martedì 3 aprile 2012

L'Alchimista dei Mondi



L’Uomo agitò le mani insanguinate tentando di scacciare i mulinelli di nebbia multicolore che gli vorticavano intorno. Da quella densa coltre provenivano scintillii rosa confetto, verde veleno, giallo sabbia e blu notte. Il sangue sgocciolava dalle profonde ferite che gli percorrevano le braccia, simili a osceni tatuaggi tribali.
“Questa è la morte?”, bisbigliò l’Uomo.
Ma non lo era. Il dolore alle braccia lo tormentava, segno che una scintilla di vita ancora possedeva il suo corpo. Ma non vedeva più una strada, non sapeva dove andare. Aveva perduto tutto.
Aveva perduto lei.
La nebbia scintillante iniziò a vorticare più velocemente mentre arrancava sulle gambe malferme. Quell’odore, un misto di zucchero e di zolfo, era l’unica cosa che il suo naso percepiva da un tempo che gli sembrava immemore. Aveva fame, e allo stesso tempo sentiva che il suo stomaco avrebbe rifiutato qualsiasi cibo ingerito.
Aveva bisogno di trovare la via.
Il silenzio tombale venne interrotto da una musica triste che proveniva da lontano. Era il suono di uno strumento a fiato, acuto e vibrante, lo stesso suono che l’Uomo pensava potesse produrre il lamento notturno dei fantasmi.
Qualcuno stava suonando una cornamusa.
L’Uomo raccolse i pochi residui di forza che gli rimanevano e avanzò verso quel suono che avrebbe significato salvezza o morte. Poco gli importava, quale fosse delle due: sarebbe stata comunque una significativa variante all’inedia.
Le nebbie multicolori si ritirarono all’improvviso, lasciando posto al grigiore di una ben più comune nebbia. Davanti a lui si trovava un’imponente scalinata di pietra che portava all’ingresso di un palazzo antico e imponente. Le massicce porte di legno erano spalancate e l’ingresso era ingombro di calcinacci.
L’Uomo salì per qualche gradino, poi il suo sguardo cadde su una placca bronzea posta sul muro di fianco alla porta. “BIBLIOTECA” era l’unica parola leggibile. Guardò dietro di sé, intorno a sé, e non vide nulla eccetto una nera oscurità nebbiosa, un vuoto astrale che separava quel luogo dal resto dei mondi. Il suono della cornamusa proveniva dall’alto, sopra il tetto dell’imponente edificio.
Gli vennero le vertigini e fece appena in tempo a portare le mani davanti a sé, poi vide i gradini della biblioteca che si avvicinavano sempre di più alla sua faccia. Questa volta, fu l’oscurità della sua mente ad avvolgerlo.

Al suo risveglio, tutto era molto più chiaro. Si sentiva dolorante e aveva una forte nausea, ma il dolore alle braccia era completamente passato. Era debole, ma per nulla confuso, e vedeva tutto in maniera nitida.
Si trovava sul tetto della biblioteca, un edificio a quattro piani costruito interamente in pietra grigia. Era un luogo piatto e ampio, dal pavimento polveroso e ingombro di librerie piene di tomi antichi.
Che ci fanno dei libri qui, sul tetto?, si chiese, ma un formicolio alla mano sinistra gli fece abbassare lo sguardo verso il suo corpo.
I numerosi tagli sulle braccia erano stati ricuciti con filo nero da una mano esperta e per quanto non ancora completamente rimarginati, non gli facevano male. Quando però vide che la mano sinistra era assente, amputata poco sopra il polso e la ferita era stata cauterizzata e ricucita dallo stesso filo nero, il suo stomaco si contrasse ed ebbe un paio di conati di vomito.
“Ti sei svegliato. Cominciavo a temere che non l’avresti più fatto”, disse una voce bofonchiante e metallica.
L’Uomo alzò lo sguardo e vide spuntare dagli scaffali una figura avvolta in un mantello fatto di stracci multicolori con il volto protetto da una maschera antigas di gomma e acciaio. Alla bocchetta per l’aria era attaccato un corto tubo che pendeva oscillando davanti alla figura. L’Uomo riuscì a distinguere il profilo di un’arma da fuoco stretto tra le mani della figura, un vecchio fucile a canne mozze.
“Chi sei?”, bisbigliò l’Uomo dopo aver preso un ampio respiro.
“Quello che ha fatto sì che perdessi solamente una mano e non tutte e due le braccia, o forse la vita. Ho fatto tutto il possibile, ma la cancrena ti aveva già preso. Ho dovuto tagliare o saresti crepato su questo tetto nel giro di qualche giorno.”
Per il momento, l’Uomo prese per buona quella risposta e cercò di tirarsi a sedere, ma chiese troppo al suo corpo e dopo un solo tentativo ricadde supino nel suo giaciglio.
“Non mangi da giorni e le tue ferite sono ancora aperte. Ti ho imbottito di antidolorifici, per quello non senti niente. Ma li ho quasi finiti, non posso più dartene, goditi queste ultime ore di pace perché poi comincerai ad urlare.”
“Perché mi hai aiutato?”, chiese l’Uomo. Nessuno l’avrebbe fatto, non da quando il loro mondo si era scontrato con gli altri. Era più facile uccidere un uomo inerme che aiutarlo, più facile rubargli le provviste che offrirgli delle medicine per farlo guarire più in fretta.
“Sei arrivato da là fuori, il mio esperimento ha funzionato. Devo chiederti come, devo capire come funzionano adesso le cose. Devo riuscire a scoprire l’alchimia di queste realtà.”
“Ma io…”, iniziò l’Uomo, ma l’oscurità si impadronì nuovamente della sua mente, trasportandolo in un luogo tenebroso che aveva gli occhi di lei.

Trascorse molto tempo prima che l’Uomo riuscisse a rimettersi in piedi e che le ferite alle braccia si rimarginassero del tutto. Il ciclo di notte e giorno era stato alterato dopo l’esperimento, così non riuscì a fare una stima precisa del periodo in cui l’uomo mascherato si prese cura di lui, fornendogli cibo, riparo e cure mediche, ma era stato senz’altro parecchio tempo.
Dopo le parole che gli aveva rivolto durante il suo primo risveglio, quell’individuo aveva parlato molto poco. Non aveva ritenuto opportuno rivelargli il suo nome, chiedendogli di rivolgersi a lui come Alchimista, così nemmeno l’Uomo l’aveva fatto.
La biblioteca si trovava su una piccola isola di cemento che galleggiava nel vuoto, intrappolata chissà come nelle fenditure tra i mondi conosciuti. L’Uomo non riusciva a spiegarsi come fosse arrivato lì, né perché il misterioso Alchimista ne avesse fatto la sua dimora. Ogni tanto, qualche stella sfrecciava nell’oscurità e un pallido sole di colori cangianti faceva capolino dalla nebbia grigiastra, ma erano sicuramente casi fortuiti. Ad eccezione di loro due e di centinaia e centinaia di anni di conoscenze perdute, in quel luogo non c’era nient’altro.
L’Uomo controllava spesso la mutilazione al braccio sinistro, pensando che d’ora in poi avrebbe dovuto cavarsela con una mano in meno e chiedendosi se l’Alchimista avesse effettivamente fatto tutto il possibile per lui. Non si toglieva mai la maschera antigas, non si cambiava mai i vestiti, non mangiava mai. Eppure era sicuro che sotto quella moltitudine di stracci colorati ci fosse un uomo come lui, era una sensazione che percepiva a pelle. Forse era stato sfigurato e si vergognava di mostrare il suo volto, oppure quell’assurda maschera metallica lo manteneva in vita.
I dubbi su cosa cercasse e perché fosse lì, quale fosse il suo obiettivo, continuavano a tormentarlo, ma ogni volta che gli rivolgeva domande sentiva rispondersi che le risposte sarebbero arrivate quando fosse guarito del tutto.
Un giorno l’Uomo si alzò dal letto e si mise a cercarlo tra le centinaia e centinaia di scaffali che stavano su quel tetto, un vero e proprio labirinto di legno e carta. Lo trovò seduto su uno sgabello, circondato da pile di libri, intento a sfogliare le pagine di un vecchio tomo rovinato e dal titolo illeggibile.
“Sono guarito, ora possiamo parlare”, gli disse.
“Lo credo anch’io”, rispose l’Alchimista. Chiuse il tomo con un tonfo e con una mossa elegante e atletica si alzò in piedi. L’Uomo si accorse che aveva poggiato la mano sull’impugnatura del rugginoso fucile che portava sempre con sé.
“Voglio sapere chi sei e perché mi hai salvato la vita”, gli disse.
“L’erba voglio cresce solo per me su questo tetto – gli rispose lui con voce rauca – attento, perché il mio amico qui potrebbe invalidare tutte l’assistenza medica che ti ho gentilmente concesso”. L’Alchimista batté la mano sul fucile con aria esplicativa.
“Mi hai salvato e ora vuoi uccidermi? Bastardo!”
“Niente di tutto questo, ma ora sei di nuovo in piedi e io non ti conosco. Non so chi sei, da dove vieni, perché hai risposto al mio richiamo. Così preferisco premunirmi. Ti farò delle domande e vorrò delle risposte. Se mi avranno soddisfatto allora potrai rivolgermi tutte le domande che desideri.”
“Sta bene”, acconsentì l’Uomo, sapendo di non avere altra scelta.
“Bene, dunque, da dove cominciare? Oh, sì, voglio sapere dove ti trovavi prima di arrivare alla biblioteca. Dove ti sei fatto tutte quelle ferite. Come sei arrivato qui.”
Gli occhi di lei gli tornarono in mente, come una ferita dolorosa che gli lacerava il cuore. Quell’uomo doveva essere un pazzo, uno psicopatico disturbato, e forse sarebbe stato meglio accontentarlo. L’Alchimista batté di nuovo la mano sul fucile e l’Uomo cominciò a raccontare.
“Mi trovavo in un bosco, al di là di questa nebbia, al di là del vuoto. Non so dove era, ma tutto era strano, folle, meccanico. Un incubo partorito da un visionario Gli alberi, alti e verdeggianti, avevano tronchi fatti di ferro rugginoso e foglie d’acciaio verde taglienti come rasoi. Il terreno era polvere di plastica rossa, il vicino ruscello un fiume di mercurio liquido… eravamo io e lei, che mi accompagnava dall’inizio di tutto questo, da quando l’esperimento è stato svolto. Non c’era cibo, eravamo affamati, ma dormivamo, felici di aver trovato un luogo forse freddo e inospitale, ma se non altro sicuro. Non c’erano nebbie vorticanti in quel bosco sintetico, nessun cazzo di mostro pronto a dilaniarti.”
“In quel luogo le creature ci sono eccome”, lo interruppe l’Alchimista.
“Sì, è così. Sono spuntati durante il sonno, bastardi lupi dagli occhi di un rosso luminoso come dei laser accesi, una pelliccia dura di fitti aghi d’acciaio, zanne più simili a coltelli… ci hanno attaccato, me l’hanno portata via. Io ho cercato di prenderla, ma era troppo tardi, di lei rimanevano solo brandelli di carne e sangue. Sono scappato, ma un lupo aveva artigli rugginosi e mi è saltato addosso. Mi ha ferito le braccia, forse mi sono preso il tetano, chi lo sa… sono fuggito nella nebbia e mi sono trovato in un luogo pieno di ombre e colori e lì ho vagato per molto, molto tempo. Non so nemmeno quanto, ma è stato di sicuro lungo. Giorni, settimane, chi può dirlo? Fino a che non ho sentito la cornamusa… e sono arrivato qui. Eri tu, vero? Eri tu a suonarla?”
“Io, sì. Hai sentito il suo suono nella nebbia? Ne sei perfettamente sicuro?”, chiese l’Alchimista avanzando verso di lui, protendendo le braccia colme di eccitazione.
“Chiaro come quel cazzo di sole che ora non c’è più.”
“Ha funzionato! Ha funzionato! L’alchimia funziona ancora!”, urlò l’uomo in preda alla gioia. Iniziò a saltellare per il tetto come un pazzo e facendo sbatacchiare di qua e di là il tubo collegato alla maschera antigas. Intere pile di libri caddero travolte dal suo corpo.
“Spiegami cosa succede! Voglio che tu mi risponda, come diavolo hai fatto? Nessuno può controllare i mondi!”
“Io posso!”, disse l’Alchimista colmo di orgoglio. Si guardò intorno e si grattò la testa coperta dalla gomma come se fosse imbarazzato per la perdita di controllo che aveva appena subito. Raccolse alcuni libri e li sistemò accanto ad uno scaffale dall’aspetto malconcio.
L’Uomo incrocio le braccia, attendendo spiegazioni più dettagliate.
“Quanto ne sai dell’esperimento?”, chiese l’Alchimista con tono di voce basso e profondo.
“Abbastanza. Un folle tentativo di mischiare la scienza con la magia rituale e alcuni concetti filosofici e religiosi. So che hanno chiamato i più grandi scienziati e occultisti di tutto il mondo per creare quel fottuto congegno, il cubo.”
“Nanaeel Caosgi, “il mio potere sulla terra” nella lingua Enochiana. Un cubo d’acciaio con lato di п metri, con tutte le facce completamente istoriate con formule fisiche e matematiche, preghiere, immagini sacre e formule rituali provenienti dai grimori degli stregoni di tutti i tempi, un oggetto che se attivato avrebbe potuto congiungere il nostro universo con gli altri. Il più grande progetto della storia umana e al tempo stesso il suo più grande fallimento.”
“Gli universi non sono fatti per sovrapporsi e questo è il risultato”, disse l’Uomo indicando con il moncherino il vuoto nebbioso che circondava la biblioteca.
Era proprio quello che era successo. Il Nanaeel Caosgi era stato creato per provare l’esistenza di universi alternativi e realtà parallele, dimensioni nascoste e ripiegate all’interno e all’esterno di questo mondo. Quando l’infernale macchinario era stato attivato per la prima volta, però, aveva fuso insieme tutti i mondi, creando un guazzabuglio apocalittico di luoghi, creature, pensieri e leggi della fisica. Esistevano luoghi identici alla vecchia terra come quella strana biblioteca, luoghi talmente inospitali e alieni che la vita umana era semplicemente impossibile e persino luoghi di nulla assoluto. Era l’apocalisse, la più terribile che fosse stata mai immaginata.
“Ne sai abbastanza. Ho incontrato alcuni sopravvissuti in passato, ma la maggior parte non aveva mai sentito nominare il Nanaeel Caosgi, altri l’avevano reputato una leggenda. Tu come fai a saperlo?”
L’Uomo se lo ricordava molto bene il momento in cui la fine era arrivata.
“Ero uno dei soldati incaricato di proteggere gli ingegneri che l’hanno costruito.”
“Alchimia – rispose l’uomo mascherato, tentando di celare il tono sorpreso della sua voce – forse mi potrai essere davvero utile. Conosci la teoria dell’effetto farfalla?”
“Il battito di ali di una farfalla in un prato può provocare un uragano dall’altra parte del mondo”, rispose lui, felice che l’Alchimista si fosse apparentemente calmato.
“Sì, sì, è così! Vedi, se quella teoria era già vera quando il nostro mondo era separato dagli altri, prova a immaginare quali potrebbero essere le sue possibilità ora che i mondi sono molti! Se nel vecchio mondo compivo un’azione, la reazione era molto prevedibile. Ora dobbiamo confrontarci con la fisica di infiniti mondi oltre il nostro! Immagina cosa potrebbe fare il battito di ali di una farfalla, oltre che a produrre un uragano! Potrebbe far collidere interi luoghi, creare la vita, produrre mortali tempeste di fuoco!”
“Calmati – disse l’Uomo protendendo le braccia avanti a sé – non riesco più a seguirti.”
“Quello che voglio dire è che se prima della collisione dei mondi il suonare una cornamusa avrebbe semplicemente prodotto della musica ora può dare vita a reazioni completamente diverse, perché deve confrontarsi con logiche e fisiche completamente estranee a noi! Potrebbe produrre una tempesta, uccidere una persona o, come è successo con te… portarla qui. Come gli antichi alchimisti giocavano con gli elementi per trasformare la realtà, io voglio ripercorrere i loro passi per produrre nuove e sicure reazioni. Perché una porta che conduce in un luogo può condurre ad un luogo completamente diverso se passando sotto la sua arcata si fischietta una canzone? Perché mischiando il giallo con il blu non sempre si ottiene il verde?”
L’Uomo si portò l’unica mano alla testa, sentendo una forte fitta che lo martellava dietro gli occhi. Tutto ciò suonava pazzesco, ma… se fosse stato vero? Da quando i mondi si erano fusi nulla aveva più funzionato come prima. La porta della cucina del tuo appartamento poteva diventare una porta per una fornace infernale da un momento all’altro. La luce ogni tanto scompariva formando bolle di oscurità. La nebbia si muoveva come se fosse stata viva.
L’Alchimista voleva ricercare tutte queste chiavi. I segreti della vita e della morte, dei quattro elementi, forse la giusta azione per far sì che i mondi si scindessero come naturale reazione.
“Voglio aiutarti”, disse l’Uomo.
L’Alchimista annuì e, sebbene non potesse vederlo, l’Uomo sapeva che stava sorridendo sotto la maschera.

La quantità di alchimie che si potevano generare erano pressoché infinite, un numero talmente elevato che l’Uomo non avrebbe saputo dove cominciare se non avesse avuto l’Alchimista al suo fianco. Si trovavano in una biblioteca, un deposito di tutto lo scibile umano prima dell’apocalisse, informazioni che ora, per la maggior parte, avevano lo stesso valore della carta straccia. L’Alchimista gli disse che forse gli antichi popoli erano riusciti a trovare alcune delle chiavi perdute, sebbene non ne fossero pienamente consapevoli. Presso il popolo delle Highlands si usava suonare la cornamusa per accompagnare il cammino dei defunti verso l’oltretomba, cosa che da un certo punto di vista aveva delle similitudini con quello che era accaduto all’Uomo.
La biblioteca aveva molti vecchi manoscritti sulle antiche religioni, rituali pagani e credenze popolari, per cui i due partirono con l’analizzare quei testi, ma non si fermarono lì.
Scoprirono che un fischio modulato che comprendesse un’intera scala di note, se effettuato in un determinato angolo del tetto della biblioteca, creava una cascata di piccole piume bianche a poche decine di metri di distanza, che fluttuavano nel vuoto per una dozzina di secondi prima di sparire in un bagliore di luce violetta.
Una formula magica degli antichi sacerdoti egiziani permetteva di trasformare in serpenti velenosi la carne andata a male.
Un rito di benedizione dei campi dei druidi celtici rendeva commestibili i rampicanti che crescevano sul lato ovest dell’edificio.
La digitazione del numero “54652836” su una vecchia calcolatrice tascabile scacciava per circa quattro secondi la nebbia che avvolgeva la biblioteca, lasciando intravedere il nero vuoto cosmico.
“Chissà quante reazioni che non possiamo vedere vengono scatenate da ogni nostra singola azione! Con ogni nostro movimento, con ogni tentativo che ci appare infruttuoso noi stiamo alterando gli universi!”, esclamava l’Alchimista ogni volta che un esperimento non andava a buon fine, cosa che accadeva fin troppo spesso.
L’Uomo continuava a pensare a lei, la donna che aveva perduto, uccisa dai lupi di metallo. Era stata la sua amante e la sua compagna da quando l’apocalisse era giunta. Erano stati insieme per amore, odio e disperazione e avevano proseguito fino alla fine. Poi i mondi avevano deciso di portarsela via in una folle esplosione di ossa, carne e sangue. Divorata da bestie che non avevano bisogno di mangiare, che cercavano solo di soddisfare un istinto naturale.
Ora il suo unico compagno era un pazzo senza volto e senza passato che aveva deciso di salvare il mondo procedendo per tentativi, alla cieca, mosso soltanto dalla speranza e dalla fede.
Un esperimento di magia cabalistica fece scoppiare un incendio sul tetto della biblioteca, distruggendo centinaia di preziosissimi tomi.
L’automutilazione rituale creò un varco extradimensionale che attirò decine di mostruose creature scimmiesche, fatte di plastica vivente, all’interno dell’edificio. L’Uomo e l’Alchimista rischiarono la vita più volte per eliminarle tutte a colpi di fucile.
Ad ogni sveglia gli esperimenti si facevano sempre più audaci e pericolosi. L’Alchimista rideva sempre più, impazziva di gioia quando fenomeni apparentemente inspiegabili si verificavano all’interno della biblioteca, come la formazione di crepe nel pavimento di piastrelle di ceramica bianca o l’improvvisa apparizione di pozzanghere di sangue coagulato sui soffitti.
“Una farfalla ha sbattuto le ali in un altro universo”, sussurrava quando accadevano fatti simili.
L’Uomo, a differenza dell’Alchimista, aveva un obiettivo: far tornare indietro lei. Se con alcune combinazioni di azioni era possibile creare fuoco dal nulla, far apparire creature da altri mondi o giocare con le luci e con il tempo, l’Uomo pensava che sarebbe stato possibile farla riapparire, portarla a sé prima che venisse sbranata da quei lupi.
Le sue ricerche erano quindi principalmente focalizzate sugli antichi rituali funebri degli egiziani e dei sumeri, sulle tecniche di imbalsamazione dei primi del ‘900, sulla convocazione di spiriti degli indiani americani.
Provò e riprovò fino all’esaurimento delle proprie energie fisiche e mentali. Ottenne diversi risultati, ma nessuno fu quello sperato. La sua carne assunse la rigidità della morte, il suo respiro divenne di polvere, attorno a lui iniziarono a radunarsi centinaia e centinaia di corvi neri, ma lei non tornò.

Dopo l’ennesimo esperimento fallimentare, l’Uomo si recò dall’Alchimista. Lo trovò intento a consultare un’antica Bibbia del XVI secolo. Mentre leggeva i suoi paragrafi accarezzava ogni singola pagina come se ne fosse sessualmente attratto.
“Ne ho abbastanza, pazzo bastardo!”, tuonò l’Uomo, ormai ridotto fisicamente ad un cadavere.
“Qual è il problema?”, chiese lui candidamente.
“Tutta questa è follia! Tu la reputi una scienza, un’Alchimia degli eventi, ma non lo è! Non è possibile alterare gli universi semplicemente con la speranza che ciò avvenga! Quello che stai cercando di infilarmi nel cervello è come una religione: rituali senza significato che si svolgono per ottenere un’ombra di falsa speranza! Ma io non ci credo, non voglio essere un cieco! Io voglio fare, non voglio che le cose avvengano imputandole a chissà quale fottuta forza superiore!”
“So cosa stai cercando e secondo me non puoi ottenerla in quel modo, non in questi mondi. Non puoi decidere quando una farfalla deve battere le ali.”
“Te lo dimostrerò, maniaco psicotico. Tu vendi false illusioni, io ti propongo la realtà, che è sempre più difficile da ricercare e più complessa da capire, sarà per questo che ti nascondi dietro quella maschera. Non perché non vuoi farti vedere, sei tu a non voler vedere.”
L’Uomo si allontanò, lasciando il silenzioso Alchimista con la sua Bibbia e il suo cervello pieno di false speranze. Era intenzionato a compiere il miracolo.

Trascorse i periodi successivi a riconsultare i testi, fondere tra loro i rituali antichi e aggiungendo una piccola parte di conoscenze scientifiche e paranormali. Mischiò la formula della formaldeide e le molecole di carbonio ai 21 grammi dell’anima. Usò il metodo, non il caso. Non si appellò alla speranza.
Provò e riprovò, fino a che, dopo un tempo talmente lungo che i suoi capelli erano divenuti bianchi e le braccia tremolanti, riuscì a portarla lì. Era lei, identica all’ultima volta che l’aveva vista in vita. L’Uomo si avvicinò, la strinse tra le sue braccia, la baciò dolcemente sulla fronte.
“Ti ho riportato da me”, fece in tempo a dire, poi lei si dissolse in una nuvola di polvere grigia. L’Uomo strinse l’unico pugno che gli era rimasto, pianse tutte le lacrime che gli erano rimaste in quel corpo secco e urlò. Sfogò tutta la sua rabbia e fu durante quella furia che non aveva più nulla di umano che realizzò che ce l’aveva fatta. L’aveva riportata da lei, seppure per poco tempo.
L’Alchimista, nascosto tra le massicce librerie della biblioteca, aveva visto tutto e si fece avanti tenendo tra le mani il fucile, furente ed invidioso per aver assistito a ciò che lui non era mai stato in grado di fare con le sue permutazioni casuali di elementi.
Puntò il fucile alla schiena dell’Uomo, sofferente e vittorioso, e sparò un singolo colpo. Le viscere del vecchio esplosero con un rombo, spargendosi per tutta la stanza e macchiando i libri immacolati.
L’Uomo si volse verso di lui e lo osservò con attenzione. Si era aspettato una reazione del genere, aveva capito da tempo che quello era l’effetto farfalla che gli era destinato, ma ormai aveva fatto tutto ciò che doveva. Aveva provato che il metodo era possibile. Poteva morire in pace.
“Ti assolvo dai tuoi peccati”, sussurrò l’Alchimista.
L’Uomo chiuse gli occhi e morì. Dall’altra parte non ci fu niente ad attenderlo.

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