ysth nuotò fino al fondo della
palude e si ricoprì di zolle di fango e ghiaia, decidendo di ingannare l’attesa
riposando.
Alcuni giorni dopo, i membri
della tribù fuoriuscirono dalle fredde acque e si posizionarono su un isolotto
di terreno innevato. Zsogotel aiutò il mutilato Tsc’yich a issarsi sul terreno,
poi si sedettero in cerchio. Tsc’yich posizionò al centro del cerchio formato
dai loro corpi il suo braccio amputato, a cui il freddo della palude non aveva
ancora fatto iniziare il processo di decomposizione. Il fattucchiere alzò
l’unico braccio rimastogli ed entrambe le ali membranose al cielo, intonando un
canto vibrante e profondo. Quella lingua, un insieme di gorgoglii, versi
striduli e parole inarticolate era la lingua degli ibotha-oshab, che gli
ogunruhe avevano ereditato. Era un gergo odiato dagli umanoidi, ma che era
necessario utilizzare per invocare l’aiuto degli spiriti. Tsc’yich continuò a
salmodiare fino a che non divenne di tutti i colori, un misto di
emozioni incomprensibile anche agli ogunruhe che si verificava solo quando un
individuo utilizzava poteri ultraterreni.
Il suo braccio amputato venne
avvolto in un fuoco mistico e cominciò a consumarsi, mentre il fattucchiere
assorbiva le conoscenze del futuro dall’aria stessa. Per agevolarlo, gli altri
membri della sua tribù iniziarono a emettere lo stesso lugubre canto, divenendo
arancio come quando ci si sente in armonia con il tutto. Ndhi-ysth sperò
con tutta la forza di cui disponeva che gli spiriti non gli dessero brutte
notizie, che la sua tribù poteva essere salvata e che se dovevano essere
distrutti voleva morire con gli altri.
Diventava troppo verde scuro al
solo pensiero di rimanere solo.
Ci vollero diversi minuti prima
di completare l’invocazione, poi Tsc’yich assunse nuovamente un colore comprensibile.
Era azzurro, con delle striature verde scuro. Simili rituali
erano pericolosi, mettevano a repentaglio la propria vita, ma Ndhi-ysth non
vide alcune macchia di viola scuro.
Tsc’yich alzò lo sguardo verso
Ndhi-ysth e divenne completamente azzurro, segno della volontà
ineluttabile. Aveva preso la sua decisione.
Ndhi-ysth osservò la palude
dall’alto della collina coperta di pini innevati su cui si era nascosto. Vide
chiaramente Zsogotel e Krthuskra seduti su alcune rocce, con delle lance d’osso
strette tra le mani. Il vecchio Tsc’yich doveva essere lì da qualche parte,
magari nascosto tra alcuni cumuli di fango o appena sotto il pelo dell’acqua,
pronto a utilizzare la sua letale magia quando gli umanoidi avessero deciso di
attaccare.
Era ormai questione di ore,
Ndhi-ysth lo sapeva bene. Tsc’yich era venuto a sapere dagli spiriti che entro
tre giorni avrebbero portato morte sulla tribù. Per lui, Zsogotel e Krthuskra
non ci sarebbe stato scampo, nemmeno nel caso avessero tentato la fuga. Solo
Ndhi-ysth avrebbe potuto salvarsi, ma solamente se gli altri membri della tribù
gli avessero coperto le spalle combattendo e morendo per lui.
Il più grande incubo di Ndhi-ysth
era giunto e lui non aveva potuto fare nulla per opporsi a quella sorte.
Durante quegli ultimi tre giorni,
il genitore gli aveva fatto proseguire la sua formazione spiegandogli tutte le
cose che avrebbe dovuto fare per sopravvivere, svelandogli i segreti della
riproduzione, dicendogli come avrebbe dovuto fare per congiungersi agli spiriti
come il loro fattucchiere.
Ndhi-ysth sapeva che avrebbe
avuto ancora molto da imparare, ma non c’era stato tempo. Sarebbe andato la
fuori, sarebbero dovuti passare ancora trent’anni prima di diventare in grado
di generare delle uova. Per i prossimi trent’anni sarebbe stato solo.
Trascorse quei tre giorni nel verde
scuro più assoluto e disperato, mentre il suo genitore e gli altri due
ogunruhe univano rosso e azzurro, animati dalla volontà di
combattere fino alla fine per proteggersi dall’estinzione.
Sarebbe dovuto andarsene già da
ore, ma non ce l’aveva fatta. Voleva vederli fino alla fine, voleva vedere le
loro aure tingersi di viola scuro. Quei pochi minuti l’avrebbero
accompagnato per gli anni a venire, sarebbero stati minuti preziosi trascorsi
con loro. Minuti che avrebbe ricordato in eterno nella solitudine che lo
attendeva. Minuti in cui la sua aura avrebbe potuto tingersi di rosa, il
colore dell’affetto e della devozione che provava per loro, un’ultima volta.
Li vide arrivare dalla valle
antistante la palude: erano venti umanoidi dall’aspetto brutale, armati di
lance affilate e temibili asce dalla lama di pietra. Nei loro capelli erano
intrecciate decorazioni in osso e sassi, usanza che gli ogunruhe, così candidi
e magnifici nei loro corpi glabri e nudi, ritenevano brutali. Un alone rosso
avvolgeva l’intero gruppo di umanoidi, decisi a marciare e a uccidere
qualsiasi creatura diversa da loro avessero incontrato sulla strada.
Zsogotel e Krthuskra si alzarono
e si posizionarono in difesa con le lance. Tsc’yich strisciò sulla neve e
iniziò a salmodiare gli spiriti con la sua voce vibrante. Essi risposero e la
neve iniziò a scendere dalle colline circostanti seppellendo alcuni umanoidi.
I bruti si spaventarono, ma
continuarono la loro avanzata. Ora nei loro cuori non albergava più solo il rosso,
ma un sentimento ancora più temibile, il blu notte, la vendetta.
Quando i primi furono a portata
delle lance dei due ogunruhe, essi colpirono dilaniando le loro carni. Zsogotel
lacerò la giugulare di un umano vestito di pelle di mammut facendo scattare il
becco, poi venne ferito alla gamba da un colpo d’ascia.
Tsc’yich invocò nuovamente gli
spiriti, che modellarono l’acqua della palude in fredde braccia tentacolari che
afferrarono due nani stritolandoli.
Il suo genitore Krthuskra venne
colpito dai giavellotti scagliati da alcuni umani e venne trafitto. Il suo
continuo cambiamento di colore, da bianco a nero, da rosso a
viola scuro, rese nera anche l’aura di Ndhi-ysth, che però si
fece forza e si costrinse a non perdere i sensi.
Voleva stare con loro fino alla
fine. Doveva farlo.
Un nano armato di una gigantesca
ascia di pietra raggiunse Tsc’yich, che stava rannicchiato tra alcune rocce, e
iniziò a mutilarlo a colpi di ascia. Il viola scuro sopraggiunse quasi
istantaneamente. Il vecchio fattucchiere era stato il primo a cadere.
Krthuskra durò solamente qualche
secondo di più. Riuscì a trafiggere un umano al petto e poi un giavellotto
scagliato da un nano a poche decine di metri di distanza gli si conficcò nel
cranio bulboso, facendoglielo esplodere. Fu viola scuro anche lui, poi
la sua aura si dissipò.
Perdere un genitore era doloroso,
ma nella tribù tutti erano stati genitori per Ndhi-ysth in egual modo. Di
nuovo, il giovane rischiò di divenire nero.
Zsogotel riuscì a uccidere altri
cinque uomini prima di cadere. Dovettero circondarlo, recidergli le ali con dei
colpi di ascia ben assestati e trafiggerlo con le lance diverse decine di volte
prima che il suo corpo scheletrico ma straordinariamente resistente smettesse
di muoversi.
Viola scuro. Ndhi-ysth
aveva visto abbastanza. Si voltò, scappò nei boschi lasciando tutta quella
morte alle spalle.
Avrebbe dovuto vivere senza di
loro.
Corse per ore, procurandosi
numerosi graffi a causa dei rami taglienti e carichi di neve.
Verde scuro.
Sarebbero passati trent’anni
prima che fosse stato in grado di generare un altro ogunruhe.
Verde scuro.
Avrebbe dovuto cacciare, dormire,
mangiare solo con la compagnia di sé stesso. Forse avrebbe potuto non farcela.
Verde scuro.
Tanto sarebbe valso morire
direttamente.
Il verde era così scuro
che Ndhi-ysth non aveva mai visto l’eguale.
Continuò a correre fino a che il
suo apparato respiratorio fu in fiamme, i suoi due cuori battevano
all’impazzata, le aure degli alberi si mescolavano a quelle degli animali in
tinte di nero.
Il verde scuro di
Ndhi-ysth si tramutò in viola scuro.
Capì.
Stava fissando negli occhi
Tsc’yich. Era seduto in cerchio con i membri della sua tribù, il vecchio
fattucchiere aveva appena finito di compiere la sua divinazione, dopodiché,
mosso da una volontà incrollabile di far sopravvivere la sua razza, l’aveva
ucciso facendogli vivere il suo incubo più terribile.
Ndhi-ysth si portò una mano al
petto. I suoi due cuori avevano smesso di battere. Gli spiriti avevano dato a
Tsc’yich la comprensione degli eventi futuri, tale per cui lui aveva deciso che
l’unico modo per far sopravvivere la specie era di liberarsi dell’anello più
debole della loro catena. Forse gli spiriti gli avevano rivelato che avrebbero
potuto salvarsi solamente in questo modo. Ndhi-ysth non riuscì mai a
comprendere il perché, ma non lo biasimava, sapeva che la specie era più
importante del singolo individuo. Per gli ogunruhe la comunità era tutto e
riuscì finalmente a provarlo divenendo viola scuro.
Era grato per ciò che il
fattucchiere aveva fatto. Gli aveva permesso di vivere, anche se solo nella sua
mente, gli ultimi giorni con la sua tribù. Gli aveva permesso di imparare cose
che non avrebbe mai imparato, anche se non gli sarebbero mai servite a nulla.
Gli aveva permesso di non
rimanere solo.
Ndhi-ysth osservò con attenzione
Zsogotel e Krthuskra. Anche loro avevano capito e le loro aure si erano tinte
di rosa in un ultimo, disperato abbraccio ad un compagno perduto.
Poi si accasciò e tutto quanto si
fece viola scuro, definitivamente.
Viola scuro non era morte.
Viola scuro era gratitudine.
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